LE SOCIETÀ
DI CACCIA-RACCOLTA
IL
MESOLITICO
IL
NEOLITICO, 1
LA
MEZZALUNA FERTILE
IL
PROTO-ALLEVAMENTO E LA PROTO-AGRICOLTURA NELLA MEZZALUNA FERTILE
L’EVOLUZIONE
DEI PROTO-VILLAGGI AGRICOLI NEL VICINO ORIENTE
IL TELL DI JERICHO
LA
DOMESTICAZIONE DEL CANE E DEL GATTO
UOMO
E AUTODOMESTICAZIONE
SINDROME DA
DOMESTICAZIONE
LA
DOMESTICAZIONE DEGLI ANIMALI
IL
PALEOLITICO
LE SOCIETÀ
DI CACCIA-RACCOLTA
Le bande di
cacciatori-raccoglitori (di solito tra dieci e venti individui) che vivono
secondo le modalità proprie a una società di caccia-raccolta, sono nomadi,
ossia si spostano periodicamente seguendo le modalità con cui si presentano le
risorse trofiche costanti (fauna e flora selvatica) dell’habitat in cui vivono. Il territorio è poi sfruttato grazie al
possesso di un pacchetto mesolitico che ha fissato diacronicamente le
conoscenze, altamente specializzate, sul valore alimentare, sulla distribuzione
e sull’utilizzo dell’intero complesso dei vegetali e degli animali e sulle
tecnologie adatte a quell’ambiente specifico (e che ogni appartenente al gruppo
deve conoscere, pena la morte, essendo non sempre data la suddivisione dei
compiti), e questo sfruttamento si manifestata entro un ciclo temporale grossomodo
stagionale. Ognuno di questi gruppi sfrutta il
territorio in modo che, è importante sottolinearlo, non travalichi la zona che è occupata da un altro gruppo (il
che sottolinea il fatto che la densità di un gruppo deve essere, ed è, sempre
in equilibrio con le possibilità alimentari che ha a disposizione, deve cioè
rispettare le capacità di portata del territorio). Nel caso si presenti un esubero
di risorse non date come costanti, ma periodiche (ad esempio, un’abbondanza
carnea dovuta a una più fortunata battuta di caccia), nella zona di confine tra
due o più gruppi, si può assistere allora a uno scambio che è la precondizione che determina poi
la possibilità di una rete di relazioni e legami sociali in un più ampio
dispositivo di raggruppamento degli individui di vari gruppi, tanto che ogni
gruppo può diventare specialista nei confronti dei gruppi vicini. Facendo un
esempio teorico, un gruppo che vive in un micro-habitat che favorisce periodicamente le graminacee spontanee può
diventare, con la raccolta, fornitore di convertitori biologici vegetali in
cambio di quelli animali, questo se l’altro gruppo vive in un micro-habitat che vede la presenza periodica
di flussi di pecore selvatiche che diventano selvaggina, tanto che i due
gruppi, per sopravvivere, abiteranno in simbiosi territori contigui;
normalizzando così, sempre per continuare l’esempio, i rapporti con lo scambio
di prodotti e di donne (esogamia), creando cioè un dispositivo di
raggruppamento d’individui ch’è squisitamente economico e sociale e che coesiste con pacchetti
tecnologici e conoscitivi adatti a quell’ambiente e non a un altro e che questo
dispositivo lo determinano, vale a dire sfruttando la giusta quantità di lavoro
e di risorse e creando una rete fissa di scambi coerente con le necessità
riproduttive che l’ambiente permette. Cementando così, nel detto dispositivo,
l’aspetto sociale egualitario (la rete fissa) con l’aspetto economico (gli
scambi e il versante nutrizionale), il tutto nel rispetto del dato ambientale,
in coerenza con il pacchetto tecnologico vigente e con l’aspetto biologico (le
necessità riproduttive permesse). Insomma, e senza idealizzare più di tanto le
società di caccia e raccolta dove, se l’ecosistema è equilibrato, queste
possono ricorrere a riserve di cibo disponibili in natura, a uno stile di vita
che non porterà, come avviene nel passaggio dalla caccia e dalla raccolta all’agricoltura
(v. infra) e come mostra l’insieme
della documentazione archeologica ed etnografica oggi disponibile, alla
necessità d’un surplus di lavoro, a
un peggioramento delle condizioni nutrizionali, a malattie e a incrementi
demografici non sostenibili, a una collettività dove domineranno le
disuguaglianze economiche e sociali, lo sfruttamento e delle risorse e degli
uomini nell’ottica d’uno stravolgimento degli equilibri dell’ambiente che
porterà a un suicidio ecologico che data a partire dal Mesolitico.
IL
MESOLITICO
Nel Quaternario
s’è visto che, tra la fine del Pleistocene e l’avvio dell’Olocene, s’assiste a
una deglaciazione (all’altezza del 10 000 a.C.) e al progressivo affermarsi di
un regime climatico post-glaciale, che si conferma nel Mesolitico e che
sostituisce il clima preesistente con quello temperato, ossia con il caldo e
l’umido che permettono l’avanzata della flora e della fauna verso il Nord
Europa. Sui territori liberati dai ghiacci, infatti, comincia ad avanzare
l’abete rosso (Picea excelsa) e si
presenta il fenomeno di un allungamento del periodo di esposizione della
vegetazione ai flussi solari. L’abete rosso incalzato dalla quercia (Quercus) e dal frassino (Fraxinus), migra verso Nord fino al
limite degli alberi (o timberline, v.
supra), oltre la quale frontiera ci
sono la vegetazione della tundra (caratterizzata, come detto, dall’assenza di
formazioni vegetali arboree) e i ghiacciai perenni. Insomma, e lo si ripete, si
viene praticamente a formare, alla latitudine più a Nord dopo la tundra, un
bioma di aghifoglie (Gimnosperme)
detto taiga (v. supra), seguito,
nelle zone temperate, dalle foreste di latifoglie (Angiospermae) e con uno strato di sottobosco ben sviluppato,
appunto il bioma classificato come foresta temperata (v. supra) che
è quello
maggiormente trafficato dall’uomo nel Mesolitico. Nella tundra, prima della
deglaciazione, vive un insieme di animali, detto Megafauna (v. supra), che è dato dal gruppo di animali che s’è
adattato a condizioni di freddo estremo, quali il Mammuth (Mammuthus), il
Rinoceronte lanoso (Coelodonta
antiquitatis), il grande Orso delle caverne (Ursus spelaeus), l’Alce gigante (Megaloceros giganteus, con corna palmate fino a 5 m d’ampiezza) etc., resta però che con lo scioglimento
dei ghiacci questa Megafauna si rarefà, tanto che si stima che la densità degli
animali si sia ridotta del 99%, una vera e propria estinzione di massa (v. supra). La tabella seguente mostra
l’estinzione dei Mammiferi superiori a 40 kg nel Paleartico occidentale nel
Tardo Pleistocene (tra 35 000 e 10 000 anni fa ca.):
SPECIE
|
MEDIA DI PESO STIMATA IN kg
|
SOPRAVVIVENZE POSTGLACIALI AL DI FUORI
DEL PALEARTICO OCCIDENTALE [1]
|
ORSO
DELLE CAVERNE
|
500
|
NO
|
IENA
MACCHIATA (CROCUTA CROCUTA)
|
85
|
SÌ [2]
|
ELEFANTE
LANOSO
|
5 000
|
SÌ
|
ELEFANTE
DELLE FORESTE
|
9 000
|
NO
|
RINOCERONTE
DELLE STEPPE (STEPHANORINUS HEMITOECHUS)
|
1 600
|
NO
|
RINOCERONTE
LANOSO
|
2 900
|
NO
|
IPPOPOTAMO
|
2 500
|
SÌ [2]
|
MEGALOCERO
GIGANTE
|
700
|
NO
|
BISONTE
DELLE STEPPE
|
1 000
|
NO
|
[1] Esclude la Groenlandia a Nord e
arriva, a Sud, fino al Sahara settentrionale e a parte della Penisola arabica
settentrionale; a Occidente include tutte le isole dell’Oceano Atlantico
Nordorientale fino a Capo Verde e a Oriente il confine coincide con quello
orientale della Russia europea e del Mar Caspio fino a comprendere l’Iran
[2] Sopravvive nell’Africa
subsahariana.
Tabella
n. .
Fonte (modificata): Masseti, 2008, p. 22.
La causa di
questa rarefazione è reperibile nel ritiro alle latitudini artiche della
tundra, ossia dalla scomparsa della base alimentare di questi animali di grossa
taglia, ma probabile causa concomitante la si ritrova nelle stragi
ecologicamente disequilibrate dovute alla eccessiva pressione venatoria (overkill) dei predatori favorita anche
dal climax delle tecnologie venatorie
(tipo di predazione, per inciso, che non è avvenuta solo in Europa, ma anche
nelle Americhe e in Australia, cioè ovunque dove Homo sapiens è arrivato, v. supra). Questi animali, inoltre, non possono vivere
nelle foreste che prendono il posto della tundra alle latitudini meridionali
europee, come dire che per ragioni biologiche è impossibile il loro adattamento
alle condizioni climatiche proprie all’Olocene nella sua fase iniziale, cioè al
surriscaldamento e alla comparsa di climi caldi e, soprattutto, umidi. Ora, di
questi animali di grossa taglia sopravvivono, se pure drasticamente ridotti di
numero, bovini e cavalli e pochi altri. Pertanto la diffusione di un’economia
di caccia-raccolta, che precedentemente si indirizzava alla megafauna, in
quanto ora l’ecosistema non è più equilibrato come il precedente, è adattativa
con il nuovo habitat forestale; è sì
come prima predatoria e parassitaria, auto-sufficiente, solo che ora il
nomadismo dei cacciatori-raccoglitori si manifesta entro un’area geografica in
cui la distribuzione delle specie selvatiche di vegetali e d’animali s’è
allargata, si presenta cioè con un areale forestale che disloca le sue risorse
in un largo spettro di possibilità alimentari. Differente, dunque, rispetto
all’area di caccia e raccolta dell’ultima fase del Paleolitico (caccia
generalizzata) a causa, lo si ripete, della scomparsa dei branchi di animali di
grossa taglia che obbligano all’intensificazione e della raccolta vegetale
(radici, tuberi, bacche, frutti, semi, con prime interferenze sul ciclo di vita
delle piante per aumentarne la produttività) e all’alimentazione carnea di
selvaggina di piccola taglia (micro-mammiferi) tipica delle foreste o di pesca
d’acqua dolce o salata o con l’uccellagione; da sottolineare che lo spostamento
(eventuale) degli uomini al seguito delle mandrie si fa poi specializzato e si
manifesta con i prodromi di un’alimentazione carnea di riserva, ossia con
l’incubazione di quella che sarà una gestione delle mandrie pari al controllo
della riproduzione con la pastorizia e l’allevamento. Vale a dire, insomma, che
con la deglaciazione si manifesta una riconversione coatta verso un regime
alimentare che sarà poi foriero di nuovi, ma degradati, standard nutritivi e di novità tecnologiche (v. infra).
Per avere
invece un’idea complessiva dell’alimentazione carnea delle bande di
cacciatori-raccoglitori riferita alle cronologie culturali del Paleolitico e
del Mesolitico, valga il grafico seguente che mostra i risultati di un’indagine
sui diversi resti osteologici di animali mangiati (in percentuale) restituiti
da 165 siti archeologici europei del tardo Paleolitico e del Mesolitico, dai
quali risulta che la frequenza dei resti d’alcuni carnivori di piccole e medie
dimensioni può a volte rivelarsi superiore a quella di specie apparentemente
più attraenti sotto il profilo venatorio e alimentare quali, per esempio,
l’alce, Alces alces, il camoscio, Rupicapra rupicapra, il bisonte europeo,
Bison bonasus e la renna, Rangifer tarandus:
Figura n. .
Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 25 (il Cervo nobile, o cervo reale, è il Cervus elaphus; tra i Mustelidi si
trovano lontre, tassi, donnole, martore etc.;
tra i Lagomorfi la lepre e il coniglio).
Da
sottolineare è poi anche il fatto che il nuovo regime economico di caccia e
raccolta presente nell’Europa mostra caratteristiche trofiche diverse rispetto
alla caccia-raccolta del Vicino Oriente, essendo la biogeografia
qualitativamente e quantitativamente
altra nelle due aree (come dire che le latitudini, i suoli e i climi sono
diversi, dunque variano le fitofonti, quali ad esempio bacche, frutti
selvatici, funghi, radici con cui ci si nutre in Europa, mentre nel Vicino
Oriente si raccolgono semi selvatici di cereali e leguminose; e lo stesso
dicasi delle zoofonti, per esempio, gli uni si nutrono di selvaggina o di
specie animali proprie delle foreste decidue, quali cinghiali, caprioli, cervi,
potendo di lumache d’acqua, di pesci e crostacei, gli altri di gazzelle, daini,
capre, pecore, antilopi), anche se è vero che entrambe le zone risentono
fortemente d’un impoverimento biocenotico che eleva i costi sociali per
l’ottenimento delle proteine animali e vegetali. Oltre che alla citata
diminuzione di taglia degli animali cacciati, si assiste anche, dal punto di
vista tecnologico, a una miniaturizzazione dell’industria litica e alla sua
standardizzazione e specializzazione che sfocia, con il declino dell’uso
diretto della selce, nell’uso dei micro-utensili per modellare una
strumentazione in osso (e, probabilmente, in legno e cuoio), oppure per
produrre utensili misti caratterizzati dall’inserimento di piccole punte
geometriche di selce giustapposte in manici di legno (o microliti) o utensili
dotati di manico in guaine di corna di cervo; sono inoltre usati l’arco, la
freccia (strumenti che tengono conto del fatto che, in ambiente forestale, lo
stile di caccia si è dovuto modificare facendosi, da collettivo che era,
individuale) e, per la pesca, l’arpione e l’amo. Tutte le caratteristiche sopra
delineate designano poi una formazione economico-sociale postpaleolitica, detta
Mesolitico (ca. 10 000-9000 a.C.), che precede e prepara quella propriamente
Neolitica.
IL
NEOLITICO, 1
LA
MEZZALUNA FERTILE
La figura a
seguire valorizza la presenza dei tratti del clima mediterraneo (clima caldo a
estate asciutta, con presenza dunque di siccità, e inverni miti con
precipitazioni tra i 250 e 300 mm, v. supra)
in varie aree del mondo, aree anche molto distanti fra loro, ma sempre situate
tra il 30° e il 40° parallelo; cioè, partendo da sinistra e dall’alto in basso,
la California e parte del Cile (quello non andino), la regione mediterranea, il
Capo occidentale del Sudafrica meridionale e l’Australia sud-occidentale e
sud-meridionale:
Figura n. .
Fonte: Masseti, 2008, p. 4.
Di
quest’insieme, valorizziamo per ora la delimitazione approssimativa dell’area
mediterranea con le sue propaggini, là dove sono poi presenti i tratti
biogeografici (che sono qui concentrati, seppure in un notevole ventaglio di
varianti regionali) che sono determinanti le congiunture di un dato divenire
storico delle società di caccia e raccolta, quelli che caratterizzano dal punto
di vista dello sviluppo economico, sociale e culturale l’epoca storica del
Neolitico, qui dove si ritrova la Mezzaluna Fertile, la più antica zona di
produzione alimentare al mondo e il sito d’origine delle principali specie
vegetali e animali (anteriori al 7000 a.C.) che sono oggi coltivate e allevate,
e la figura seguente ne mostra la geografia che s’estende ad arco dall’Egitto
attraverso la Palestina (situata sulla costa orientale del Mare Mediterraneo fino
al Deserto siriaco e al corso del fiume Giordano), la Siria arrivando poi fino
alla Mesopotamia (la regione compresa tra l’Eufrate e il Tigri):
Figura n. .
Fonte: Diamond, 1998, p. 103.
Di quest’area,
per prima cosa, anche se ci sono molte zone del mondo, come appena visto, che
presentano un clima mediterraneo, sottolineiamo ch’è solo nella Mezzaluna
Fertile che si manifesta la più vasta estensione contigua di terre con questo
clima pedologico, ciò che permette una maggiore diversità animale e vegetale
(infatti, in quest’area si verificano le più forti escursioni stagionali, il
che favorisce l’evoluzione di un’alta percentuale di piante annue, giusto
quelle, come si vedrà, preferite dagli agricoltori). Per esempio, tra le 56 specie
dal seme più grosso, cioè quelle scelte e utilizzate dall’uomo agricolo in
quanto il loro peso è dieci volte tanto la media delle erbacee (su mille e più
specie edùli, cioè commestibili, scelte e utilizzate dai
cacciatori-raccoglitori), ben 32 si concentrano nella Mezzaluna Fertile, ossia
sono a disposizione dei cacciatori-raccoglitori autoctoni e tra queste le prime
piante che saranno domesticate, quali, tra i cereali, l’orzo, il farro e l’Einkorn (progenitore del grano); tra i
legumi, le lenticchie, i piselli, i ceci e la veccia, e il lino tra le fibre.
Dunque ben otto piante autoctone che possono considerarsi fondatrici
dell’agricoltura mediorientale (al contrario, il Cile di piante ne ha a
disposizione due, la California e il Sudafrica una a testa l’Australia
sudoccidentale nessuna, come mostra la tabella seguente che indica gli areali della
distribuzione delle 56 specie, là dove sono presenti anche aree con un clima
arido):
REGIONI
FLORISTICHE (UNITÀ FITOGEOGRAFICHE)
|
NUMERO DI
SPECIE
|
|
OLARTIDE
|
MEDITERRANEO
|
32
|
INGHILTERRA
|
1
|
|
AMERICA DEL NORD
|
4
|
|
PALEOTROPICO
|
ASIA ORIENTALE
|
6
|
AFRICA SUBSAHARIANA
|
4
|
|
NEOTROPICO
|
AMERICA DEL CENTRO
|
5
|
AMERICA DEL SUD
|
2
|
|
AUSTRALE
|
AUSTRALIA SETTENTRIONALE
|
2
|
TOTALE
|
56
|
Tabella n.
. Fonte (adattata): Diamond, 1998, p. 107.
Per seconda
cosa, la Mezzaluna Fertile (ch’è a cavallo di Palestina, Libano, Giordania, Siria e Iraq)
presenta una grande diversità orografica che favorisce la biodiversità, cioè la
variabilità all’interno di una singola specie vegetale (ad esempio, varietà di
pianura e varietà di montagna) o tra specie diverse e tra ecosistemi (ad
esempio, tra gli ecosistemi terrestri e quelli acquatici, tra una pianura e un
fiume, o tra quelli che presenta una montagna che, a quote diverse, mostra
ecosistemi variabili, con la presenza di nicchie protette nelle vallate); si
va, infatti, dalla depressione più bassa al mondo, a El Ghor (nella cui
depressione tettonica è il Mar Morto, ai confini di Israele, Cisgiordania e
Giordania, v., supra, la Great Rift Valley), a 408 metri sotto il
livello del mare, a monti poco meno alti di 5000 metri (Zard-e Kuh, nei Monti
Zagros, lungo il confine occidentale dell’Iran, raggiunge 4547 metri), passando
per pianure attraversate da fiumi (il Giordano, in Palestina; l’Eufrate e il
Tigri, in Iraq), colline e deserti. Per terza cosa, la ricchezza e la diversità
di ambienti offre il vantaggio unico di un’abbondanza di specie animali
selvatiche adatte alla domesticazione, a tutt’oggi i più importanti mammiferi
domestici, quali la capra, originaria probabilmente delle alture dei Monti
Zagros (la capra, infatti, predilige le montagne e gli habitat ostili che rendono le sue abitudini alimentari parche ed
elastiche, dunque favorevoli alla alimentazione in cattività) o del Levante
mediterraneo; la pecora, originaria delle zone centrali del Vicino Oriente (la
pecora, a differenza della capra, pascola nelle zone collinari e pedemontane e
predilige l’erba); il bue, dell’Anatolia e il maiale, del Nord (ma v. anche infra). Come dire, infine, che
l’agricoltura (e l’inizio sistematico del disturbo antropico dell’eco-sistema)
trova radicamento qui perché, come si vedrà, i cacciatori-raccoglitori non
possono più utilizzare il pacchetto mesolitico e perché tutte le piante e gli
animali del pacchetto neolitico (v. infra)
sono già a disposizione (il problema a seguire sarà poi quello di come si è
passati da un processo di neolitizzazione primario, originario, a uno
secondario, mimetico, ma su questo vedi infra).
Sopra s’è
parlato, in generale, del clima che favorisce la nascita dell’agricoltura,
bisogna ora meglio specificare quali caratteristiche diacroniche del clima si
sono manifestate nella Mezzaluna fertile e che cambiamenti nell’ecosistema (in
generale) sono presenti da un clima a quello che lo segue. Tra il 18 000 e il
13 000 a.C., nel Tardo Pleistocene, è presente un clima freddo e secco cui corrisponde
la presenza del bioma steppa (v. infra)
che favorisce la caccia dei grandi e medi mammiferi erbivori (quelli ungulati,
che presentano le falangi, o l’unica falange, rivestita da zoccoli). Tra il 13
000 e l’8 000 a.C., nella transizione all’Olocene, si presenta un clima
temperato e molto umido che favorisce la formazione di una foresta rada
(quercia-pistacchio) e la crescita abbondante di piante annuali, graminacee e
leguminose. Tra l’8 000 e il 6 000 a.C. il clima diventa più caldo e secco e si
assiste a un arretramento della foresta e a un impoverimento delle risorse
alimentari.
IL
PROTO-ALLEVAMENTO E LA PROTO-AGRICOLTURA NELLA MEZZALUNA FERTILE
Tra l’8000
e il 6000 a.C., nel Vicino Oriente che s’affaccia sul Mediterraneo Orientale,
sotto l’Anatolia
(che corrisponde
grosso modo al territorio dell’odierna Turchia), si manifesta dunque, in un habitat esteso che arriva fino all’Iraq
settentrionale a all’Iran occidentale (cioè nella Mezzaluna Fertile), la
possibilità di allevare animali che vivono in branchi. Non la gazzella (Gazella), che è cacciata in modo organizzato con
inseguimenti e accerchiamenti, e in modo massivo come mostra l’abbondanza dei
resti ossei nei siti archeologici, e che è dunque stata decimata dalla caccia indiscriminata e cessa di essere,
tra il Mesolitico e il Neolitico avanzato, una fonte importante di cibo, bensì
la capra selvatica (le gazzelle sono state, per millenni, le prede preferite
dai cacciatori del Vicino Oriente ed è impensabile che l’uomo non abbia tentato
la loro detenzione o mansuefazione, e che questi tentativi non siano riusciti
lo mostrano le grandi quantità di resti osteologici che si sono accumulati nel
tempo senza mai mostrare tracce da sindrome da domesticazione, per esempio, una
variazione morfologica, v. infra; e se
interessa, uno dei metodi di caccia (pianificata) è consistito nello spingere
un branco di gazzelle entro un recinto murario a secco che s’estende per molti
chilometri, predisposto lungo le vie della loro migrazione in tarda Primavera
verso Nord, con un ingresso che si presenta largo; le mura del recinto sono di pietra
del deserto e si confondono con l’ambiente e vanno poi a formare un vasto imbuto
(ma esistono anche altre forme) e sono, inoltre, alte più d’un uomo, tranne che
per alcuni tratti più bassi, di là dai quali sono scavate delle profonde fosse;
ora, quando le gazzelle sono entrate, le urla e gli schiamazzi degli uomini le
impauriscono, tanto che le gazzelle terrorizzate e in fuga saltano le basse
mura e finiscono nelle fosse, là dove sono abbattute e macellate; le porzioni
utilizzabili saranno poi trasportate al villaggio dove saranno sottoposte alla
salagione, o a essere seccate, quale riserva alimentare; questa struttura d’ammassamento
e macellazione è poi detta desert kite,
cioè aquilone del deserto, perché tale sembra ad una visione dall’alto (altri
dicono però che la funzione degli aquiloni non è quella di favorire la
predazione; in ogni caso è da ricordare, ancora, che la riforestazione che ha
luogo qui dopo la fine del periodo glaciale non è così estesa come quella
dell’Europa, e che la rarefazione degli alberi facilita la caccia di animali
che vivono in branchi). Dunque, s’è detto, non la domesticazione della
gazzella, ma quella della capra selvatica. I branchi selvatici di capre vivono
in rilevi montuosi spaccati da rapide valli che, per qualche decina di
chilometri, incanalano e isolano le migrazioni dei branchi di capre tra i
pascoli ad alta quota dell’estate e la pianura frequentata durante l’inverno; e
il controllo antropico sulla capra è possibile perché queste migrazioni possono
essere accompagnate dall’uomo e dal cane (Canis
familiaris, v. infra), senza per
questo alterare le abitudini biologiche del branco che si ciba di piante
selvatiche (precorritrici del grano e dell’orzo) e che vive allo stato brado
sempre raggruppato su una zona vegetale contigua che permette la sua
alimentazione tra l’estate e l’inverno (ed è raggruppato anche nel caso si manifesti
la possibilità d’una distanza di fuga, v. infra,
poiché questi branchi, a differenza di altri animali che, in quest’occasione,
praticano la dispersione, rimangono sempre compatti). Si presenta così, per
queste società di caccia e raccolta, una condizione geofisica e biozoologica (o
zoogeografica) che permette di potere escludere dalla caccia gli erbivori
migratori le cui mandrie si presentano solo occasionalmente (e s’escludono da
sé i grandi erbivori difficili da avvicinare o impossibili da trattenere) e di
focalizzare su un unico animale le attività che non sono più di predazione, ma
preparatorie all’allevamento. Abbiamo qui, infatti, la coincidenza del
territorio controllato dal gruppo umano e il normale percorso degli erbivori,
ciò che favorisce la specializzazione nel controllo del branco (battitura
esercitata dall’uomo e dai cani) e l’alimentazione carnea e dei prodotti
derivati dal latte (sull’alimentazione lattea, v. infra). Una volta acquisito il principio, l’applicazione a specie
nuove presenta poi minori difficoltà perché sono scelti animali che si
raggruppano in società dense su un’estensione vegetale continua, sono cioè
erbivori, gregari e migranti, e il cui comportamento nel fuggire è nel
raggruppamento (ad esempio, bovini e cavalli). Su queste questioni legate ai
prerequisiti della domesticazione, v. anche infra.
Grazie al
mutato clima presente alla fine del Pleistocene, nell’Olocene, quando si
presenta un clima di tipo mediterraneo che mostra, come detto, estati lunghe,
calde e secche e inverni miti e piovosi, e proprio nelle stesse zone (cioè
nella Mezzaluna Fertile) e nello stesso periodo in cui si manifesta la prima
domesticazione degli animali, si assiste all’ampliamento spontaneo dell’areale
di diffusione dei cereali e dei legumi selvatici. Questi cereali e legumi
presentano un adattamento specifico al genere umano: sono annui e, a causa di
queste breve ciclo, non superano le dimensioni di una piccola erbacea e si
finalizzano a generare in abbondanza semi che rimangono in quiescenza durante
la stagione secca, crescono alla ripresa invernale delle piogge (ca. 250-300 mm
all’anno) e maturano, ossia muoiono, nella lunga stagione arida lasciando
cadere i semi sul suolo che si riproducono autonomamente (v. infra), semi che presentano un possibile
uso e riuso alimentare in quanto sono commestibili e rigenerabili annualmente.
In queste
zone dal clima mediterraneo esistevano già, nelle società di caccia e raccolta,
sfruttamenti periodici delle erbacee da seme o graminacee che, malgrado la
piccolezza dei semi (e se pure le proteine vegetali presentano uno svantaggio
rispetto a quelle animali), rappresentavano un alimento di adeguato valore
nutritivo (fatto salvo che la raccolta rispettasse l’equilibrio tra le risorse
vegetali disponibili e l’alimentazione del gruppo, cioè la capacità portante
dell’ambiente). Ora, con l’ampliamento dell’areale dei cereali e dei legumi
selvatici, aumenta la possibilità di raccolta, in breve tempo e in grande
quantità, di semi che hanno la caratteristica di potere essere conservati per
l’alimentazione e per la seminagione consapevole, cioè selettiva (v. infra), ciò che altera l’equilibrio
preesistente a favore di un incremento della popolazione che cresce (come si
vedrà) sempre più in fretta della disponibilità alimentare offerta dalle
risorse vegetali. Disequilibrio che permette e incentiva, nell’ottica di uno
sfruttamento sempre più intensivo delle piante, il passaggio graduale da
un’economia mista (di caccia e di raccolta controllata) verso una stanzialità
di raccolta irreversibile, tanto che il potere raccogliere i semi maturi e
immagazzinarli fa sì che ciò che prima era una pianta accessoria
dell’alimentazione diventi la pianta dominante. Stanzialità di raccolta che,
presente come economia mista già prima dell’agricoltura, dà origine ai
villaggi. Visto che saranno poi necessari ca. due millenni prima che i villaggi
mesolitici diventino, da zone di orticoltura, colonie agricole, vediamone
l’evoluzione.
L’EVOLUZIONE
DEI PROTO-VILLAGGI AGRICOLI NEL VICINO ORIENTE
I primi
villaggi del Vicino Oriente sono stati costruiti, come visto, in coincidenza con
un modo di sussistenza basato sulla raccolta di semi selvatici di orzo, grano,
piselli, lenticchie e di altre piante (sempre selvatiche) che sono domesticati
a scapito delle piante irrimediabilmente selvatiche. Ad esempio, il grano
selvatico (triticum monococcum
aegilopoides) matura, nella tarda primavera, in un periodo di tre
settimane. È stato provato che un individuo dotato di un falcetto dalla lama di
selce e con il manico di legno (o osso), se il grano selvatico cresce fitto,
può in un’ora raccoglierne quasi un chilo (la produttività per ettaro è di ca.
una tonnellata), o un insieme di esperti raccoglitori di accantonare in tre
settimane una quantità di grano sufficiente, a una famiglia, per tutto l’anno
(il valore calorico prodotto da un ettaro messo a grano è di 50 a 1, cioè pari
a 50 calorie per ogni caloria di lavoro speso). I primi villaggi stanziali (o
protovillaggi, v. infra) sorgono poi
per avere un luogo dove immagazzinare il grano, macinarlo e trasformare la
farina in alimenti. Servono così, oltre alle abitazioni fatte con mattoni di
argilla seccati al sole, cesti (per trasportare il raccolto), silos sotterranei (per conservare le
cariossidi; la cariosside è il frutto secco indeiscente della spiga, che non si
apre nella caduta quando maturo), forni (per tostare le cariossidi vestite,
cioè aprirle per procurarsi il seme; per le cariossidi nude è sufficiente la
battitura) e pesanti macine (per fare la farina con i semi). Dati i campi a
stoppie dopo la raccolta, dati i resti non commestibili delle piante, è poi
possibile anche alimentare le capre (che con grano e orzo selvatico, come
detto, si cibano) e tenerle in cattività, cioè stabulate dentro dei recinti
all’aperto in cui è possibile mungerle e, volendo, macellarle.
La
lavorazione e lo stoccaggio dei cereali, l’abbondanza di proteine vegetali e
l’aumento delle calorie procapite (se pure a fronte di un degrado dello standard dietetico rispetto a quello
permesso dalle proteine di origine animale) favoriscono la crescita
demografica. Infatti (senza dimenticare che, se si vuole abbassare la densità
demografica, sono possibili le pratiche culturali dell’astinenza sessuale,
dell’aborto e dell’infanticidio, spesso delle femmine), dopo un parto, una
donna virtualmente feconda non ha ovulazioni finché non ha immagazzinato una
riserva di energia (sotto forma di grasso, che in percentuale rispetto al suo
peso corporeo è di ca. il 20-25%), che le possa permettere di affrontare le
esigenze di un feto in sviluppo. Ora, una dieta ricca di proteine animali e povera
di carboidrati, se la donna allatta per quattro o cinque anni come avviene
nelle società di caccia e raccolta, non permette di accumulare grassi e ritarda
l’ovulazione (cioè favorisce l’amenorrea) e tiene bassa la densità demografica;
cosa che non capita quando una dieta ricca di carboidrati (se pure povera di
proteine animali) permette di acquistare grasso, ciò che favorisce la ripresa
dell’ovulazione post-natale e la possibilità energetica di un’alimentazione
adatta alle necessità di un feto in sviluppo. Conseguentemente, nelle società
agricole, sedentarizzate, si assiste a un aumento della popolazione (una donna
partorisce all’incirca ogni due anni, fatti salvi i tassi di mortalità naturali
o culturali e le speranze di vita), cioè della densità demografica. Questo
processo di crescita è autocatalitico (la catalisi è quel fenomeno per cui un
processo, grazie a un catalizzatore, è accelerato; qui il catalizzatore è dato
da uno dei prodotti della reazione stessa, vale a dire dalla densità
demografica che, con la sua retroazione positiva, fa sì che la reazione, una
volta innestata, proceda sempre più celermente), ed è un processo che sempre
più velocemente trasforma i proto-villaggi in villaggi, i villaggi in
proto-città e, a seguire, in città, in città-stato e in imperi, ciò che allarga
i territori che praticano l’agricoltura intensificata e, pena il collasso,
l’evoluzione tecnologica che favorisce l’intensificazione nello sfruttamento
delle risorse (zoo-fonti e fito-fonti). Spesso a danno delle società di caccia
e raccolta, come capita nella neolitizzazione dell’Europa. Valga, a proposito
dell’incremento demografico, la tabella seguente:
PERIODO (APPROSSIMATIVO, a.C.)
|
POPOLAZIONE
|
NOTE EVENTUALI
|
||
VICINO ORIENTE
|
EUROPA
|
MONDIALE (IN MILIONI)
|
||
50 000
|
---
|
---
|
---
|
---
|
10 000
|
---
|
---
|
4
|
TASSO DI
CRESCITA STIMATO: 0,0512 % L'ANNO (80 NATI PER 1000 ABITANTI OGNI ANNO)
|
8 000
|
100 000
|
---
|
---
|
|
5 000
|
---
|
---
|
5
|
|
4 000
|
3 200 000
|
---
|
7
|
Tabella n.
. Fonte: Harris, 1981, p. 42; Acot, 2004, p. 82; Haub, 2005, p. 5.
Per quanto
riguarda, in generale, l’incremento o decremento demografico (ossia il rapporto
tra le nascite e le morti), è necessario sapere che le capacità di crescita
della popolazione umana sono costanti e non presentano variazioni da epoca a
epoca o da gruppo a gruppo (ad esempio i maschi sono sempre in numero superiore
alle femmine per un rapporto 1,05, cioè 105 maschi e 100 femmine) e che le
potenzialità di questa crescita dipendono da fari fattori. Tra i quali, il
contesto ambientale, inteso come forza di costrizione ineludibile, quali il
clima (con i suoi lunghi cicli), lo spazio (con i suoi modi dell’insediamento
umano, la mobilità o la densità della popolazione, quindi la disponibilità di
un ecosistema), le patologie (che nel breve periodo, collegate anche al sistema
alimentare, hanno diretta influenza su riproduzione e sopravvivenza). Segue il
contesto economico e sociale, inteso come forza di costrizione ineludibile,
quali lo offrono i microbi (batteri, virus, protozoi, spirocheti, ricksettie etc.); come dire, per quanto riguarda le
società agricole, la malnutrizione cronica (data un’alimentazione abitualmente
inadeguata o carenziale) o meno, la totale assenza di difese sanitarie e
igieniche dovute alla mancanza di conoscenze mediche e alla precarietà delle
condizioni abitative etc. Ancora dal
contesto ambientale, inteso però come forza di lenta modificabilità, quali la
Terra vista come possibilità di fonti energetiche rinnovabili, di materie
prime, e anche di sviluppi produttivi, ad esempio, l’agricoltura e i regimi
alimentari possibili che ne derivano; come dire subordinazione alla
produttività del suolo e subordinazione plurisecolare della popolazione ai limiti di un regime calorico
accettabile, anche in condizioni di stress
nutritivo. Da valorizzare sono anche le condizioni di vita, che rimandano,
almeno nelle società agricole, alla stratificazione sociale, quindi a un
determinato sviluppo delle forze e i comportamenti sociali, cioè i fattori
culturali che comportano modificazioni con rilevanza demografica, ossia dai
tratti che limitano la fertilità, il numero dei gradi proibiti per la scelta
del coniuge (la coniugalità), l’età della nuzialità, il celibato o il
nubililato, il prolungato allattamento o il controllo delle nascite, la mobilità
e le migrazioni etc. Infine, dalla
presenza o meno degli adattamenti automatici (ad esempio in caso di stress alimentari, o carestie prolungate
dove, pur possedendo le popolazioni un notevole grado di adattabilità allo stress nutritivo di breve, medio o lungo
termine, l’adattamento non funziona) che possono portare all’aumento della
mortalità e quindi alla selettività biologica (nel senso dell’adattamento
genetico alle condizioni di stress
delle generazioni a venire) o, nei confronti delle malattie, a
un’immunizzazione (temporanea o permanente) o a una domesticazione nel caso di
mutuo adattamento tra agente patogeno e ospite umano.
IL TELL DI JERICHO
Fatto salvo
che l’Epipaleolitico (12 000 – 10 500 a.C., v. supra) è un termine utilizzato dagli storici del Vicino Oriente per
designare la fase che precede il Natufiano e il Neolitico preceramico (v. infra), cioè la fase caratterizzata
dalle industrie microlitiche che si sviluppano durante l’arco d’una fase
pluviale (16 000 – 9 000 a.C.), che si presenta dopo il maximum del freddo secco del 18 000 a.C. (del Würm IV, v. supra), e nel corso del quale la caccia
e la raccolta sono intensificate nel mentre s’assiste a un incremento
demografico che precede la stanzialità, ora, per dare un’idea più precisa della
struttura di questi protovillaggi che si sono venuti a formare, segue una
descrizione di Tell es-Sulṭān dato,
come vedremo, dalla sovrapposizione di molteplici strati d’abitato, 23, per la
precisione, che arrivano a formare una collina (tell, in arabo, significa appunto collina, monte), cioè dalla
descrizione del tell di Jericho
(Gèrico) tra l’Epipaleolitico e il Neolitico, cioè a partire dal 16 000 per
arrivare al 6 000 a.C. La figura seguente mostra la configurazione geografica
del Vicino Oriente in cui si ritrovano i prodromi delle società stanziali e
agricole (cioè l’area della Mezzaluna Fertile):
Figura n. .
Fonte: Masseti, 2008, p. 48.
All’Epipaleolitico,
tra il 10 500 e l’8 500 a.C., segue un periodo in cui s’afferma appunto la
presenza delle prime compagini protoagricole e sedentarie (documentate queste
ultime da strutture in pietra) nel Vicino Oriente, è poi storicamente
classificato come Natufiano (derivato dal nome della vallata del Wādī en-Nāṭūf,
nel Deserto della Giudea, a settentrione del Mar Morto, e dove il termine wādī,
che si trova scritto anche uadi, indica il letto d’un torrente con piene
stagionali), ed è un periodo in cui avviene la transizione economica e
sociale dall’Epipaleolitico al Neolitico (dalle società di caccia e raccolta a
quelle che saranno stanziali); il Neolitico, detto aceramico, lo si suddivide
secondo una nomenclatura che adotta la classificazione bipartita inglese, Pre Pottery Neolithic (cioè Neolitico
preceramico, in sigla, PPN) di due tipi, il tipo A che va dall’8 500 al 7 500
a.C. (o PPNA) e il tipo B, che va dal 7 500 al 6 000 a.C. (o PPNB). La tabella
seguente riassume la suddivisione cronologica sopra delineata:
PERIODO
|
DATE CORRISPONDENTI (a.C.) [1]
|
|
EPIPALEOLITICO
[2]
|
12 000 –
10 500
|
|
NATUFIANO
|
10 500 –
8 500
|
|
NEOLITICO
|
PPNA
|
8 500 – 7 500
|
PPNB
|
7 500 – 6
000
|
[1] Le date indicate sono
approssimative giacché queste variano
da un testo
di riferimento all’altro.
[2] Da ricordare che, al di fuori del
Vicino Oriente, questo stesso
periodo è
invece detto Mesolitico.
Tabella
n. .
Per quanto
riguarda il tell, in paleoetnologia, come
sopra accennato, è poi una collina artificiale di natura antropica che è prodotta da quanto resta, negli
insediamenti umani di lunga durata che occupano un dato luogo, degli edifici di
mattoni di fango costruiti progressivamente, in quanto insieme abitativo, l’uno
sull’altro, mescolati, volta per volta, con l’accumulo dei materiali residui
della vita sociale ed economica qui svolta, quali manufatti, vestigia umane
(che qui non saranno prese in carico) o resti vegetali e animali, detriti etc., che si sono depositati nelle varie
sovrapposizioni che si sono avute, come dire che lo spaccato verticale del tell offre all’analisi e
all’interpretazione la stratigrafia storica dell’evolversi di una struttura
economica e sociale. Il tell di
Jericho si trova in Palestina (Cisgiordania), a 366 metri sotto il livello del
mare, e lungo le pendici orientali dell’altopiano di Giudea nella valle del Giordano,
là dove una falda sotterranea affiorante alimenta la sorgente di ‘Ain es-Sulṭān, ciò che ha dato origine a un ecosistema
stabile che ha permesso l’evolversi storico di quest’insediamento ch’è il
prodotto di ca. 9 000 anni di continuità insediativa (probabilmente la
struttura urbana più antica del mondo). La figura seguente illustra le
caratteristiche di massima che sono presenti in molti insediamenti natufiani,
la sorgente (qui ‘Ain es-Sulṭān), il letto d’un torrente stagionale (qui il Wādī
en-Nāṭūf), le risorse di prateria (qui la valle del Giordano) e quelle d’altura
(qui le pendici orientali dell’altopiano di Giudea), cioè in un luogo ch’è
interfaccia tra varie tipologie di risorse:
Figura
n. . Fonte: Giusti, 1996, p. 69.
I primi
strati di abitato del tell, risalenti
al Natufiano, presentano, in quello che resta degli aggregati abitativi
(stazioni di sedentarietà di ca. 500 m2), piani di terra battuta e
tracce sui piani di calpestio dei residenti stagionali, e resti di piante e
animali che ne mostrano la frequentazione e sono riconducibili, per le
modificazioni morfologiche, ai lontani prodromi d’una domesticazione d’animali
selvatici e di cereali, come mostrano la lucidatura delle lame dei falcetti di
selce dovuta al taglio delle spighe selvatiche, l’ampio repertorio delle pietre
da macina e i pestelli (in linea generale, nel Natufiano, e a partire dal 10
000 a.C., esistono evidenze archeologiche a favore della coltivazione di
cereali, anche se non è possibile documentarne la domesticazione, così come
l’attività di predazione antropica pare attenta a selezionare la fauna da abbattere
in modo da non depauperare i branchi, dunque esercitandone un’azione di
controllo esterna). Dopo una fase d’abbandono avvenuta intorno al 9 000 a.C., durante
il Dryas recente (quando il clima,
come già detto, si fa più fresco e secco, ciò che comporta con la siccità un
mutamento dell’ecosistema e l’abbandono di tutti gli insediamenti del
Natufiano, compreso il ritorno alle attività di caccia ad ampio raggio, quindi
a una ripresa del nomadismo, e c’è ch’ipotizza che la siccità abbia poi portato
alla precoce necessità di trovare un modo per favorire la domesticazione delle
piante), in occasione d’un miglioramento e della stabilizzazione del clima con
un aumento delle precipitazioni e a una maggiore ricchezza delle risorse
ambientali che hanno probabilmente favorito la sedentarizzazione
indipendentemente dalla domesticazione di piante e animali, il sito è
rifrequentato, tanto che negli strati del tell
risalenti al PPNA si trovano poi i resti d’un villaggio, più ampio dei
precedenti, che occupa ca. 3-4 ettari, villaggio che presenta, oltre alle
abitazioni di mattoni di argilla a pianta circolare e in parte interrate (ca. 30
cm) e con pavimenti d’argilla battuta, anche preadattamenti tecnologici
all’agricoltura quali piccoli contenitori d’argilla per lo stoccaggio alimentare
su piccola scala e pozzi esterni, o silos,
rialzati di 3,5 metri e rivestiti di mattoni crudi intonacati per lo stoccaggio
su grande scala dei semi (e
due di questi silos presentano diametri
di 3 – 4 m); ed è documentata, ma per il sito di Bāb al-Dhrā‘, sempre nel
Levante meridionale durante il PPNA, la costruzione di silos che
presentano piani sospesi per la circolazione dell’aria e la protezione dai
roditori e dagli insetti. È poi presente un’architettura monumentale data da un
muro di blocchi di pietra alto quasi 4 metri e largo mediamente 2, con
collegata una torre del diametro di 7 metri per un’altezza di quasi 8, torre
che presenta scalini all’interno per salire in sommità; riguardo a
quest’insieme di mura, è esclusa l’ipotesi che rimandi a una difesa militare (v.
infra), mentre è più probabile che le
mura servano come sistema di protezione dalle inondazioni stagionali del vicino
Giordano e dagli
smottamenti; resta in ogni caso vero che questi resti connotano ampi sforzi
collettivi e un grado notevole d’organizzazione e divisione del lavoro). Questo
complesso può ospitare fino a 2 000 persone e più (è quindi presente una
stanzialità definitivamente assestata che, se in linea generale è pari a una
diminuzione del numero dei siti, mostra però come tendenza l’accrescimento
delle dimensioni di quelli rimasti che implicano particolari livelli di
complessità strutturale e sociale) e il regime alimentare degli abitanti è
basato sul consumo di cereali, legumi, semi e frutta selvatica e sulla caccia
ai mammiferi, integrata questa dalla cattura di pesci, uccelli e rettili. Tra i
cereali che mostrano evidenze di domesticazione, si può citare il piccolo farro
(Triticum dicoccum, v. infra) e, tra i legumi, ne sono presenti
di quelli esportati al di fuori degli areali di crescita spontanea (ciò che
presuppone contatti e scambi) quali, per esempio, piselli (Pisum sativum, v. infra) e
lenticchie (Lens culinaris, v. infra); da un insieme di dati
archeologici che riguardano poi tutto il Levante, è stata tracciata anche la
trasformazione di varietà vegetali selvatiche, tra cui l’orzo (Hordeum spontaneum, v. infra) e l’avena (Avena sterilis), in forme che saranno poi domesticate nel PPNB. Per
quanto riguarda l’alimentazione carnea ci si basa perlopiù sulla caccia
(massiva) della gazzella del deserto (Gazella
dorcas, il cui habitat è proprio
alle zone semidesertiche), della gazzella di montagna, o edmi (Gazella gazella, frequente sulle
montagne e sulle colline pedemontane della penisola araba) e della gazzella persiana
(Gazella subgutturosa, che occupa
l’areale più orientale del Vicino Oriente), che ne rappresenta il maggior
apporto (e nei siti risalenti al Natufiano sono stati rinvenuti i resti
dell’una o dell’altra specie di gazzella); le figure seguenti mostrano una
ricostruzione (totale o parziale) delle tre citate specie di gazzella,
ricordando che nell’ordine si va dalla taglia inferiore a quelle via via
superiori:
Figura n. (Gazella dorcas). Fonte: Clutton-Brock,
2001, p. 31.
Figura n. (Gazella gazella). Fonte: Clutton-Brock,
2001, p. 31.
Figura n. .
Fonte (Gazella subgutturosa):
Clutton-Brock, 2001, p. 31.
Ancora,
nella dieta carnea, rientrano altri animali, anch’essi selvatici, quali l’Ègagro (Capra aegagrus), il Muflone orientale (Ovis orientalis), l’Uro (Bos primigenius), il Cinghiale (Sus scrofa), l’Onagro (Equus hemionus onager, una sottospecie
dell’emione; grosso modo, quelli che domesticati saranno, nell’ordine, la capra,
la pecora, il bue, il maiale, l’asino), la Lepre (Lepus), la Volpe comune (Vulpes
vulpes) e altri piccoli animali (roditori, fauna avicola etc.). In quest’arco temporale non sono
presenti tracce di animali morfologicamente modificati, cioè domesticati. La
figura seguente mostra la percentuale di reperti animali rinvenuti a Jericho
nel PPNA (le cifre riportate nelle barre dell’istogramma riportano il numero
assoluto di ossa e di denti recuperati; tra gli Equidi si trova l’onagro):
Figura n. .
Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 98.
Per il PPNA
è poi da ricordare che, mentre esistono importanti innovazioni nello
sfruttamento delle risorse vegetali, per le risorse animali le strategie
restano sostanzialmente legate ai modelli epipaleolitici, fatti salvi e l’uso
delle punte di freccia di selce e con alla base delle tacche laterali, cioè dei
rientri per favorire l’immanicatura (dette punte el-Khiam, dal nome di un’area
del Deserto della Giudea) e l’uso di asce levigate in calcare o basato, dunque
innovazioni nell’industria litica, e il caso delle prime esperienze di
domesticazione del muflone (Ovis
orientalis, v. infra) e dell’egagro
(Capra aegagrus, v. infra),
non in quest’area del Levante meridionale, bensì nelle regioni orientali del
Vicino Oriente (a Jericho i resti osteologici di Sus scrofa nel PPNB si sono rivelati più piccoli del PPNA, ciò che
ha fatto supporre, se non la domesticazione del cinghiale, almeno un controllo
antropico su di esso) . La figura seguente mostra la probabile distribuzione
dei progenitori delle quattro specie di bestiame domesticato alla fine
dell’ultima glaciazione i cui areali di diffusione selvatica arrivano a
sovrapporsi nel Vicino Oriente:
Figura n. .
Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 42.
Nel PPNB,
tecnologicamente più evoluto, gli insediamenti mostrano già una tipologia
urbana (sono cioè villaggi strutturati di grandi dimensioni che documentano il
divenire dell’incremento demografico), con case che ora assumono la pianta
rettangolare con copertura a terrazzo, con pavimenti di terra battuta rifiniti
con calce, e le cui stanze con le pareti intonacate di calce sono
potenzialmente cumulabili l’una all’altra e, come moduli costruiti con mattoni
probabilmente fabbricati in serie, sono atte a formare estesi aggregati poiché
si sviluppano attorno a un cortile scoperto (la nascita delle prime strutture
quadrangolari si presenta nel PPNA nel sito di Tell Abu-Hureyra, sulla riva Sud
dell’Eufrate, nell’attuale Siria, e si generalizza in tutto il Vicino Oriente
nel PPNB, e sembra anche che un’estensione della tecnica usata per la
pavimentazione e l’intonacatura delle abitazioni con calce, ottenuta questa per cottura (o
calcinazione) ad alte temperature di pietra calcare, ca. 750-900 °C, v. infra, mescolata con acqua, abbia
favorito, a partire dalla Siria, la costruzione di vasellame in calce o in
gesso, non sottoposto a cottura, produzione che prelude alla comparsa della
ceramica, e ch’è nota con il nome di vaisselle
blanche, alla lettera vasellame bianco; per inciso, l’uso della calce per
scopi abitativi presuppone poi l’acquisizione di tecniche avanzate per il controllo
delle temperature, ciò ch’implementa la successiva cottura della ceramica e la
fusione dei metalli). Si consolida, inoltre, la pratica dell’agricoltura e
s’affermano nuove strategie per l’utilizzo delle risorse animali; per quanto
riguarda l’agricoltura s’assiste a un perfezionamento delle tecniche agricole
acquisite durante il PPNA, cioè a un maggiore controllo sulle piante vegetali
e, anche se non mutano le specie coltivate, s’assiste a un’intensificazione
nello sfruttamento del territorio messo a coltura, compresa l’introduzione
delle pratiche d’irrigazione che arrivano a formare una rete idrica regionale
con la diffusione in diversi ambienti delle piante idrofile, quali l’orzo a sei
file (Hordeum vulgare exastichon), le fave (Faba vulgaris) e il lino (Linum), così come si manifesta
l’esportazione dei cereali modificati fuori dal loro areale di distribuzione
naturale; per quanto riguarda l’utilizzo delle risorse animali, s’afferma la
domesticazione definitiva d’alcune specie, tra cui quella iniziata nel PPNA del
muflone e dell’egagro, cioè dei caprini (famiglia che comprende anche le
pecore). A proposito delle capre, a partire dal VII millennio a.C., queste
rappresentano per questo insediamento la principale risorsa carnea (e a seguire
lattea), di materie prime (ossa, corna, zoccoli, pelle, grasso, deiezioni e
fibre) e di pulizia preliminare del suolo in vista dell’agricoltura (le capre,
come detto sopra, hanno un’alimentazione elastica che si adatta alle risorse di
habitat anche ostili) e incominciano
a manifestarsi quei cambiamenti morfologici che sono diagnostici della fase di
domesticazione, mentre è probabilmente completata la domesticazione del maiale
(come mostra la diminuzione della taglia, anche se è vero che i maiali, lasciati liberi, sono in
grado d’adattarsi senza grossi problemi alla sopravvivenza nel nuovo ambiente,
e questo è indizio d’una non completa domesticazione) e si sta avviando il
processo di domesticazione dei bovini. Cala quindi drasticamente il consumo
della gazzella (probabilmente dovuto, come detto, a un’incontrollata pressione
venatoria antropica) e, in parte, quello della volpe, mentre aumenta in modo
verticale il consumo delle capre (se pure la domesticazione delle pecore
precede quella delle capre, in questa fase le capre sono preferite alle pecore
come scorta di carne fresca), e in modo consistente il consumo degli uri (i
bovini), dei cinghiali (i maiali), e di poco quello degli equidi, come mostra
la figura seguente dei reperti animali rinvenuti a Jericho nel PPNB:
Figura n. .
Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 98.
Per quanto
riguarda la modificazione genetica della capra già domestica nel PPNB a
Jericho, s’assiste a una generale riduzione delle dimensioni delle forme
allevate rispetto alla forma selvatica, sindrome da domesticazione (v. infra) che si rivela, per esempio, nella
riduzione delle ossa lunghe (metacarpali, etc.);
si nota anche che sono presenti, inizialmente e fino al Neolitico ceramico, le
corna dette a scimitarra (cioè dritte) e poi che, a partire dall’Età del Bronzo
antico, iniziano a prevalere le corna ritorte (a spirale) fino a che l’altra
modificazione non scompare, e le corna ritorte diventano la morfologia
dominante; la figure seguente mette a confronto i nuclei ossei di corna di
capre domestiche di Jericho, rispettivamente a scimitarra e ritorte (i nuclei
ossei a scimitarra misurano 150 mm, quelli ritorti, 180 mm):
Figura n. .
Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 99.
La figura
seguente mostra invece gli istogrammi delle quantità relative di nuclei ossei appartenuti
a corna a scimitarra e ritorte rinvenute a Jericho a partire dal PPNA (dove
sono predominanti le corna a scimitarra) per arrivare all’Epoca bizantina [?] (dove
sono predominanti le corna ritorte):
Figura n. .
Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 100.
Non è però
dato sapere ad ora il perché
le capre a corna ritorte siano prevalse su quelle a corna a scimitarra, fatta
salva l’ipotesi d’una ibridazione introgressiva d’epoca con una sottospecie
dello stambecco (Capra ibex), ossia
lo stambecco della Nubia, o Capra ibex
nubiana, cioè con il passaggio di geni da una specie all’altra attraverso
una barriera interspecifica incompleta. Da sottolineare poi che al di fuori di
Jericho, in altri siti, per esempio, nel sito di Çayönü Tepesi nell’Anatolia Sudorientale
(v. figura seguente), s’assiste alla comparsa improvvisa di pecore che
presentano una morfologia che suggerisce una domesticazione già avviata, ciò
che implica che il fenomeno dell’importazione d’ungulati è da sommarsi al
fenomeno dell’esportazione dei cereali detto sopra. Qui a seguire, a prova
dell’estensione del fenomeno della domesticazione degli animali, si riporta la
figura che mostra alcuni siti archeologici di villaggi protostanziali e
stanziali del Vicino Oriente dove sono state rinvenute testimonianze dei primi
eventi di domesticazione (in alcuni casi probabile, in altri certa, come mostra
la legenda; è citata anche la
presenza del cane, sulla cui dinamica di domesticazione v. infra, ma non il gatto perché questo, nella storia della domesticazione,
presenta caratteristiche anomale, tutte sue, pur essendo certificata la sua
presenza domestica a partire da ca. 5 300 anni fa, v. infra):
Figura n. .
Fonte (adattata): Clutton-Brock, 2001, p. 88.
Si può
dunque affermare, partendo dall’esempio di Tell es-Sulṭān, che s’assiste nel
Vicino Oriente a una generalizzazione delle strutture architettoniche quadrangolari,
all’espansione dei villaggi pari all’incremento demografico basato sulla
domesticazione delle piante e all’allevamento dei caprini, alla presenza di
siti di nuova installazione anche al di
fuori dell’area di distribuzione dei cereali, alla sedentarizzazione definitiva
e alla comparsa di un’organizzazione sociale che tende verso un maggior grado
di strutturazione e gerarchizzazione, all’affermazione di legami di natura
commerciale fra i vari siti pari a una fitta rete sovraregionale di scambi tra
il Mar Rosso, il medio Eufrate e l’Anatolia (mostrata dalla citata esportazione dei cereali e degli
ungulati domesticati e dalla diffusione di materie prime esotiche, quali
l’ossidiana dell’Anatolia, un pasta vetrosa d’origine vulcanica molto ricercata,
le conchiglie del Mediterraneo e del Mar Rosso, le pietre ornamentali
d’amazzonite, di turchese, di malachite etc.),
ciò che testimonia d’una accresciuta divisione del lavoro, tutto un insieme di
tratti ch’impone una morfologia culturale che per molti aspetti assume un
carattere omogeneo (il pacchetto neolitico) che s’estende in tutta la regione del
Vicino Oriente, tanto che il PPNB manifesta un dispositivo spaziale, economico
e sociale in cui la pratica generalizzata dell’agricoltura e dell’allevamento
del bestiame è pari ad un’affermazione culturale inedita che, come vedremo, si
presenta senza ritorno (per l’analisi del collasso del PPNB nel Levante del
Sud, v. infra). Detto questo, analizziamo
ora, e prima d’affrontare i processi storici di neolitizzazione, com’è avvenuta
nello specifico la domesticazione degli animali e delle piante, partendo alla
lontana, cioè dal Cane e dal Gatto.
LA
DOMESTICAZIONE DEL CANE E DEL GATTO
Per
partire, bisogna non confondere l’addomesticamento, che si ha quando il
processo di controllo degli uomini è su un animale selvatico catturato reso
docile e tollerante nei confronti dell’uomo, dalla domesticazione che ha a che fare
con animali in cattività di cui si controllano le modalità alimentari e le
strategie riproduttive e senza le quali l’animale non è autosufficiente (ciò
che implica la manipolazione delle sue relazioni sociali, v. infra), cioè con animali le cui caratteristiche
genetiche sono precedentemente selezionate e manipolate dall’uomo. Per esempio,
un ghepardo (Acinonyx jubatus) non lo
si può domesticare, ma si può addomesticare, vale a dire che, grazie al suo
comportamento parzialmente sociale e non aggressivo nei confronti dell’uomo, si
può controllarlo dopo che
è stato
catturato, per esempio, al fine d’impiegarlo nella caccia agli ungulati della
dimensione d’una gazzella, ma non si può allevarlo in cattività perché la sua
domesticazione presenterebbe seri problemi. Ancora, si definisce domestico un
animale che si riproduce in cattività e dipende, per la sua nutrizione e
riproduzione, in tutto e per tutto dall’uomo; come addomesticato un animale che
non si riproduce in cattività ed è autonomo nell’alimentazione, anche se è
alimentato dall’uomo dopo la sua cattura. Come dire che, dati i parametri di
sopravvivenza di un organismo, cioè la protezione (o difesa), la nutrizione e
la riproduzione, la domesticazione presume che nessuno di questi tre parametri
possa essere soddisfatto se viene a mancare la presenza umana. Detto questo,
iniziamo con il processo di domesticazione del cane e del gatto, che qui
s’affronta data la loro importanza nell’ambiente antropico delle società
stanziali di cui s’è parlato sopra, e valgano a questo proposito le note
seguenti. La domesticazione del cane è la prima domesticazione d’una specie
diversa dall’uomo, ma non si sa dove, né si sa quando sia avvenuta con
precisione; riguardo al dove, le ipotesi avanzano come areali il Medio Oriente,
cioè la Mezzaluna Fertile (risultati ottenuti con il ricorso al DNA nucleare e
l’analisi dei polimorfismi a singolo nucleotide, o Single-Nucleotide
Polymorphism, SNP, grossomodo analizzando le piccole differenze nella
sequenza di una singola base del DNA), l’Europa (risultati ottenuti con il
ricorso al mtDNA,
v. supra), la Siberia e, infine, la Cina
meridionale (risultati ottenuti sempre con il ricorso al mtDNA); riguardo al
quando, alcuni datano la domesticazione
a 135 000 – 76 000 anni fa, in presenza essenzialmente di Homo neanderthalensis (con una
datazione basata sul DNAmt; per inciso, questa tipologia di datazione è molto criticata in quanto è
ritenuta non attendibile per eventi filogenetici che si sviluppano in tempi
geologici brevi); altri, in presenza di Homo sapiens, la datano tra 40 000 e 12
000 anni fa, altri a 16 300 anni fa e altri ancora, non essendoci grandi evidenze
fossili di cani vissuti prima di 12 000 anni fa (tranne che per il ritrovamento
in Europa, in una sepoltura del tardo Paleolitico a Oberkassel, Germania, d’una
mandibola di cane domesticato stimata come risalente a 2 000 anni prima del
ritrovamento natufiano, v. infra),
mettono in forse la domesticazione prima dell’avvento del Neolitico. L’evidenza
fossile di cui si parla è databile tra 12 000 e 10 000 anni fa, ed è la tomba appartenente
alla cultura Natufiana (v. supra) e
siglata H.104, che si trova nel sito di Ain Mallaha/Eynan (denominazione araba,
la prima, israeliana l’altra), a Nord d’Israele, nell’alta valle del Giordano, dove
un umano, probabilmente una donna anziana, posa la mano sinistra sullo
scheletro completo d’un esemplare immaturo di cane, probabilmente un cucciolo
di 4-5 mesi, tra i primi esempi d’inumazione in cui un uomo giace sepolto con
specie diverse; a ciò s’aggiunga il fatto che prima di 10 000 anni fa non
esistono, nell’arte parietale rupestre, documenti figurativi che rappresentino
il cane quali li si può ritrovare, per esempio, nelle coeve scene di caccia
presenti a Alpera, in Spagna orientale, nella Cueva de la Vieja o nelle scene
dell’arte sahariana di Tadrart Acacus, nella Libia occidentale. In ogni caso,
la domesticazione s’è avuta a partire da un Lupo ancestrale (ascendenza che poi
si traduce nella differenza di specie e nicchie tra il Canis lupus e il Canis
familiaris, v. infra, differenza
genetica che non supera lo 0,04%), là dove la divergenza con questo Lupo
ancestrale, e con il Canis lupus, si
nota con il fatto che la domesticazione (v. supra)
ne ha ridotto la taglia, ne ha reso le fauci ridotte e con denti più fitti e meno
grossi e robusti (per esempio, i denti canini e carnassiali, v. infra), e ne ha prodotto la faccia più
grossa, il muso più corto e il cervello più piccolo del 15% ca., a pari peso, e
l’analisi dei reperti osteologici forniti dalla ricerca archeologica conferma
che queste modificazioni morfologiche, diagnostiche della modificazione della
specie (v. infra) si manifestano nel
Vicino Oriente, nel Natufiano (v. supra),
tra 12 000 e 10 300 anni fa, tanto che si sospetta fortemente che la
domesticazione si sia inizialmente presentata come autodomesticazione in due
tappe del Canis lupus derivato dal
Lupo ancestrale. E si dice autodomesticazione perché il Canis lupus, sia pur un cucciolo che non ha ancora aperto gli occhi
(v. infra), non si riesce mai a
domesticarlo, e se si può dare il caso d’un Canis
lupus domato, questi, a differenza del cane, non trasmette geneticamente
questo tratto alla prole, quindi sarebbe necessario ripetere il processo
d’addestramento di nuovo da capo, come dire che il Canis lupus può essere addomesticato, ma non domesticato (v. supra). La prima autodomesticazione
consiste in una larvale coesistenza, che si presenta fortemente competitiva
dato che gli areali che occupano il Canis
lupus e le bande dei cacciatori-raccoglitori sono spesso sovrapposti (cioè
simpatrici) in quanto prediligono le stesse prede, vale a dire Mammuth lanosi, Cervi, Bisonti europei,
Rinoceronti lanosi, Antilopi e Cavalli, così come prediligono le stesse parti
della preda altamente proteiche, cioè gli organi interni quali cuore, fegato e
polmoni e, a seguire, reni, milza e muscoli (ed è da sottolineare che nel
citato repertorio i Lupi uccidono solo gli animali deboli, malati, vecchi o
immaturi, ciò che crea un ecosistema che mantiene in buona salute le
popolazioni delle prede, questo a differenza dell’uomo che uccide le prede in
modo casuale e, con la tecnologia evoluta, uccide un numero di prede superiore
al necessario per sopravvivere, alterando di conseguenza l’equilibrio
dell’ecosistema, com’è probabilmente successo con l’overkill della Megafauna avvenuto tra 20 000 e 13 000 anni fa, v. supra). Cui s’aggiunga che nella
predazione, per entrambe le specie, è presente il cacciare organizzato, cioè
sociale (tanto che, a livello superficiale, i metodi di caccia sono fra di loro
comparabili); prede che, in presenza di una diminuzione delle risorse (quale si
presenta a partire da 13 000 anni fa, alla fine del Mesolitico, cioè durante il
periodo glaciale chiamato Primo Dryas,
nel quale si manifesta uno stress
ambientale, cioè la detta diminuzione in quantità e qualità delle risorse
trofiche), e se il Canis lupus è
impossibilitato a reperire prede, ma solo se è impossibilitato, che,
altrimenti, questa pratica non è da questa specie dismessa, si traduce nel suo
comportamento di consumare gli avanzi abbandonati nei pressi degli insediamenti
temporanei dei cacciatori-raccoglitori (anche se alcuni sostengono che questa
pratica opportunistica sia documentabile già a partire da ca. 30 000 anni fa),
e si dice avanzi abbandonati data la differenza di dentizione tra uomo e lupo
che fa sì che il secondo possa mangiare anche ciò che non può mangiare il primo,
per esempio, le ossa, i peli o la pelle o altro ancora. Si tenga in ogni caso
conto, per valutare il comportamento opportunistico o meno del Canis lupus, che questi può arrivare a
consumare fino a 5 kg di carne al giorno per una complessione fisica che
mediamente va dai 45 a 35 kg, e che, per tutti i carnivori dell’era glaciale,
la morte per fame è stata la normalità e che pertanto la competizione s’è
presentata, conseguentemente, molto alta. In seguito, nel Neolitico, a partire
grossomodo da 11 000 anni fa (quando s’afferma il clima post-Dryas, cioè quando aumentano temperature e precipitazioni)
grazie alla presenza e a una certa regolarità dell’accumulo di rifiuti organici
nei pressi d’una popolazione di Homo
sapiens che si sta facendo stanziale (una nuova nicchia), con la presenza
di un Canis lupus opportunista, cioè
adattabile a una prossimità con gli umani, vale a dire con una minore distanza
di fuga rispetto ad altri componenti della sua specie, e dove la distanza di
fuga (o flight distance, che, alla lettera, si traduce come distanza
di volo), che si può misurare controllando quanto l’animale si lascia avvicinare
dall’uomo, o da qualsiasi altro animale, mentre mangia prima di fuggire. La
distanza di fuga è dunque quella a cui un animale, qui un Canis lupus, può lasciare avvicinare un predatore, qui l’uomo quale
agente stressante (o stressor), senza
essere indotto alla fuga; ancora, per qualsiasi specie e in qualunque
situazione data la distanza di fuga ottimale si situa tra un valore minimo, in
cui l’animale troppo reattivo non riesce a mangiare (distanza breve) e un
valore massimo in cui l’animale riesce a controllare la sua reattività mentre
continua a mangiare (distanza lunga) e la selezione naturale agisce sulla
distanza di fuga proprio su questo continuum
tra il minimo e il massimo, spingendola verso l’uno o l’altro estremo secondo
quanto cambiano le condizioni dell’ambiente in un tempo evolutivo. E se una
fonte abbondante di cibo si presenta, per esempio un accumulo di rifiuti
organici nei pressi d’un villaggio, essa tenderà a rendere breve la distanza
ottimale, e questo comportamento è probabilmente indotto, data la nuova
nicchia, da una diversa recettività agli stimoli dell’ambiente esterno dovuti
ad una casualità genetica che, in alcuni Canis
lupus, si traduce in una riduzione della concentrazione di corticosteroidi
e alla produzione della serotonina che permette d’accorciare la distanza lunga.
A questo proposito è necessario, infatti, sapere che tra i corticosteroidi, che
sono ormoni secreti dalla corteccia surrenale che hanno il compito di regolare
lo stress, c’è anche il cortisolo, un
ormone legato alla produzione d’adrenalina che, a sua volta, è un neurormone
che stimola la risposta fight or flight,
cioè combatti o fuggi, vale a dire le risposte psicofisiche in caso di stress, e più alto è il livello di
cortisolo e più l’adrenalina incentiva l’ampiezza, ossia l’attivazione, della
distanza di fuga rispetto allo stressor;
contemporaneamente, più bassi livelli di cortisolo e minore produzione
d’adrenalina attivano una maggiore produzione della serotonina, un
neurotrasmettitore ch’è legato, tra altri stati dell’organismo, a quello del
rilassamento, cioè ad una inibizione del comportamento di fuga, ossia l’esatto
opposto della risposta fight or flight.
Come dire che, in alcuni di questi Canis
lupus e grazie alla nuova nicchia si presenta, quindi, l’opportunità di
manifestare un comportamento adattativo alla distanza di fuga che, in un
isolamento sessuale dal Canis lupus
territoriale che continua a riprodursi all’interno del branco (v. infra), permette poi in modo incipiente
la speciazione (cioè la metamorfosi nel tempo in Canis familiaris) e d’allevare una prole più numerosa e
geneticamente differenziata grazie all’aumento delle risorse alimentari e senza
che possa sussistere un’esposizione troppo ravvicinata con gli umani il cui
unico ruolo, alla fin fine, è quello di fornire loro la detta nuova nicchia che
con la stanzialità antropica è in grado di fornire una regolare discarica di
rifiuti. Si ricorda che, in linea di massima, il Canis lupus è un carnivoro che, essendo un predatore generalista,
cioè non legato a un tipo di preda in particolare, può predare animali di
dimensioni molto variabili, cioè di grandi o di piccole, piccolissime
dimensioni; oltre alla citata carnivoria, presenta però anche abitudini
alimentari opportuniste (come mostra anche la sua dentizione, che non è
specializzata per il solo consumo di carne) che gli permettono di cibarsi di
frutta, di vegetali, di carcasse d’animali morti, comprese quelle della propria
specie, e di carni in decomposizione, cui s’aggiunga che, oltre a quest’ultimo
tratto saprofago, presenta anche quello coprofago, cioè quello di trovare
edibili, ossia mangiabili, le deiezioni alvine umane, vale a dire le feci (e
per curiosità, s’annota qui che presso certe società è affidato un cucciolo ai
bambini che ha il compito di pulire i loro sederi). Dunque è qui, in questa
nicchia, che si ritrova la prima forma di simbiosi tra il Canis lupus docile (questo solo perché la riduzione evolutiva della flight distance per selezione naturale
si traduce in un comportamento che noi per nostri scopi definiamo di docilità),
chiamiamolo protocane, e Homo sapiens;
per il resto, i comportamenti del protocane legati alla ricerca di cibo, alla
riproduzione etc. sono simili a
quelli delle specie selvatiche, ma adattate alla sopravvivenza d’una nicchia
dovuta al passaggio storico dalle società itineranti di caccia-raccolta alle
società agricole stanziali, società dove la docilità potrebbe presentarsi come
vantaggiosa per gli uni e per gli altri, per esempio, con cibo dato al
protocane in cambio della caccia opportunista agli animali parassiti che
saccheggiano le coltivazioni. Prole di protocane che, nel giro di poche
generazioni (si parla di un periodo tra i 50 e i 100 anni, tanto che, a partire
da ca. 10 000 anni fa è documentata la diffusione del cane in Eurasia, Africa,
America del Nord e Australia) ha continuato ad evolversi e a proclamarsi in una
nuova specie, Canis familiaris e, lo si ripete, per selezione naturale in un segmento della
popolazione di Canis lupus del tratto
della flight distance, ossia
dell’abilità di riuscire a mangiare in prossimità degli umani senza abbandonare
la risorsa trofica, dunque non per una selezione artificiale da parte
dell’uomo. Ragione per cui il Canis lupus
e il Canis familiaris, che hanno un
progenitore ancestrale in comune, evolvono in due specie distinte, parallele,
ma diverse, da cui deriva la varianza dei loro tratti fenotipici, con la
clausola che è la diversa nicchia ecologica che li ha poi fatti evolvere in due
specie (altri, a partire dal 1982, invece che Canis familiaris usano la nomenclatura trinomia Canis lupus familiaris, e usandolo
sottintendono che il processo di differenziazione di specie che s’è cercato di
descrivere non sia avvenuto, dunque pensando che non esista un Lupo ancestrale,
o che, s’esiste, si sia evoluto nel Canis
lupus attuale, e che il cane sia non una specie a sé, ma solo una
sottospecie del Canis lupus,
nomenclatura trinomiale che, date le premesse, qui non s’adotta). Questa
specie, dunque, non è più legata al comportamento sociale, gregario e
territoriale dei Lupi, abituati a convivere, in un habitat circoscritto, in famiglie nucleari, date dalla coppia
monogama e dai loro cuccioli (al massimo in un branco che contiene 2-3 famiglie
nucleari, dove una famiglia nucleare comprende i genitori e i cuccioli degli
ultimi tre anni o solo quelli nati
nell’ultimo parto, in media 5 o 6, ma questa pratica non è da generalizzare per
tutti i Lupi), né alla socialità del protocane opportunista, spazzino, che non
s’è relazionato con l’uomo pur vivendo con lui in simbiosi (socialità
competitiva, da non confondere con quella territoriale del branco propria al Canis lupus, in quanto il protocane,
escluso il momento della riproduzione, è costretto a vivere isolato o, al
massimo, a formare piccoli gruppi familiari con una durata ch’è limitata per il
maschio al momento della nascita dei cuccioli, questo vista la
competizione tollerante, non aggressiva,
dei protocani nei confronti l’uno dell’altro per l’accesso alle risorse), ma è
una specie in cui a un’evoluzione della competenza sociale che si manifesta
nella sua evoluzione storica come allontanamento prima dal branco e poi dalla
socialità competitiva. La tabella seguente mostra le differenze di socialità e
di comportamento all’interno di un gruppo tra Lupi e protocani:
TRATTI DISTINTIVI
|
CANIS
LUPUS
|
PROTOCANI [1]
|
PROTEZIONE
DEL TERRITORIO
|
PRESENTE,
INCLUSE AGGRESSIONI MORTALI CONTRO CHI NON FA PARTE DEL BRANCO
|
PRESENTE,
CON RARE AGGRESSIONI MORTALI, SCARSO CONTATTO FISICO E CONTESE RISOLTE
ABBAIANDO.
|
RAPPORTI
DI DOMINANZA/SOTTOMISSIONE
(GERARCHIA
SOCIALE)
|
PRESENTI,
CON UN PRECISO CODICE FORMALE DI SOTTOMISSIONE
|
RARI,
ANCHE IN PRESENZA DI FEMMINE IN CALORE
|
COALIZIONE
FRA MEMBRI DEL GRUPPO
|
PRESENTE,
CON LA COPPIA RIPRODUTTIVA CHE INIBISCE PERÒ LA RIPRODUZIONE D’ALTRI MEMBRI
DEL BRANCO E CON COALIZIONI FRA GLI ESCLUSI PER POTERSI ACCOPPIARE CON LA
FEMMINA RIPRODUTTRICE
|
PRESENTE,
MA SOTTO FORMA DI GIOCO
|
COOPERAZIONE
PER L’ALLEVAMENTO DELLA PROLE
|
PRESENTE,
CON IL PADRE E I FRATELLI CHE PROCACCIANO CIBO PER I CUCCIOLI [2]
|
RARA
|
CACCIA
|
PRESENTE,
CON ATTIVITÀ DI COOPERAZIONE PER LA PREDAZIONE DI ANIMALI PIÙ GRANDI
|
ASSENTE,
TRANNE CHE NEI CASI DI PICCOLE PREDE
|
ATTIVITÀ
DI RICONCILIAZIONE
|
PRESENTE;
ENTRO DUE MINUTI DALLA LITE, E ANCHE PRIMA, SI MANIFESTA CON I MEMBRI CHIAVE
DEL BRANCO
|
PRESENTE,
SI MANIFESTA CON RAPIDITÀ E PIÙ SPESSO CON I MEMBRI CONOSCIUTI
|
ATTIVITÀ
DI CONFORTO
|
PRESENTE;
DOPO UNA RISSA I MEMBRI NON COINVOLTI CONFORTANO GLI ALTRI
|
PRESENTE;
DOPO UNA RISSA I MEMBRI NON COINVOLTI CONSOLANO PIÙ LO SCONFITTO CHE NON IL
VINCITORE
|
PREFERENZE
AFFETTIVE
|
PRESENTE,
CON GELOSIA MANIFESTA VERSO IL PARTNER
PREDILETTO
|
PRESENTE;
SI MANIFESTA NEL SEGUIRE IL CANE PIÙ SOCIEVOLE DI ALTRI
|
[1] Anche s’è azzardato, s’ipotizza il
comportamento sociale, cooperativo, dei protocani sulla falsariga di quello dei
cosiddetti cani
di
villaggio, cioè dei cani che vivono sfruttando in competizione fra di loro le
risorse trofiche nelle discariche antropiche, compresi
i cani
randagi.
[2] È stato notato che il ritorno dei
lupi dopo il procacciamento del cibo alla tana per nutrire i cuccioli mostra
forti parentele con il
comportamento
dei membri delle società di caccia e raccolta che ritorna dagli altri membri
della comunità per condividere ciò che
ha
procacciato, e in questa pratica gli umani sono più simili ai Lupi che agli
altri primati.
Tabella n.
. Fonte (adattata): Hare e Woods, 2013, p. 161, p. 301, p. 302.
A seguire
l’evoluzione continua, questa volta però come effetto d’una selezione
artificiale, anche se non necessariamente voluta, per il tramite di quella che
si chiama selezione postzigotica (che, semplicemente, significa che l’umano
elimina tra i cuccioli quello che non gli piace e si prende cura di quello che
gli piace, lasciando all’ambiente antropico durante una finestra di
socializzazione, v. infra, la cura
della crescita cognitiva del cucciolo), selezione che potrebbe essere stata
data, per esempio, da un cucciolo di protocane, opportunista e geneticamente
docile ch’è adottato da un umano che se ne prende cura. Se questo percorso
storico dalla selezione naturale a quella artificiale è vero, ciò porta, per
effetto del fondatore (v. supra),
alla definitiva transizione verso il Canis
familiaris attuale, vale a dire a una specie funzionale, cioè addestrabile
a un lavoro, ossia a cani da difesa e da attacco contro gli animali infestanti
i raccolti, a cani da conduzione delle greggi transumanti, a cani da caccia etc., insomma a cani da lavoro, il tutto
grazie all’imprinting (v. infra) dei cuccioli durante il periodo
critico della socializzazione. Ciò che comporta, se esemplifichiamo ricorrendo a un cane da
conduzione, a
una soggezione
attiva e emotiva del cane nei confronti del gregge da condurre, cioè a un
legame interspecifico tra cane e pecora (o cane e uomo, o cane e altro ancora)
che fa sì che il cane adulto esibisca i normali comportamenti intraspecifici
innati, ossia quelli che caratterizzano il rapporto del cane con un altro cane,
e che fanno sì che un carnivoro (il cane) diventi di fatto il conduttore di una
specie che avrebbe il ruolo di preda (qui la pecora). Il tutto, dunque, grazie
all’ambiente evolutivo antropico che si sostituisce a quello che sarebbe
primigenio per il cane (originariamente, quello del protocane con il modulo
comportamentale della docilità in prossimità d’un villaggio), vale a dire
spostando la collocazione del cane dai margini della comunità umana al suo
centro, da un luogo dove il protocane non è addestrabile a un luogo dove
l’addestramento, dapprima inconsapevole e poi con tassi sempre più alti
d’intromissione umana, si dimostra funzionale agli interessi dell’uomo (e
questa è la seconda forma di simbiosi, quella che permette il passaggio dal
commensalismo al mutualismo). A questo punto, è da sottolineare che nello
sviluppo dell’organismo (o ontogenesi) dei cani, il periodo critico della
socializzazione si presenta all’incirca tra la quarta e la sedicesima settimana
di vita; in questo periodo il cucciolo, che nasce senza funzione visiva e
uditiva, è portato per un lungo periodo alla dipendenza dalle cure parentali,
cui s’aggiunga il fatto critico che l’apertura degli occhi, cioè la funzione
visiva, sommata a tutte le altre percezioni sensorie diventate attive, quali il
tatto, l’udito, l’olfatto e il gusto presenti a partire dalla terza settimana, mettono
in moto in modo irreversibile uno sviluppo neurosensorio che si traduce nella
capacità di formare relazioni sociali intraspecifiche (normalmente con chi
gestisce le cure parentali, cui l’uomo si può sostituire). Dopo 6-8 settimane,
cioè dopo lo svezzamento,
s’attiva poi geneticamente lo schema (pattern)
motorio della paura
nei confronti di ciò che può essere pericoloso, cioè non conosciuto e al di
fuori del vissuto dell’area di socializzazione, vale a dire l’insorgenza d’una
reazione limite alla tolleranza d’un umano (che qui rappresenta uno stressor, nel caso che l’uomo non si
sostituisca alla madre) oltre la quale s’attiva la paura, in altre parole il
tratto geneticamente codificato della distanza di fuga. Come dire che il periodo in cui il cane può riconoscere nel
suo ambiente evolutivo un tratto eterospecifico ritenuto positivo (l’uomo, per
esempio) e, successivamente, di discriminarlo rispetto a quelli che ne sono
estranei, è
quindi limitato;
infatti, dopo 16 settimane questa finestra di socializzazione si riduce poi
fortemente o si chiude definitivamente, vale a dire si disattiva la finestra
temporale in cui l’ambiente evolutivo contribuisce a informare, a livello
cerebrale, ciò che darà poi origine al repertorio epigenetico delle strutture
differenziate nel comportamento, quali gerarchie di dominanza, sottomissione,
richieste di cibo e altro ancora. E si dice repertorio epigenetico (dove il
prefisso epi-, dal greco ἐπί, sta a
significare dopo) perché lo sviluppo genetico è legato a un processo dinamico
dove, oltre che alla risposta dei segnali che provengono dall’ambiente interno
dell’organismo, anche la risposta ai segnali che arrivano dall’ambiente esterno
ha una funzione regolatrice, come a dire che lo sviluppo e la differenziazione
dell’organismo sono dovute a uno scambio bidirezionale, d’interdipendenza, tra
i due ambienti (l’interno e l’esterno). Detto altrimenti, l’ambiente esterno
produce una modificazione nell’attività di un gene regolatore senza, per
questo, cambiare le istruzioni contenute nel DNA, ciò che arriva a costituire un fenotipo, dove,
con fenotipo, s’intende il complesso delle caratteristiche morfologiche e
funzionali di un organismo in quanto prodotto dall’interazione dei geni tra
loro e con l’ambiente (v. infra).
Durata della finestra temporale d’interscambio interno/eterno che, nel caso
della nicchia ecologica data dall’ambiente antropico, coincide di fatto con la
tipologia dell’addestramento (e se
interessa, nel Canis lupus gli occhi
si aprono verso il decimo giorno e questa finestra s’apre dopo 13 giorni e al
diciannovesimo si chiude, ciò che rende praticamente impraticabile la sua
domesticazione), ma con la clausola che questo addestramento del cane deve
tenere anche conto dei limiti genetici entro i quali l’ambiente può modificarne
la struttura, nel senso che ogni razza di cane ha strutture comportamentali
specie-specifiche (cioè un repertorio d’origine filogenetica che permette ai pattern motori già pronti di mettersi in
moto quando l’ambiente li attiva come necessari per la specie e che si può
modificare in funzione della citata finestra temporale e della contingenza
ambientale). Ed è questo ciò che li predispone a essere in grado d’imparare la
propria mansione e a eseguirla meglio d’ogni altra razza. Per riprendere
l’esempio sopra utilizzato, tutti i cani, nella finestra temporale detta,
possono essere addestrati a condurre le pecore, ma il cane da conduzione che ha
la struttura adatta appartiene a una sola razza, ed è quel cane che presenta
una struttura fisica, cioè la taglia e la forma, che si traduce nel giusto
comportamento richiesto, che è poi quella che s’addestra tenendo conto dei
limiti della programmazione genetica che informa strutturazione fisica e
collegamenti fra le cellule cerebrali e che opera in modo bidirezionale,
epigenetico, con l’ambiente evolutivo stesso; complesso dato da struttura
fisica/cervello/ambiente evolutivo che differenzia di fatto, nelle
manifestazioni comportamentali della forma fisica, una razza antropicamente
utile dall’altra. Tanto, per essere chiari, che un cane da conduzione presenta
il pattern motorio d’inseguire, ma
non quello di mordere l’inseguito né per afferrarlo né per ucciderlo; un cane
da riporto presenta i pattern motori
per inseguire e per mordere afferrando ciò che deve riportare, ma non quello di
mordere per uccidere, mentre un segugio presenta i pattern motori per inseguire, e per mordere afferrando e uccidendo
la preda; dunque, se gli schemi motori di predazione nel cane (ma anche nel
Lupo) presentano la sequenza ‘individuare > fissare > avvicinarsi
furtivamente > inseguire > mordere per afferrare > mordere per
uccidere > sezionare > consumare’, ecco che tra questi, che s’attivano
dopo lo svezzamento, sono presenti anche quelli che l’uomo può utilizzare o
sfruttare per i suoi scopi e che questo utilizzo, come per tutti gli altri pattern motori che s’attivano e
incrementano nella sequenza, è per sempre, e l’uomo li può attivare o
disattivare (regolando le risposte
ritenute positive o negative, dato l’ambiente di sviluppo che si ritiene
ottimale per l’emissione dei moduli comportamentali, v. infra, il fenomeno della potatura), facilitato in questo anche dal
fatto che questi tratti non sono strettamente collegati fra loro (come capita
ai Felini, che per predare devono compiere per intero la loro sequenza motoria
di predazione). Tanto che il via alla sequenza motoria, che dopo
l’addestramento diventa stereotipata, può cominciare nel Canis da qualsiasi punto (ciò che spiega, tra l’altro, il perché i
Lupi abbiano potuto con opportunismo presentare da solo il pattern di consumare i resti abbandonati dagli umani e perché gli
uomini abbiano manifestato comportamenti cinegetici, cioè di caccia con il cane),
ciò che farà, infine, che il cane sia domesticato, da lavoro o altro, diventi
cioè un animale sinantropico, ossia un animale che, al pari del gatto, vive
normalmente in compagnia dell’uomo. La figura seguente, che mostra la crescita
del cervello del cane nell’arco temporale d’un anno, evidenzia che la maggior
parte della sua crescita, quella in cui si formano e stabilizzano le
connessioni cerebrali che lo conformeranno alla nicchia, coincide con il
periodo sensibile alla socializzazione, oltre il quale non saranno mai
soddisfacenti nuovi addestramenti ad altre abilità sociali (infatti, durante il
periodo critico i circuiti neurali sono sensibili solo alla persistenza dei
segnali di nicchia, segnali che sono così in grado di provocare un’attività
neurale che si stabilizza in un preciso schema di connessioni tra le cellule
nervose, segnali che sono così selezionati per fare parte del cervello dopo le
16 settimane, mentre altri schemi, pur presenti, ma non adeguatamente
stimolati, sono definitivamente persi con la crescita, fenomeno detto di
potatura, o pruning; per riprendere
l’esempio del cane da conduzione, se i cuccioli mostrano lo schema motorio
dell’inseguimento delle pecore, o quello del mordere per afferrarle, è
sufficiente allontanarli per un dato tempo dal gregge, cioè dalle pecore quale
stimolo scatenante, ed ecco che in breve il comportamento scompare, per
delezione, dal repertorio senza che ne rimanga traccia mnestica, come dire che il pattern è potato dalla memoria; in figura, la
crescita è data in cm3 e il periodo critico in mesi):
Figura
n. . Fonte: Coppinger e Coppinger,
2012, p. 130.
Al cane è
dunque data la possibilità di manifestare un’intelligenza sociale che, nella
nicchia antropica, s’esplica come interazione condivisa con gli umani (qualità
non data nei Lupi, ma potenziale nei Lupi opportunisti, i protocani, che si
rivelano essere così gli antenati di fatto dei cani); qualità che li ha resi
capaci di leggere le intenzioni altrui, cioè capirne la gestualità, gli sguardi
orientati e soprattutto la deissi, cioè il gesto d’indicare (pointing), che solo cuccioli di cane e
d’uomo sanno da subito interpretare (non la sanno interpretare neppure gli
Scimpanzé e i Bonobo, come visto più vicini filogeneticamente all’uomo), il
tutto selezionando gesti, sguardi, indicazioni in funzione di ciò a cui gli
umani prestano attenzione, cioè manifestando attraverso l’intenzionalità
condivisa gli stessi processi mentali di un bambino sotto cura parentale. E
questo vuol dire che c’è stata un’evoluzione nelle capacità cognitive dei cani,
capacità cognitiva che si presenta innata (ossia come un sottoprodotto casuale
della domesticazione), come se solo tra cucciolo di cane e cucciolo d’uomo ci
fosse stata un’evoluzione convergente, nonostante la differenza di specie,
verso un comportamento che solleciti le cure parentali d’un adulto di Homo sapiens (ossia con alcuni tipi
d’interazioni sociale e comunicativa tipici fra il cucciolo d’uomo e sua madre) e che nell’arco
di nove settimane può definirsi completamente manifestata (v. supra). Capacità, dunque, che non necessita d’un apprendimento,
cioè non è dovuta all’influenza dell’addestramento, anche se è vero che a
seguire la lunga esposizione all’uomo e la selezione artificiale portano poi,
come detto, a una specializzazione delle capacità cognitive; tanto che si può
affermare che quest’intelligenza sociale ha permesso ai cuccioli in grado di
manipolare e interpretare il comportamento umano d’avere più probabilità di
sopravvivenza rispetto ai cuccioli di Canis
lupus (che questa capacità innata non l’hanno), dunque d’avere più
probabilità di riprodursi e di trasmettere i propri geni alla generazione a
venire. Come dire che, con il cambiamento della nicchia ecologica e
l’adattamento evolutivo (genetico ed epigenetico) ad essa, cioè con il
mutualismo e l’evoluzione convergente, s’è assestata la detta capacità di saper
rispondere simbioticamente al comportamento umano e, soprattutto, a saper
cooperare con l’uomo. Per quanto riguarda l’atteggiamento simbiotico cane/uomo
è poi necessario prendere in considerazione anche il ruolo svolto
dall’ossitocina (o oxitocina, abbreviata in OXT),
un ormone di natura proteica prodotto dall’ipotalamo e secreto dal lobo
posteriore dell’ipofisi; infatti, è stato dimostrato che la produzione dell’ossitocina aumenta sia nella madre che nel neonato se questi si guardano
negli occhi, aumento di produzione ormonale che si traduce nella fiducia del
neonato di ricoprire il ruolo d’oggetto di cura e che crea, in pari tempo,
un’empatia che nella madre si traduce come impegno ad assumere il ruolo di
soggetto di cura, come dire che l’ossitocina produce una comunicazione
madre/neonato che funziona anche in assenza d’una comunicazione verbale; ora, è
questo lo stesso dispositivo preverbale che s’implementa se un uomo e un cane
si guardano negli occhi, ed è probabilmente questa meccanica di cura offerta
dall’ossitocina che mette in moto un ciclo di feedback positivo tra oggetto e soggetto di cura che ha permesso la
sopra citata coevoluzione fra i due di un legame tanto affettivo quanto
cognitivo e sociale, legame che emerge anche perché l’ossitocina può agire
sulle strutture corticali limbiche e prefrontali, aumentando la trasmissione
dell’acido γ-aminobutirrico (o Gamma-AminoButyric
Acid, GABA), che è uno dei principali neurotrasmettitori inibitori, il che
è dire che quest’acido induce l’abbassamento di freni inibitori sociali, quali
la paura, l’ansia e lo stress, e apre
alla disponibilità di fiducia e empatia a fronte della necessità di
comportamenti collaborativi; il guardarsi reciproco negli occhi di cane e uomo,
incrementa inoltre, e in entrambi, oltre all’ossitocina, altri ormoni, quali le
β-endorfine (o betaendorfine), associate all’euforia e all’innalzamento della
soglia del dolore (azione analgesica); la prolattina
(o luteòtropina, LuteoTropic Hormone,
LTH), legata alla promozione dei legami e associata ai comportamenti di cura (è l’ormone che, alla fine della
gravidanza, determina la secrezione lattea nelle ghiandola mammarie); la β-feniletilamina
(o feniletilamina), che tende ad aumentare nei casi d’innamoramento e la
dopamina, che amplifica le sensazioni piacevoli (e, per inciso, si sottolinea
che l’azione di guardarsi negli occhi sarebbe interpreta dal Canis lupus nel modo opposto, ossia come
forte segno d’ostilità, e che è per
questo che i Lupi rifuggono il contatto visivo). Come
affermare che, se le interazioni visive con i cani possono aumentare i
correlati neurofisiologici, cioè le concentrazioni d’alcune tipologie ormonali,
tutto ciò ci traduce il funzionamento biologico del comportamento
d’attaccamento, cui bisogna aggiungere che, secondo l’ottica appena delineata, quest’attaccamento
si manifesta anche nel rapporto di maternità dei Mammiferi nei confronti dei
loro cuccioli (Homo sapiens incluso) in quella che si
definisce come risposta epimeletica (dal greco ἐπιμελέομαι, prendersi cura), vale a dire nell’emergere
del comportamento innato del prendersi cura (proprio, si ripete, ai Mammiferi) verso
ciò che manifesta una morfologia ch’è propria solo ai cuccioli, seguita questa dal
suo corredo comunicativo di richiesta di cura, detto comportamento etepimeletico
(dove il prefisso et- è dal greco αίτη,
richiesta [?]), cioè dei segnali neonatali che si manifestano prima
dell’avvenuta socializzazione; questo rapporto epimeletico/etepimeletico lo si
nota, per esempio, nelle cure parentali dei Lupi e dei Cani, nella selezione
postzigotica del cucciolo di protocane da parte dell’uomo (v. supra), nella pratica del maternaggio
propria alle società di caccia e raccolta, praticata a tutt’oggi, per esempio,
dagli aborigeni australiani e della Nuova Guinea, cioè nell’allattamento al
seno d’una donna, che ha perso la sua prole, d’un cucciolo di cane (ma anche di
maiale), questo a seguito del ritardo nel divezzamento, cioè dell’allungamento
del periodo evolutivo dell’allattamento, che porta ad un repertorio, prolungato
nel tempo, dello sviluppo dei segnali etepimeletici e della risposta
epimeletica, ossia, e questo è un fatto estremamente importante, al
manifestarsi d’una fase evolutiva dell’attaccamento che si fa anche sociale
all’interno della specie e che può sorpassare la specie implicata e
manifestarsi come capacità cognitiva trans-specie.
Per quanto riguarda invece la cooperazione uomo/cane, questa s’è sviluppata,
come visto, anche in funzione gregaria all’uomo e in modo utilitaristico per
l’uomo; con la cooperazione, dunque, s’assiste a un’autodomesticazione del
protocane legata al commensalismo che si traduce in un mutualismo (tramite un
processo d’adozione e d’addestramento in una data e determinata finestra
temporale); autodomesticazione che, probabilmente, s’è verificata più volte e
in luoghi diversi (secondo un’ipotesi multiregionalistica che si basa su
risultati genetici, biogeografici e archeologici) e che, oltre alla taglia e
alle funzioni cerebrali che governano i tratti comportamentali, ne ha
modificato la riproduzione anticipandola e raddoppiando nelle femmine la
manifestazione dell’ovulazione annuale (estro che nel Canis lupus si manifesta annualmente e grossomodo a partire dal
secondo anno d’età) e, con la dieta diventata onnivora, ne modifica anche il
metabolismo, per esempio, quello degli amidi con l’amilasi (v. infra; quest’ultimo è dunque un fenomeno
presente data la dieta con carboidrati, possibile nelle società agricole; e a
questo proposito c’è chi sostiene che, probabilmente a causa delle pressioni di
selezione comuni tra cane e uomo, ci sia stata, oltre che la convergenza
evolutiva sopra citata, anche un’evoluzione parallela nei geni preposti al
metabolismo, ai processi digestivi e neurologici e al cancro), tutto un insieme
di tratti che manifesta una sindrome da domesticazione (v. infra). Riguardo al rapporto mutualistico tra cane e uomo, si deve
poi aggiungere che il cane, cambiando geneticamente sia struttura sia
comportamento, rimane intrappolato nella sua nuova strutturazione, mentre
l’uomo no, tanto che il cane domestico non sarebbe in grado, da solo, di
sopravvivere nella sua forma attuale in quanto, a livello cognitivo, s’aspetta
sempre un aiuto da parte dell’uomo. Quello tra cane e uomo non è, dunque, un
mutualismo pienamente simbiotico, quello in cui le specie coinvolte si modificano
in coevoluzione l’una con l’altra dando origine a due simbionti (v. supra), perché qui, tra l’uomo e il
cane, solo il cane è pienamente un simbionte, mentre l’ospite lo è a suo
gradimento, tanto che qualcuno parla, a proposito del destino sociale di alcuni
cani, di dulosi (dove il termine dulosi rimanda al greco δούλωσις, derivato di δοῦλος,
schiavo). Per quanto riguarda l’aspetto delle aspettative del cane nei
confronti dell’uomo, si parla di neotenia (v. supra), cioè della permanenza nell’adulto di un tratto
comportamentale del cucciolo, qui la richiesta di cure parentali. Per quanto
riguarda poi l’intelligenza sociale del cane, cioè l’aspetto sociocognitivo, si
sospetta fortemente che la diminuita distanza di fuga prodotta
dall’iniziale autodomesticazione
abbia portato questa intelligenza a manifestarsi come un sottoprodotto non
previsto di questo comportamento sociale, cioè come un fenomeno di
pleiotropismo capace di produrre effetti multipli sul fenotipo (laddove il
termine pleiotropìa rimanda alla capacità d’un singolo gene di potere
influenzare, a livello fenotipico, l’espressione di più d’un carattere, ossia
d’intervenire su più caratteristiche dell’individuo). Il che è dire che la
mutazione della flight distance ha
dato origine a un comportamento sociale specializzato e innato (cioè
indipendente dall’esposizione all’uomo e dal rinforzo) capace tanto di leggere
il comportamento umano quanto di produrre e d’indirizzare, ben prima della
cooperazione richiesta al cane da lavoro, segnali di comunicazione specifici
all’uomo. O, detto altrimenti, non ha richiesto una selezione diretta per
migliorare questa abilità sociale cognitiva di base, giacché, di là da questo
azzeramento dalla paura dell’uomo in seguito a un’evoluzione del corredo
filogenetico che si traduce nell’interagire con gli umani come se fossero cani
(cioè spostando l’abilità d’interpretare il comportamento degli altri cani
all’uomo, ossia passando dall’abilità intraspecie a quella interspecie),
l’intelligenza del cane è un fenomeno interamente epigenetico, vale a dire un
adattamento all’ambiente nel quale il cane sta crescendo. Come dire, ancora,
che la seguente e conseguente struttura comportamentale del cane dopo il citato
azzeramento, non è genetica nel senso che i geni fissano o predeterminano i
tratti e i comportamenti adulti, ma che ogni singola caratteristica è solo un
adattamento ontogenetico all’ambiente. Quindi, generalizzando, è probabile che
l’innata socialità con l’uomo abbia avvantaggiato il Canis familiaris in quei contesti dove, anziché procurarsi le
risorse trofiche da sé, questo deve farsi alimentare dall’uomo, tanto da
costringersi a rispondere in modo attivo e pertinente al comportamento umano (e
questo può spiegare il perché della riduzione del cervello nel passaggio dal Canis lupus a Canis familiaris poiché le dimensioni e le caratteristiche del
cervello sono sempre strettamente vincolate all’ecosistema, in particolare alla
dieta possibile in una certa nicchia). La seguente tabella compara le abilità
cognitive dei cani rispetto a quelle d’altri mammiferi (avendo sempre presente
che gli animali, uomo compreso, sviluppano abilità cognitive diverse in
funzione di ciò che occorre loro per sopravvivere e riprodursi, ossia
ch’esistono più forme d’intelligenza sociale e che la capacità di risolvere una
data tipologia di problemi non si declina necessariamente a tutti gli altri):
TRATTI DISTINTIVI
|
SCARSA RISPETTO A QUELLA D’ALTRI
MAMMIFERI
|
PARAGONABILE A QUELLA D’ALTRI MAMMIFERI
|
SUPERIORE RISPETTO A QUELLA D’ALTRI
MAMMIFERI
|
DECISAMENTE SUPERIORE RISPETTO A QUELLA
D’ALTRI MAMMIFERI
|
COMPRENSIONE
DEI GESTI
|
|
|
|
X
|
ABILITÀ
NEL DECODIFICARE NUOVE PAROLE
|
|
|
|
X
|
ABILITÀ
COMUNICATIVA CON L’INTERLOCUTORE TRAMITE VOCALIZZAZIONI E GESTI
|
|
|
X
|
|
COMPRENSIONE
DELLA PROSPETTIVA DELL’INTERLOCUTORE
|
|
|
X
|
|
ORIENTAMENTO
NELLO SPAZIO
|
|
X
|
|
|
APPRENDIMENTO
INDIVIDUALE E ASSOCIATIVO (CONDIZIONAMENTO)
|
|
X
|
|
|
VALUTAZIONE
DELLA QUANTITÀ
|
|
X
|
|
|
RICONOSCIMENTO
RAPPORTI CAUSA/EFFETTO
|
X
|
|
|
|
AUTOCOSCIENZA
|
|
X
|
|
|
CAPACITÀ
D’IMPARARE DAI CONSPECIFICI
|
|
X
|
|
|
RIPRODUZIONE
DELLE AZIONI ALTRUI (CONSPECIFICI E UMANI)
|
|
|
X
|
|
RICHIESTA
D’AIUTO AGLI UMANI
|
|
|
X
|
|
INDIVIDUAZIONE
DEI CONSPECIFICI NON COOPERANTI E OPPORTUNISTI
|
|
X
|
|
|
EMPATIA
|
|
X
|
|
|
SENSO DI
COLPA
|
|
X
|
|
|
Tabella n.
. Fonte (adattata): Hare e Woods, 2013, p. 213.
Per quanto
riguarda le razze, il primo tentativo documentato di modellare il Canis familiaris lo si ritrova in un
sito in Danimarca ed è risalente a 8 000 anni fa, e si tratta d’un tentativo di
selezione intenzionale della taglia del cane che ha portato a cani di taglia piccola,
media e grande di cui si può solo ipotizzare l’utilizzo, mentre la grande
diversificazione in razze del Canis
familiaris risale solo a ca. 200 anni fa (per inciso, e per non confondere
sottospecie e razza o per non usarli in modo intercambiabile, s’intenda che una
sottospecie è sempre circoscritta a una determinata località dove s’è evoluta
in seguito ad isolamento riproduttivo, mentre una razza è un prodotto della
selezione artificiale e le barriere d’isolamento non svolgono necessariamente
un ruolo nella sua evoluzione). Questa diversificazione è stata ottenuta con
l’incrocio di razze diverse (cioè per il tramite d’un processo in cui
s’introducono nel pool genico di un
cane dei geni appartenenti a un altro cane che possiede un corredo cromosomico diverso,
fenomeno detto d’ibridazione, o crossbreeding)
e manipolando il momento d’inizio e d’interruzione della crescita e, fatti
salvi i limiti della crescita allometrica, ossia della restrizione evolutiva
nei confronti della forma che un cane può arrivare ad assumere, tra una razza e
l’altra non si notano differenze genetiche apprezzabili. Come dire che nelle
varie razze c’è pochissima variazione genetica, tanto che si può affermare che,
se i geni sono gli stessi, eseguono però la metamorfosi dal cucciolo alla forma
adattiva adulta in tempi diversi (si parla, a questo proposito, di differenze
eterocroniche nella progressione temporale dello sviluppo).
Per quanto
riguarda la domesticazione, o almeno la mansuefazione, del Gatto selvatico (Felis silvestris) la sua presenza
accanto agli umani data con certezza a partire da 9 500-9 200 anni fa, questo
grazie al ritrovamento dei resti fossili d’un gatto selvatico africano di 8
mesi, dunque appartenenti alla sottospecie Felis
silvestris lybica, ch’è stata introdotta volontariamente nell’isola di
Cipro (giacché la fauna autoctona Preneolitica di Cipro non comprende questa
specie) in seguito a un’ondata migratoria e colonizzatrice partita dalle coste
del Medio Oriente, resti ritrovati nello scavo del sito appartenente
all’orizzonte culturale del Neolitico preceramico di Shillourokambos in una
sepoltura intenzionale, cioè in una piccola fossa indipendente posta a 40 cm
dai resti d’un corpo umano di sesso sconosciuto, là dove lo scheletro del gatto
è poi orientato nella stessa direzione dell’essere umano, sepoltura che lascia
presumere una convivenza tra gatti e umani nelle società già stanziali della
Mezzaluna fertile. Ancora, a conferma e sempre nell’isola di Cipro, nel sito
preceramico di Khirokitia (poco lontano dal sito di Shillourokambos), è stato
ritrovato un frammento osteologico, un’emimandibola d’un felide di medie
dimensioni risalente al VII millennio a.C., la cui analisi morfometrica
assicura essere appartenente a un esemplare morfologicamente riferibile a Felis silvestris, come mostra il
confronto fra la biometria della mandibola del felide di Khirokitia e le
biometrie delle mandibole di alcuni felidi di medie dimensioni ancora oggi
diffusi nel Vicino Oriente, il gatto della giungla, Felis chaus, il caracal
(un felide del genere lince, Lynx caracal), Caracal caracal e il gatto selvatico, Felis silvestris (nella figura M1, a sinistra, indica la
lunghezza, in mm, del dente carnassiale, v. infra;
a destra, la lunghezza P3- M1 indica, sempre in mm, quella
del ramo mandibolare):
Figura
n. . Fonte: Masseti, 2008, p. 126.
Il Felis silvestris deriva da un Felide
ancestrale del Sud-Est asiatico risalente a 10,8 milioni d’anni fa, e si separa
dalle altre specie ca. 2 milioni d’anni fa e la sua forma domesticata, il Felis catus, trova poi il suo antenato
nella sottospecie Felis silvestris lybica,
che è ritenuto quasi all’unanimità essere il suo progenitore; ora, la sua
domesticazione certa da Felis silvestris
lybica a Felis catus data però, come evidenzia un ritrovamento osteologico in
Cina (v. infra), a partire da 5 300
anni fa. Domesticazione che ha poi favorito l’emergere di comportamenti, in
ambiente antropogenico, legati alla modulazione della distanza di fuga, secondo
lo stesso meccanismo che vale per il Cane (cioè quello della finestra di
socializzazione del Gatto, ricordando però che i gatti, a differenza delle
specie gregarie, non hanno bisogno di legami sociali prolungati nel tempo e
nello spazio con altri membri della stessa specie e che pertanto necessitano di
periodi d’imprinting più brevi), e all’apprendimento
del rapporto fra stimolo e ricompensa, cioè caccia da agguato agli animali
infestanti uguale a cibo fornito dagli umani, fenomeno, quest’ultimo, che si
presenta giacché i gatti cacciano anche in assenza della sensazione promossa
dal fabbisogno proteico, dato che nel loro comportamento il meccanismo che
innesca la fame è dissociato da quello della predazione, come dire che gli
stimoli offerti dalla preda, per esempio, gli squittii del topo o un fruscio tra
le granaglie, innescano automaticamente un comportamento predatorio;
domesticazione, ancora, che ha portato a un mutamento delle funzioni cerebrali
in rapporto a una riduzione dell’aggressività e all’emergere del tratto della
docilità. Di fatto si tratta d’una autodomesticazione (dunque, una selezione
naturale per mutualismo) ch’è legata, come in parte è avvenuto per il cane, alla
sua plasticità comportamentale e all’affermarsi della stanzialità e delle
società agricole, cioè a un aumento delle disponibilità alimentari carnee, ciò
che permette la dieta del gatto che, infatti, è composta per il 70% e oltre da
carne, cioè è ipercarnivora o carnivora obbligata (il gatto, infatti, preda
esclusivamente vertebrati vivi, soprattutto roditori quali arvicole e topi e,
se costretto, la dieta può includere uccelli, rettili e invertebrati), cui
s’aggiunga il fatto che i gatti presentano una capacità metabolica limitata a
digerire alimenti che non siano proteine, pertanto il loro fabbisogno proteico è
elevato, e lo mostrano tanto la loro capacità di metabolizzare i grassi quanto la
loro dentizione, cioè i loro denti canini, utilizzati per tagliare le vertebre
del collo della preda, e quelli carnassiali, dati questi dall’ultimo premolare
superiore e dal primo molare inferiore, allineati in modo tale da funzionare
come strumenti trancianti per tagliare via la carne dalle ossa (carne che non è
poi generalmente masticata, ma ingoiata per intero). Ora, per capire il
comportamento del gatto è necessario valutare la differenza tra area familiare
e territorio; un’area
familiare (o home range, alla
lettera, area o campo di casa), è un areale circoscritto dato dall’orizzonte
entro cui si muove il singolo animale nelle sue attività di ruotine ed è definita dal solo fatto
d’essere usata e non dal modo in cui lo spazio è utilizzato, senza riferimento,
quindi, alla presenza/assenza di comportamenti di difesa; il territorio (o core area, alla lettera, area centrale),
invece, è un areale circoscritto per il tramite di marcature territoriali di
possesso (olfattive, visive etc.) e
difeso con l’antagonismo contro chi lo vìola, e all’interno del quale l’animale,
da solo, in coppia, oppure in gruppo, si sposta alla ricerca delle risorse che
possono garantirne la sopravvivenza
e il successo riproduttivo (e l’intero home
range può coincidere con la core area,
o, come capita più spesso, può solo includerla al suo interno); le tipologie delle
routine e delle strategie di difesa
(presenti/assenti) che contraddistinguono i comportamenti degli animali in un
areale sono varie, per esempio, tra i mammiferi, ci sono animali che hanno
un’area familiare ben definita, ma non una core
area, e altri in cui i maschi hanno un comportamento territoriale solo nei
confronti d’altri maschi e solo durante la stagione riproduttiva (e pur essendo
l’insieme dei conspecifici gregario o sociale in un’area familiare); altri,
ancora, ed è ciò che qui interessa, che possono modulare nel tempo e nello
spazio la loro territorialità come i gatti; infatti, sopra, s’è detto che i gatti
presentano plasticità comportamentale, e questo lo si vede quando l’areale complessivo
è povero di risorse trofiche e il gatto tende a un agire territoriale isolato di
difesa delle risorse trofiche, cioè con una core
area distinta da quella dei conspecifici e che presenta come unici contatti
sociali quelli temporanei fra partner
sessuali e quelli, anch’essi temporanei, tra madri e figli; così come lo si
vede quando s’è in presenza d’un areale ricco di risorse, là dove esiste la
condivisione di gruppo del territorio (core
area) e laddove si stempera e si
riduce la competitività intraspecifica pur rimanendo l’atteggiamento xenofobo,
cioè quello di difesa contro i conspecifici che non fanno parte del gruppo,
tanto che in questi ecosistemi i gatti arrivano a formare gruppi allargati (dove
le femmine imparentate sono dominati, pur senza che s’arrivino a formare rigide
gerarchie), là dove esiste, oltre alla condivisione di gruppo della core area, anche l’home range utilizzata dai conspecifici in tempi diversi per evitare
fenomeni d’aggressività e di conflittualità, questo perché pare che per
regolare le interazioni in quest’area familiare sia sufficiente lo status individuale definito sulla base
dell’età, del sesso e della condizione riproduttiva, ragion per cui si può
affermare che la modulazione del comportamento territoriale dei gatti è poi dovuta
al tasso d’aggregazione, ch’è a sua volta una variabile che dipende dalle quantità
delle risorse trofiche disponibili; e storicamente un ambiente ricco di risorse
che possa permettere questa formazione di gruppi s’è presentato con la
formazione delle società agricole e stanziali, là dove gli istinti territoriali
d’un gatto lo possono portare a condividere il suo stesso territorio (core area), posto all’interno dell’area familiare,
con degli essere umani che gli offrono del cibo. Come dire che, nello specifico,
questa disponibilità trofica in un areale complessivo riguarda e le discariche
dei villaggi (i gatti, come i cani, possono cibarsi di rifiuti) e le
popolazioni antropocore (v. infra) attirate
negli insediamenti umani dove sono presenti rifiuti, ma anche i luoghi dove ci
sono semi in produzione e dove sono immagazzinati gli accumuli dei prodotti
agricoli conservabili, cioè dove abbondano gli organismi infestanti commensali
dell’uomo, quali roditori e uccelli granivori, Topi (Mus domesticus), Ratti neri (Rattus
rattus) e Passeri (Passer domesticus), appunto diffusi laddove
si presentano anche siti di stoccaggio dei cereali (per esempio, nei siti
natufiani di Ain Mallaha e Hayonim, sono stati trovati resti di tutti e tre i
citati infestanti, e per inciso, uno dei fattori più probanti dell’avvenuta
sedentarietà su base agricola d’una popolazione è dato dal ritrovamento del
topo domestico commensale dell’uomo, il Mus
domesticus, che rappresenta un esempio di specie autodomesticata grazie al surplus di risorse trofiche
immagazzinate). Plasticità comportamentale ch’è di reciproco vantaggio e per i
gatti predatori e, soprattutto, per gli umani stanziali che da queste risorse
dipendono, risorse che sono così salvaguardate dalla riduzione di quest’infausta
pressione predatoria grazie agli istinti territoriali dei gatti e, fattore da
non dimenticare, dal miglioramento dell’igiene delle riserve alimentari che la
disinfestazione da topi e ratti, effettuata dai gatti, produce (topi e ratti,
infatti, sono vettori di malattie e, oltre a cibarsi di granaglie, le
deteriorano dal punto di vista igienico con le loro deiezioni, urine e feci, rendendole
pericolose a vari gradi per la salute dell’uomo). Si tratta, dunque, d’una autodomesticazione
per mutualismo e senza ignorare che i gatti possono aver favorito la presenza
d’una selezione postzigotica (v. supra)
in quanto presentano poi anche un aspetto invitante per gli umani, questo perché
dotati di tratti, quali occhi grandi, muso schiacciato, fronte alta e
arrotondata, che ne facilitano e preadattano, se tolleranti alla presenza
umana, l’approccio. Ritornando alle risorse trofiche delle società stanziali, i
gatti riescono a catturare piccoli animali, i citati topi, per esempio, anche perché
hanno una soglia uditiva ch’è in grado di sentirne l’emissione vocale (che, in
caso di comunicazione intraspecie, utilizza gli ultrasuoni, dunque secondo una
frequenza che non è udibile dagli umani), così come sono in possesso, date le
loro abitudini di caccia crepuscolari (sono più attivi all’alba e al tramonto),
d’una visione notturna, cioè della capacità di vedere i movimenti in condizioni
di scarsa visibilità (in ogni caso, la preda è prima percepita tramite l’udito,
che nel gatto è molto sviluppato, e solo in seguito con la vista; il topo di
cui sopra, il Mus domesticus, per
esempio, ha abitudini di vita notturne, ciò che favorisce nel gatto la sua
individuazione). La sede della domesticazione è probabilmente multiregionale,
cioè avvenuta in più luoghi e più volte, e si sospetta che una domesticazione
dati a partire da 10 000 - 8 000 anni fa nell’area della Mezzaluna fertile
(forse regione di provenienza del gatto ritrovato a Cipro), dove si suppone sia
avvenuta la domesticazione di Felis
silvestris lybica, anche in base al fatto che il gatto selvatico africano
ha reputazione di lasciarsi mansuefare più facilmente del gatto selvatico
europeo, Felis silvestris silvestris,
in ragione delle diverse condizioni di sviluppo della struttura sociale di
queste due sottospecie, legate a diversificate condizioni ecologiche e a
plasticità, rispetto alla densità demografica, diversamente modulate nel
livello di tolleranza specie-specifico; per certo si sa solo ch’è avvenuta nei
villaggi agricoli cinesi, dov’è accertata la presenza di magazzini di
stoccaggio dei cereali e un ciclo che lega le specie roditrici al miglio e i
gatti ai roditori e agli uomini (come è avvenuto nel 5 300 nel villaggio
agricolo di Quanhucun, nella regione del Shaanxi, Cina Nordoccidentale, dove è
documentata la domesticazione commensale). Si sa, inoltre, che tra il genoma
del Felis silvestris e quello di Felis catus non esistono molte
differenze, e che, come detto, quelle che esistono investono l’area
comportamentale, principalmente la modificazione della distanza di fuga legata
alla docilità (v. supra); tanto che,
se oltre a quest’effetto proprio al citato aspetto mutualistico, si presenta in
seguito, com’è avvenuto per il Cane, anche un vero e proprio mutamento di
nicchia ecologica (commensalismo) che porta a un diverso regime alimentare,
ecco che il Gatto domesticato è direttamente alimentato da mano umana, ed ecco
che compaiono, a seguito dell’assuefazione all’uomo grazie a questo surplus alimentare, le alterazioni nei
primi genomi del Felis catus che si
traducono nella selezione della docilità e nel già detto meccanismo d’attesa
della ricompensa umana per il lavoro svolto, fenomeno che si lega poi all’apprendimento
di nuovi comportamenti, alla regressione
ad alcuni tratti infantili nell’individuo adulto (una neotenia, v. supra) e a un raddoppiamento annuale
dell’estro (che nel Felis silvestris
avviene solo una volta all’anno), cui si sommano le alterazioni morfologiche,
quali gli arti leggermente più corti rispetto a Felis silvestris, la riduzione del cervello e una leggera riduzione
della taglia e della densità pilifera del mantello, assieme a una variazione
nelle sue pigmentazioni, cui s’aggiunga la modificazione del metabolismo dovuto
all’allungamento dell’intestino (ovvero una vera e propria sindrome da
domesticazione che si suppone legata a un deficit
di migrazione delle cellule dalla crosta neurale, v. infra). L’allungamento dell’intestino, per inciso, è probabilmente
una conseguenza adattativa a una dieta mista, meno carnivora, che per
l’estrazione e l’assimilazione dei principi nutritivi da alimenti alimentari
richiede viscere più lunghe, e n’è esempio il miglio comune (Panicum miliaceum, v. infra) che i gatti di Quanhucun si sono
abituati a mangiare, com’è stato documentato, quale ricompensa della controparte
degli agricoltori alla loro attività di caccia della popolazione murina e
aviaria. A prescindere dalla selezione comportamentale per il tratto della
docilità e dei suoi effetti a cascata nella sindrome da domesticazione, bisogna
poi sottolineare che il Gatto, per le sue abitudini riproduttive e alimentari,
non può ad ora ritenersi completamente domesticato (è detto, infatti, semidomesticato) in quanto, a differenza degli
organismi domesticati, non s’evolve nella dipendenza totale dall’uomo poiché mantiene
delle caratteristiche adattative specie-specifiche che gli permettono il
riadattamento ad un ambiente poco o parzialmente o per niente antropizzato, là dove possono essere presenti, in assenza
d’isolamento, fenomeni d’incrocio con gatti randagi (o ferali) e selvatici,
tanto che si ritiene che i gatti rinselvatichiti tendano a evitare qualsiasi
contatto diretto con l’uomo riproducendosi allo stato selvatico. Come dire che il gatto, in quanto la
sua nutrizione è spesso indipendente dall’attività dell’uomo, al pari della sua
riproduzione ch’è solo occasionalmente controllata dall’uomo (il gatto si
riproduce come un animale selvatico ed è quindi soggetto più alla pressione
selettiva imposta dall’habitat che
non a quella antropica), manca di quel tratto dato dalla coevoluzione sociale
con l’uomo, cioè la pratica gregaria d’accettazione completa e non relativa a
una gerarchizzazione sociale utilitaristica, che lo renderebbe di fatto pari alle
altre specie domesticate che sono sociali e gregarie allo stato brado; mancanza
di cui è indizio anche il fatto che, mentre i corrispettivi selvatici di tutte le altre specie
domesticate sono ormai estinti (per esempio, il dromedario e il bue, v. supra) o sull’orlo dell’estinzione
(come, per esempio, il Canis lupus)
il Felis silvestris oggi prospera
accanto al Felis catus e gli ibridi
abbondano. Come dire, ancora, che i gatti non sviluppano rigidi e complessi
comportamenti adatti o allo stile di vita territoriale e solitario o a quello
aggregato e sociale, giacché non dipendono mai completamente né da uno né
dall’altro di questi stili di vita che si presentano come opposti e implicanti,
l’uno e l’altro, ordini sociali fortemente modellizzanti, ma che accettano
senza adottarlo l’ordine sociale che s’impone date le disponibilità trofiche
mostrando, appunto, una grande plasticità comportamentale. Per quanto riguarda
poi le razze domestiche, in tutto tra le 30 e le 40, esse risalgono a non più
di 150 anni fa e, a differenza di molti altri mammiferi domestici allevati per
fattori funzionali (per la carne, il latte, il trasporto, la caccia o altro
ancora), cioè oggetto d’una selezione mirata a uno scopo utilitaristico, la
pressione selettiva antropica cui i Gatti sono stati esposti è dovuta a
questioni squisitamente estetiche, tanto che il fenomeno di semidomesticazione si
può anche spiegare con il fatto che la pressione antropica sull’evoluzione del
Gatto è, oltre che storicamente più recente, decisamente meno opportunista
rispetto a quella del Cane.
E per
finire, una precisazione. S’è già usato, e più volte, il termine mutualismo, e
si sottolinea che s’intende parlare con questo termine dell’associazione tra
specie animali differenti (qui cane/uomo o gatto/uomo) che comporta un
vantaggio per entrambe le specie, e senza che tale rapporto (almeno nella fase
iniziale) sia obbligato in quanto le due specie possono vivere anche
indipendentemente l’una dall’altra, mentre con commensalismo s’intende invece
parlare dell’associazione tra due specie che produce benefici trofici per una
sola specie (qui il cane e il gatto, nella loro fase premutualistica). Ed è
bene ricordare, tra le altre cose, che mutualismo vuol anche dire che ci si può
anche nutrire del cane o del gatto (e, in linea generale, dell’animale che
s’alleva), mentre commensalismo in senso lato vuol dire che, anche se non si dà
direttamente da mangiare all’animale (qui il cane e il gatto) come si fa con
gli animali di compagnia, questo può però nutrirsi con i rifiuti prodotti
dall’uomo grazie al controllo del tratto della flight distance, presente anche in altre specie (per esempio,
gabbiani, piccioni, ratti e scarafaggi), perché ciò che varia, infine, è solo
il tipo di nicchia.
UOMO
E AUTODOMESTICAZIONE
L’ipotesi
di un’autodomesticazione dell’uomo non è sperimentalmente dimostrabile, ma
alcuni fatti documentati la rendono plausibile, nell’ordine, la domesticazione
della Volpe argentata, la domesticazione del Cane (di cui s’è detto sopra) e la
fenomenologia comportamentale degli Scimpanzé pigmei, o Bonobo (Pan paniscus), tutti casi dove i
cambiamenti anatomici e fisiologici osservati sono il risultato d’una selezione
(artificiale nel caso delle Volpi, naturale nelle altre due specie) ch’è
avvenuta sulla sola base del coinvolgimento di tratti comportamentali, tutti
casi dove la selezione per la docilità, cioè la pressione selettiva, ha
prodotto dei cambiamenti ormonali e neurochimici che traducono, a livello
biologico, una domesticazione interspecie
(cioè con l’uomo) nelle Volpi e nei Cani e intraspecie tra i Bonobo. Tutti effetti che si possono ipotizzare come
marcatori generali della domesticazione giacché diverse specie (per esempio,
Maiali, Pecore, Capre e altre, v. infra)
hanno risposto, se sottoposti alla stessa tipologia di pressione selettiva, in
modo simile,
e questo perché i Mammiferi condividono, nonostante le specie, meccanismi simili di
regolazione degli ormoni e della neurochimica dell’organismo. Partiamo dalla
Volpe, che al pari del Lupo, del Cane, dello Sciacallo, del Coyote e altri,
appartiene alla famiglia dei Mammiferi carnivori dei Canidi (v. supra), specificamente dalla Volpe
argentata (una variante di colore nero della Volpe fulva, Vulpes vulpes, il cui manto di colore scuro presenta in superfice
un colore bianco) che, allo scopo di studiare le modalità di
domesticazione del cane, è stata
domesticata a partire dal 1959 in una struttura di ricerca di Novosibirsk, in
Siberia, attraverso una selezione artificiale di Volpi già in cattività e virtualmente
selvatiche. Selezione, questa, che s’è basata non sulla selezione di tratti
morfologici, bensì su tratti comportamentali quali il grado manifesto di
docilità di alcune di queste Volpi (generalmente molto aggressive) verso gli
umani, cioè attraverso l’accoppiamento degli esemplari ritenuti più mansueti.
Il test standard di scelta dei
cuccioli prodotti da questo accoppiamento consiste, a partire dall’età di un
mese fino ai 7-8 mesi (quando presentano la maturità sessuale), nell’offrire
loro del cibo e in pari tempo accarezzarli e coccolarli e, in base alla
risposta comportamentale ottenuta, suddividerli in tre classi, come da tabella:
CLASSI
|
COMPORTAMENTO MANIFESTATO
|
% DELLA POPOLAZIONE TOTALE
|
III
|
RIFUGGONO
LE CAREZZE O MORDONO CHI LI ACCAREZZA
|
90
|
II
|
SI
LASCIANO TOCCARE, MA IN ASSENZA DI MANIFESTAZIONI AMICHEVOLI NEI CONFRONTI
DELL’UOMO
|
|
I
|
SI
LASCIANO TOCCARE E PRESENTANO REAZIONI AMICHEVOLI NEI CONFRONTI DELL’UOMO (SI
AVVICINANO)
|
10
|
Tabella
n. . Fonte (adattata): Trut, 1999, p.
163.
Quelli scelti
sono i cuccioli della Classe I che, arrivati in eta riproduttiva, sono fatti
accoppiare. Se inizialmente i cuccioli di Volpe in grado di rispondere ai
criteri di amicalità stabiliti per rapportarsi agli umani sono poche, dopo solo
6 generazioni d’allevamento selettivo orientato alla docilità le Volpi si sono
modificate al punto che viene istituita una nuova classe (l’élite domesticata, IE) e si modificano
le scelte, come da tabella:
CLASSI
|
COMPORTAMENTO MANIFESTATO
|
SCELTA DEGLI SPERIMENTATORI SULLA POPOLAZIONE
ORIGINARIA
|
III
|
RIFUGGONO
LE CAREZZE O MORDONO CHI LI ACCAREZZA
|
SONO
SCELTI PER CREARE IL GRUPPO DI CONTROLLO (CON IL TRATTO DELL’AGGRESSITÀ [1])
|
II
|
SI
LASCIANO TOCCARE, MA IN ASSENZA DI REAZIONI POSITIVE NEI CONFRONTI DELL’UOMO
|
|
I
|
SI
LASCIANO TOCCARE E PRESENTANO REAZIONI POSITIVE NEI CONFRONTI DELL’UOMO (SI
AVVICINANO)
|
SONO
QUELLI INIZIALMENTE SCELTI; MA, A PARTIRE DALLA SETTIMA GENERAZIONE, SI
SCELGONO QUELLI CHE CONFLUISCONO NEL GRUPPO IE
|
IE
|
SONO
ANSIOSI DI STABILIRE CONTATTI CON L’UOMO, CERCANO LA SUA ATTENZIONE, LO
FIUTANO E LO LECCANO GIÀ ALLA FINE DEL PRIMO MESE (COMPORTAMENTO DOG-LIKE [2])
|
SONO
QUELLI SCELTI DEFINITIVAMENTE, MA SOLO A PARTIRE DALLA SETTIMA GENERAZIONE
DELLA CLASSE I (GRUPPO SPERIMENTALE)
|
[1] Il gruppo di controllo permette di
misurare ogni cambiamento indotto dalla selezione
sperimentale. Da sottolineare che entrambi
i gruppi non sono stati allevati a contatto
con l’uomo, esclusi il test iniziale e il momento della nutrizione.
[2] Cioè con un comportamento come
quello del Cane.
Tabella
n. . Fonte (adattata): Trut, 1999, pp.
160-169.
Ora, verso
la decima generazione il 18% delle Volpi sottoposte ad esperimento appartiene
alla classe IE, è cioè domesticato, dato che sale al 35% dopo 20 generazioni e
al 70-80% dopo 35-40 generazioni; il tutto con effetti collaterali plurimi e
apparentemente non connessi prodotti dalla pleiotropia (v. supra), cioè con il
fatto che nel corso delle generazioni muta la morfologia in quanto le orecchie
diventavano flosce e pendenti, la coda più corta o arricciata all’insù, il
colore ritenuto standard del manto
muta in marrone o in manti pezzati, i crani si modificano anche rispetto al
dimorfismo sessuale e il muso diventa più corto (ma la taglia non si modifica);
oltre a questo, si manifesta la ritenzione di caratteristiche infantili
(neotenia), la maturità sessuale si manifesta prima, l’estro in un anno
raddoppia e la fisiologia si modifica con una riduzione della concentrazione
del cortisolo (nella popolazione sperimentale di quattro volte inferiore a
quella di controllo), e cui è pari un aumento della serotonina (v. supra). Infine, il comportamento, a
partire da quello che si potrebbe definire abbaio, diventa in tutto e per tutto
come quello del cane (dog-like) e,
ciò che più importa, s’emancipa anche l’evoluzione cognitiva verso i segnali
comunicativi umani (questo dopo 18 generazioni e con un comportamento della
Volpe domesticata che, a un mese dalla nascita, si dimostra simile a quello
d’un analogo cucciolo di cane), ciò che legittima l’ipotesi processuale di
domesticazione del Cane come una successione senza soluzione di continuità tra
la selezione naturale (che è dominante nei primi stadi della domesticazione) e
la soluzione artificiale (che è presente a seguire). Un processo che porta Cani
e Volpi domesticate a spostare in modo innato l’abilità a interpretare i
comportamenti intraspecie verso quelli interspecie, qui l’uomo. Detto della
volpe, per affrontare ora la questione dei Bonobo e dell’ipotesi della loro
autodomesticazione, è necessario parlare anche degli Scimpanzé (Pan troglodytes), e della rete sociale
che è propria a entrambi questi Pongidi (v. supra).
Gli Scimpanzé vivono in bande che, risorse permettendo, possono arrivare fino a
150 individui e coprono un vasto territorio che percorrono alla ricerca di cibo
(la dieta è principalmente a base di frutta, ma è compresa anche la carnivoria)
e, escluso il rapporto madre/figlio, non esistono fra questi individui dei
legami stabili e la femmina, se le è possibile, s’accoppia con vari partner (o poliandria, dal greco πολύανδρος, che ha molti uomini). Tolto
questo, i componenti della banda, comprese le femmine, cooperano però fra di
loro nella caccia (salvo manifestare interazioni aggressive nel momento della
spartizione della carne; la loro preda preferita è poi il piccolo di una
scimmia arboricola, il Colobo rosso, o Piliocobius
badius, che adulta ha un peso di 5-10 kg), così come collaborano nel
presidiare il loro territorio e manifestano ostilità verso gli estranei (o
xenofobia) e una forte aggressività nei confronti delle bande confinanti i cui
membri possono essere uccisi (a partire dai maschi e dai piccoli, soggetti
questi a cannibalismo, però risparmiando, solitamente, le femmine) per occupare
il loro spazio vitale, cioè per ridurre la pressione sulle risorse disponibili,
tanto che la prima causa di mortalità tra gli Scimpanzé maschi allo stato brado
consiste proprio nel tasso d’aggressione mortale dovuto a questa guerra fra
bande. Quest’aggressività si manifesta poi anche all’interno delle bande,
suddivise per gruppi dai confini incerti, variabili e perennemente in fase di
ristrutturazione (secondo un modello detto di fusione/fissione, dove la fusione
è data di notte nel dormire tutti assieme e la fissione nella separazione
durante il giorno per risolvere le esigenze alimentari) e può esercitarsi con
violenza, quali morsi e percosse, nei confronti della femmina in estro
appartenente a un maschio di rango del gruppo (e con infanticidi per affermare
il controllo spermatico sulla femmina) e, fatte salve le intimidazioni solo
esibite, può essere mortale tra i maschi al fine di conquistare la posizione
dominante che permette, all’interno d’un gruppo, il controllo gerarchico, la
preminenza nel momento della spartizione della carne e il controllo sessuale
delle femmine nel periodo dell’estro (che coincide poi con il massimo periodo
dell’attività sessuale fra gli Scimpanzé). Come dire che quella dello Scimpanzé
è una rete sociale che privilegia il ruolo del maschio dominante e che sottomette
tutto a questa logica dominanti vs.
dominati (o androcrazìa, dove andro- è dal greco ἀνήρ ἀνδρός, uomo). Per quanto riguarda la specie Pan paniscus (detti anche Scimpanzé
pigmei, il che non deve far pensare che siano molto più piccoli del Pan troglodytes, miniaturizzati, giacché
si tratta solo d’una leggera riduzione di taglia che porta a una corporatura
più esile, a una struttura più slanciata, ad arti in proporzione più lunghi), e
fatto salvo che nuovi studi potrebbero rendere la descrizione a seguire
idilliaca, negli studi fino ad ora presenti s’afferma che presso i Bonobo la
rete sociale privilegia all’interno della comunità il ruolo dominante delle
femmine, comunità ch’è poi formata, sempre stando alle risorse disponibili, da
un massimo di 80 individui. Le femmine, infatti, intessono fra loro legami
d’amicizia secondo un modello ginecocratico (dal greco γυναικοκρατία, composto di γυνή
γυναικός, donna e -κρατία,
potere), per cui il maschio non può usare l’aggressività per sottomettere le
femmine e, in questa rete estesa sul territorio, il Bonobo non è xenofobo, non
presidia i confini né esercita scontri territoriali, anzi quando gruppi
confinanti s’incontrano si creano alleanze e non stagioni di conflitti
territoriali. Il cemento sociale tra i Bonobo non rientra in quella dinamica
processuale ch’instaura il rapporto dominante/dominati, ma è dato da
un’eccitazione genitale costante (dunque non solo nel periodo dell’estro delle
femmine, come per gli Scimpanzé) che si dispiega nella bisessualità e nella
pansessualità, cioè in tutte le forme possibili dell’interazione sessuale non
riproduttiva e strumentale, sia etero che omosessuale, sia con adulti che con
immaturi, inclusi nel repertorio la manipolazione dei genitali propri e altrui,
il baciarsi con la bocca e, sporadicamente, la pratica del sesso orale e la
copula ventro-ventrale, cioè faccia a faccia, che si credeva propria solo agli
umani (questa copula, dove i Bonobo manifestano un assiduo contatto oculare, è
poi permessa dall’orientamento frontale dei genitali della femmina, cioè dal
fatto che questi non sono orientati verso l’ano come in altri primati).
Quest’interazione, promossa e mantenuta dalle femmine (dove l’unico rapporto
per loro interdetto è quello del rapporto della madre con il figlio), è anche
data dal fatto che le femmine dei Bonobo praticano poi, in funzione
d’integrazione sociale fra ranghi diversi, il tribadismo, cioè lo sfregamento
della clitoride, spesso faccia a faccia (detto sfregamento genito-genitale, o
sfregamento GG), là dove la rivalità maschile è poi risolta spesso con rapporti
omoerotici tipo il frottage, cioè lo sfregamento,
in posizione faccia a faccia, dei genitali eretti o con lo sfregamento natiche
a natiche delle voluminose sacche scrotali, anche se queste tipologie si
praticano meno spesso rispetto agli sfregamenti delle femmine tribadi. Sempre
riguardo alla sessualità, mentre tra gli Scimpanzé è la femmina ch’esibisce ai
maschi il rigonfiamento genitale mensile (l’estro), tanto che all’avvicinarsi
dell’ovulazione con il suo corredo olfattivo si scatena l’aggressività dei
maschi per il predominio nella copula (che, a differenza dei Bonobo, è
ventro-dorsale), questo fenomeno non avviene con le femmine dei Bonobo. Infatti
queste, nascondendo l’ovulazione (ossia non facendo coincidere la fase del
gonfiore sessuale con l’effettiva ovulazione), impediscono di fatto ai maschi
di riconoscere il preciso momento procreativo della copula, ciò che può
disincentivare di per sé la competizione. Detto questo, sarebbe però eccessivo
definire i Bonobo come non violenti, visto che anche i Bonobo praticano la
carnivoria e possono predare scimmie giovani (tra queste, il Cercocebo dal
ciuffo, Lophocebus aterrimus), questo
senza però mai raggiungere i tassi predatori degli Scimpanzé, e che le femmine,
per esempio, per difendersi da un maschio aggressivo, si coalizzano fra di loro
e feriscono il detto maschio, anche gravemente (seppure mai in un modo che sia
per questi mortale, come capita tra gli Scimpanzé), così come sarebbe eccessivo
definire questa società come democratica perché le disparità esistono, come
mostra l’ascesa di status d’un bonobo
maschio ch’è determinata dal potere gestito dalla madre nel gruppo (o
nepotismo), ciò che di fatto facilita l’accesso al cibo. O, ancora, che l’ansia
non esista in questa società poiché, per esempio, nei maschi di status sono presenti alti livelli di
cortisolo correlati allo stress di
ruolo in caso di copula con una femmina in estro, dovuti al fatto che questi
maschi devono essere dominanti per controllare la controparte maschile
antagonista e devono non esserlo per potersi accoppiare con la controparte
femminile appetita. In pari tempo bisogna stemperare, senza nulla togliere alla
dominante androcrazia della rete sociale degli Scimpanzé, le affermazioni
perentorie che riguardano la loro competitività in quanto tra questi le
interazioni pacifiche sono di gran lunga più frequenti di quelle aggressive, la
gestualità blandamente minacciosa (cioè scenografica) risulta più frequente di
quella apertamente violenta, così come le minacce si verificano più spesso dei
veri combattimenti cruenti (e, dopo una lite, di solito uno dei due s’avvicina,
dando inizio a una cerimonia di baci, abbracci e toelettatura, o grooming, e se nessuno dei due è
intenzionato a fare la pace, spesso un terzo, estraneo alla lite, tenta di
consolare uno o entrambi i componenti; se interessa, il grooming è il comportamento di pulizia del mantello svolto
reciprocamente
per il tramite della lingua,
dei denti e delle unghie, comportamento che assume poi un significato di
consolidamento dei legami o di riaffermazione delle gerarchie tra i membri di
un gruppo sociale). Detto tutto questo, l’antenato ancestrale di questi Pongidi
è lo stesso, e sul piano genetico gli Scimpanzé e i Bonobo sono quasi identici
(la differenza tra i due genomi è dello 0,4% e la divergenza fra i due è poi
avvenuta per speciazione allopatrica a causa delle barriere fluviali del Congo
che ha resi isolati i loro areali tra 1,5 - 1,3 milioni d’anni fa, altri dice
meno di un milione d’anni fa, v. infra),
eppure gli uni sono aggressivi come il Canis
lupus (anche tra i Lupi, per inciso, una delle maggiori cause della
mortalità è nell’aggressività maschile intraspecie fra branchi confinanti o fra
individui per il controllo delle femmine in calore) e gli altri paiono
domesticati come il protocane e il Canis
familiaris (che, sempre per inciso, non ricorrono all’aggressività diretta,
non cacciano, hanno una maggiore attività sessuale e sono promiscui). C’è
dunque un qualcosa che ha reso i Bonobo meno aggressivi degli Scimpanzé, come
se fossero Scimpanzé autodomesticati. Ora, analizzando le differenze anatomiche
tra Scimpanzé e Bonobo, s’è notato che i canini sono meno sviluppati e che il
cranio dei Bonobo può essere più piccolo anche del 15% rispetto a quello degli
Scimpanzé, inoltre il dimorfismo sessuale è poco accentuato e sono poi presenti
tratti neotenici come la testa che ha una forma arrotondata e la faccia ch’è
meno sporgente, oltre a una riduzione del pigmento nelle labbra che diventano
rosa, fenomeni, come visto, che si possono riscontrare anche in un’intera
categoria d’animali domesticati, ciò che ha portato all’ipotesi
dell’autodomesticazione dei Bonobo. Quest’ipotesi è stata testata poi
analizzandone anche le differenze comportamentali e una serie d’alterazioni,
specificamente quella dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (o Hypothalamic-Pituitary-Adrenal axis,
HPA; per inciso, questo asse regola la risposta individuale di stress a una situazione potenzialmente
pericolosa che potrebbe sfociare nella logica fight or flight) e quella del sistema serotoninergico. Per spiegare
quest’ipotesi dell’autodomesticazione dei Bonobo partiamo dal fatto che la
selezione naturale privilegia chi si riproduce di più, tanto che la nozione
della sopravvivenza del più adatto non va necessariamente coniugata con la
forza e l’aggressività a svantaggio del più debole perché, come visto per il Canis lupus e la Vulpes vulpes, è proprio la riduzione dell’aggressività che ha
favorito e incentivato la riproduzione (e, nel caso del Canis lupus, con una riduzione evolutiva della distanza di fuga ne
ha favorito, in una nuova nicchia, la sopravvivenza), per cui si può ipotizzare
che una specie selvatica possa, in una nicchia dove è più facile l’accesso alle
risorse trofiche, autodomesticarsi. E a questo proposito bisogna sottolineare
che l’areale dello Scimpanzé (nella foresta tropicale che degrada a savana)
s’estende dalla Sierra Leone fino ai laghi Vittoria e Tanganica, là dove le
risorse, in caso di scarsità e pur con diete relativamente diverse, sono
contese con il Gorilla (i primi sono frugivori, cioè s’alimentano
principalmente di frutta, i secondi sono folivori, ossia hanno un’alimentazione
a base di foglie), mentre l’areale del Bonobo, nella foresta pluviale, di suo
più ricca in tutte le stagioni di risorse alimentari, è nella Repubblica
democratica del Congo (ex Zaire), specificamente nella parte orientale del
bacino del fiume Congo (Zaire), e a Sud del fiume Congo non ci sono Gorilla con
cui competere per il cibo. L’assenza dei Gorilla in questa biocenosi è poi
spiegata dal fatto che questo habitat
è pianeggiante, senza rilievi montuosi, giacché i rilievi montuosi sono solo
presenti a partire dalla riva destra del fiume Congo, per esempio, i Monti
Virunga, ed è questo dato che ha cambiato il destino dei Gorilla sulle due
rive; infatti, la topografia ha permesso al Gorilla della riva destra, a
partire dalla siccità impostasi con il cambiamento climatico di 3-2,5 milioni
d’anni fa, ripresentatosi ca. 1 milione d’anni fa, di potere sopravvivere
trovando in una nuova nicchia le risorse alimentari della sua dieta folivora,
ora mancanti in pianura, solo a quote più alte, sui 2 000-4 000 m; ciò che però
ha al contempo impedito ai Gorilla presenti nella riva sinistra di trovare
nuove nicchie, dunque la possibilità di potere sopravvivere; questo a differenza
degli Scimpanzé e dei Bonobo che possono sopravvivere con una dieta frugivora
nelle foreste sul piano, sulle due rive del fiume. Ora, il fatto dell’assenza
del Gorilla, vale a dire il non dover competere per l’accesso alle risorse (e
laddove un Gorilla adulto, che consuma in media più di 30 kg quotidiani di
risorse, potrebbe essere un forte competitore), sommato al fatto che la dieta
dei Bonobo è diversa da quella degli Scimpanzé, questo visto che aggiunge, al
cibo di cui entrambe le specie si cibano, alimenti ricchi di fibre quali foglie
giovani e steli d’erba (come mostra anche l’apparato masticatorio ch’indica che
sono e frugivori e folivori), dà origine a una meccanica che può modificare i
rapporti intraspecie e potrebbe disincentivare il vantaggio evolutivo dei
maschi aggressivi che lottano per le risorse. Questo facendo emergere, in un
ecosistema isolato quale è la fitta foresta tropicale, là dove non esistono
transizioni verso zone meno fitte (come nella parte sulla riva destra del
Congo), dove le risorse trofiche sono abbondanti tanto da rendere inutile la
competizione per l’accesso alle risorse, il tratto della docilità come fattore
vincente di successo riproduttivo, e solitamente le femmine dei Bonobo mostrano
una predilezione per i maschi mansueti. Come dire che in questo ecosistema
isolato l’aggressività maschile verso le femmine e gli altri maschi modifica,
ma in negativo, la capacità riproduttiva e di sopravvivenza (o fitness) tanto che i maschi meno
aggressivi, soprattutto se alleati con le madri, possono mostrare, al
contrario, un incremento della fitness.
Tutto questo fatto salvo il fatto che, s’è assai azzardato il comparare le
risorse odierne con quelle del passato (ossia affermare che i Bonobo hanno
avuto nel loro habitat, la ricca
foresta tropicale a sinistra del fiume Congo, varietà e quantitativi di frutta
superiori a quelli dell’habitat degli
Scimpanzé a destra del fiume Congo, ch’è relativamente più spoglio e più secco,
quindi meno produttivo), non lo è dire che i Bonobo non sono stati costretti
come gli Scimpanzé a contendere con altri Pongidi per le risorse (né, come gli
Scimpanzé, sono stati costretti a inventare e utilizzare strumenti per
aumentare la disponibilità trofica, lo stesso di certe società di
cacciatori-raccoglitori che sono state trattenute entro un’economia di
sussistenza e non di produzione, cioè entro un’economia basata sul prelevamento
e l’appropriazione delle risorse spontanee grazie alla loro abbondanza com’è
stato il caso, per esempio, dei popoli della foresta pluviale, detti Pigmei,
che hanno trovato il loro sostentamento spostandosi nella fascia tropicale ed
equatoriale dell’Africa), il che è dire che è in ogni caso un surplus trofico ciò che farebbe la
differenza tra il manifestarsi dell’aggressività e della docilità. La figura
seguente mostra la localizzazione e l’estensione degli areali sopra citati:
Figura
n. . Fonte: Wrangham e Peterson, 1996,
p. 222.
Detto questo, analizzando il comportamento verso il cibo di
Scimpanzé e Bonobo, s’è poi potuto anche dimostrare che, conseguentemente, il
primo è competitivo e il secondo collaborativo; infatti, in un esperimento per
testare l’ipotesi della domesticazione dei Bonobo sono stati fatti entrare a
turno, in una a stanza con del cibo in un piatto unico, prima una coppia adulta
di Scimpanzé e poi una coppia adulta di Bonobo, e gli Scimpanzé si sono
mostrati competitivi poiché uno dei due cercava d’accaparrarsi tutto mentre, al
contrario, i Bonobo si sono mostrati collaborativi in quanto condividevano
sempre il cibo, per di più giocando nel contempo tra di loro. Prelevando poi
loro campioni di saliva al fine d’analizzare la fisiologia del comportamento di
queste coppie, gli Scimpanzé mostravano un aumento di testosterone e i Bonobo
un aumento di cortisolo; ora, il testosterone è un ormone secreto dai testicoli
e rappresenta, nei mammiferi, il principale ormone sessuale maschile (è un
ormone androgeno) e, tra altre funzioni, entra anche in gioco nei comportamenti
di dominanza, cioè nei ruoli competitivi e antisociali, dove può essere
correlato ad un aumento dell’aggressività, come è stato mostrato
nell’assunzione d’un ruolo chiuso al diverso da sé proprio agli Scimpanzé nel
momento della spartizione del cibo (e se, allo stato brado, il gruppo è misto,
e indipendentemente da chi ha trovato il cibo, è sempre un maschio che se ne
impossessa). Nei Bonobo, al contrario, sono invece aumentati i livelli di
cortisolo (v. supra), ciò che indica
non un ruolo competitivo e antisociale, bensì un momento d’interazione sociale
di tolleranza che produce uno stress
che si cerca di controllare per il tramite d’una attività ludica che previene
la competitività e favorisce la cooperazione, cioè l’assunzione d’un ruolo
aperto alla condivisione sociale del cibo, come dire che
la selezione
autodomesticante del tratto della docilità potrebbe in parte spiegare la
variabilità nella capacità di cooperazione tra le specie che si può qui
analizzare data la diversa fisiologia dei Bonobo e degli Scimpanzé. Ma non solo
la fisiologia è in grado di convalidare l’ipotesi dell’autodomesticazione
giacché altre sperimentazioni hanno mostrato che i Bonobo sono attratti dagli
estranei, capaci di flessibilità cooperativa e d’intelligenza sociale (anche
con l’uomo; infatti, è più probabile che un Bonobo, e non uno Scimpanzé, guardi
nella direzione d’un uomo) e questo significa che i Bonobo sono più sensibili
all’informazione sociale e per questo dotati di abilità impensabili per uno
Scimpanzé. Ed è alla fin fine più che probabile che queste differenze
anatomiche, fisiologiche, comportamentali e cognitive tra i Bonobo e gli
Scimpanzé siano probabilmente tali a causa dei cambiamenti evolutivi
manifestatisi come un prodotto secondario dell’autodomesticazione, alla stessa
stregua di ciò che è capitato nelle Volpi domesticate e nei Cani. Ora, assodato
che l’aggressività può fortemente ostacolare e interferire con il potenziale
cognitivo per potere risolvere dei problemi sociali e che la selezione sulla
reattività emozionale (cioè il passaggio alla docilità), al contrario, influenza
positivamente la capacità cognitiva di risolvere i problemi sociali, la domanda
è se la sindrome dell’autodomesticazione può spiegare anche l’evoluzione
cognitiva e fusionale del genere umano (il cui fondamento si trova nel bambino
che, nel primo anno di vita, sviluppa delle competenze sociali che gli
consentono di comunicare e d’apprendere dagli adulti che lo curano e che, già a
14 mesi, manifesta una forte motivazione a cooperare, là dove la comunicazione,
la cooperazione e le meccaniche fusionali sono poi il cemento di qualsiasi
società; intendendo poi con fusione il rapporto, tipico delle prime fasi dello
sviluppo affettivo, in cui il bambino non differenzia tra sé e l’altro, e la
madre, grazie anche al meccanismo dell’ossitocina (v. supra) che questo legame permette, interpreta e soddisfa i bisogni
dell’oggetto di cura; fase che il bambino deve superare, pena la mancanza di
differenziazione tra il sé e l’altro). E la risposta è sì se solo si suppone
che il tratto della docilità (che si traduce come tolleranza verso il diverso
da sé) abbia preceduto l’evoluzione di forme cognitive complesse che, di fatto,
sono inutili alla sopravvivenza della specie se per caso i componenti d’una
società non la supportano con la cooperazione fra di loro. Questo perché è
sempre estremamente dispendioso per il metabolismo d’un individuo mantenere un
cervello capace di complesse abilità cognitive, cervello che per altro sarebbe
già stato eliminato dalla selezione naturale se il cooperare fra gli individui
non fosse stato un tratto pervasivo e incentivante della specie. Oltre a
questo, si sa anche che la cooperazione, senza la tolleranza verso l’altro, è
di fatto un evento sociale impossibile a realizzarsi, e questo presuppone che,
per permetterla, sia avvenuta a monte l’individuazione, l’estromissione o
l’eliminazione degli elementi perturbanti, cioè intolleranti (come fanno le
femmine dei Bonobo con i maschi aggressivi). Si può poi presupporre, ancora,
che dopo questa prima ondata di selezione, ne sia avvenuta un’altra ch’è
intervenuta direttamente sulle differenze individuali a livello di cognizione
sociale permettendo alle potenzialità cognitive prima inespresse d’esplicarsi
in innovazioni (tecnologiche o altro), ed è a partire da questa seconda ondata
che in isolamento sessuale dagli individui aggressivi continua a riprodursi
all’interno del gruppo sociale il tratto della tolleranza e della cooperazione
che permette d’accudire una prole più numerosa e geneticamente differenziata
grazie all’aumento delle capacità comunicative, delle risorse alimentari dovute
all’attività cooperativa ch’è in grado di controllare demograficamente il farsi
d’una nicchia via via più estesa (e s’ipotizza questo sulla falsariga delle
tappe dell’evoluzione da Lupo a protocane, che sarebbe qui la prima ondata, e
da protocane a Cane da lavoro, identificata come seconda ondata, là dove i Cani
da lavoro collaborano in modo flessibile con l’uomo a differenza dei protocani
che sono non cognitivamente interessati, e sempre avendo come riferimento
l’uomo). Detto questo, quando poi sia accaduta questa selezione evolutiva sulle
dinamiche emotive, come quelle che controllano la paura e l’aggressività e
quando e come si sia manifestata l’emarginazione degli elementi perturbanti la
cooperazione sociale e la conseguente pressione selettiva sulla docilità che ha
permesso, alla fin fine, che la cooperazione si manifestasse come una strategia
consolidata nell’evoluzione della nostra specie, tutto questo non si sa perché
molto dipende dal corredo genetico dell’ultimo antenato avuto in comune con
Bonobo e Scimpanzé. In ogni caso, e di là dalle ipotesi, l’uomo moderno,
rispetto ai reperti fossili di 200 000 anni fa, mostra uno scheletro longilineo
e leggero, ossia con ossa più sottili, volta cranica alta e arrotondata con
riduzione delle sovrastrutture ossee, quali le arcate sopraorbitali e la
superficie del piano nucale (alla base del cranio), e della faccia, denti più
piccoli e più ravvicinati, tutti indizi delle modificazioni morfologiche che
sono diagnostici della domesticazione d’una specie (v. supra) e che sono compatibili con la sindrome della domesticazione
(v. infra). Altri dati affermano poi
che a partire da 50 000 anni fa, quando Homo
sapiens ha già iniziato il suo percorso di colonizzazione, il cervello
umano s’è ridotto del 10-30%, giusto quando Homo
sapiens è in possesso del linguaggio e produce manufatti complessi che
presuppongono alti tassi d’una persistente cooperazione sociale. Volendo,
almeno per certi tratti, si può dunque ipotizzare di cooptare anche l’uomo in
questa sindrome da domesticazione, giacché si suppone che i citati cambiamenti
nella morfologia cranio-facciale del genere Homo
sapiens siano il sottoprodotto d’una riduzione dell’aggressività simile a
quella osservata nelle Volpi, nei Cani e nei Bonobo, cioè rimandino a una
riduzione della reattività agli androgeni, ossia a bassi livelli di
testosterone in circolazione negli adulti, riduzione che a sua volta riflette
il percorso evolutivo dall’aggressività alla tolleranza sociale intraspecie. E,
con la cooperazione così facilitata, si può anche ipotizzare che in un modello
demografico evoluto che preveda una trasmissione culturale condizionata dal
tasso d’interazione e fusione tra i membri della popolazione, possa emergere un
accumulo d’innovazioni tecnologiche tra di loro legate. Questo anche perché
esiste un vincolo biologico, dato dalla maggiore competizione per le risorse
tra conspecifici, che riguarda strettamente l’andamento dell’incremento
demografico in un dato areale; il che è dire che alti livelli di tolleranza
sociale sono il prerequisito necessario per una vita sociale che si manifesti
là dove sono presenti questi incrementi demografici, giacché una più alta
densità della popolazione richiede un azzeramento dell’aggressività e l’emergere
di tutto un repertorio di comportamenti cooperativi codificati che si traduce,
oltre che in una struttura sociale, anche in un’evoluzione tecnologica legata a
questa struttura e imprescindibile per la sopravvivenza della popolazione in
aumento (stando almeno all’ipotesi del materialismo storico (v. infra). Evoluzione tecnologica che, a
sua volta, richiede espressamente che le potenzialità cognitive preesistenti,
fatti salvi i limiti di specie, non siano ostacolate dalla concorrenza per la
conquista delle risorse, cioè da un’intolleranza intraspecie in vista
dell’accaparramento, bensì che siano coadiuvate dalla capacità di cooperare in
vista d’un vantaggio comune (come del resto s’è visto sopra a proposito della
selezione della docilità ch’inibisce una reattività emozionale permettendo la
risoluzione dei problemi che via via si presentano). Detto altrimenti, si può
ipotizzare che il cambiamento comportamentale verso la tolleranza possa
permettere ai componenti d’una struttura sociale d’utilizzare le preesistenti
abilità cognitive in una nuova serie di contesti, qui l’incremento demografico
nel suo rapporto con le risorse. Questa catena logica d’ipotesi è tutta o quasi
da dimostrare, ma, se è vero che le sopravvissute società di caccia e raccolta
sono società che non hanno un leader
o un individuo dominante decisore per tutti e cooperano fra di loro per
elaborare strategie che portano a ostracizzare, ripudiare ed eventualmente
uccidere chiunque tenti d’imporsi con la forza per dominarli, allora è più che
probabile che il tratto della tolleranza ci abbia permesso l’evoluzione
cognitiva come effetto a lato dell’autodomesticazione, questo visto che le
società di caccia e raccolta hanno accompagnato quasi per intero (più di 2 milioni d’anni) l’evoluzione della
specie Homo sapiens, tranne che negli
ultimi 12 000 anni, quelli che partono dalla nascita dell’agricoltura e delle
società stanziali. Che poi in questi ultimi 12 000 anni, nelle società che si
fanno storiche, la cooperazione abbia permesso anche un’evoluzione cognitiva
raffinata capace di tradurre operativamente, a vantaggio dei pochi, la
cooperazione dei molti come un tratto imposto o con la coercizione o con
l’abilità manipolatoria delle emozioni fusionali intrecciate con le strutture
cognitive, questa è poi tutta un’altra storia (in gran parte già documentata). In
ogni caso, ci si ricordi sempre, quando si parla d’incrementi demografici e di
cooperazione sociale, degli Scimpanzé e dei Bonobo, in quanto s’è vero che lo
Scimpanzé può comprendere un problema, è anche vero, a differenza dei Bonobo,
che spesso non riesce a risolverlo a causa della sua reattività emotiva che lo
obbliga a non collaborare con i conspecifici.
SINDROME DA
DOMESTICAZIONE
Nella
tabella seguente si riassumono, per punti, le principali modificazioni sopra
citate che, anche
se non in
modo uniforme, sono presenti in tutte le specie che passano da uno stato
selvatico a uno stato domestico:
TRATTI DISTINTIVI
|
MODIFICAZIONI (CARATTERISTICHE DI MASSIMA)
|
MORFOLOGIA
|
CAMBIAMENTI
NELLE DIMENSIONI DEL CORPO (RIDUZIONE DELLA TAGLIA CORPOREA), CON LA
DIMINUZIONE DELLA ROBUSTEZZA SCHELETRICA
|
RIDUZIONE
DELLA CAPACITÀ CRANICA
(E
RIDUZIONE DELLE DIMENSIONI TOTALI DEL CERVELLO E DI PARTICOLARI REGIONI DEL
CERVELLO, CIOÈ DELLA PARTE
ANTERIORE, COMPRESI GLI EMISFERI CEREBRALI, IL TALAMO E L’IPOTALAMO) [1]
|
|
ACCORCIAMENTO
DELLA REGIONE FACCIALE DEL CRANIO, INCLUSE LE MASCELLE (CAMBIAMENTI
CRANIO-FACCIALI), TALVOLTA ASSOCIATA CON AFFOLLAMENTO DEI DENTI E RIDUZIONE
DELLE DIMENSIONI DEI DENTI [2]
|
|
RIDUZIONE
DEL DIMORFISMO SESSUALE
|
|
VARIABILITÀ
DI FORMA E DIMENSIONE DELLE CORNA [3]
|
|
ALLUNGAMENTO
SPROPORZIONATO DELLE ORECCHIE [4]
|
|
INDEBOLIMENTO
DELLA CARTILAGINE CHE PORTA A ORECCHIE FLOSCE [5]
|
|
MUTAMENTI
NELLA CARTILAGINE DELLA CODA (ACCORCIAMENTO, ARRICCIATURA, ETC.)
|
|
AUMENTO
NELLA VARIABILITÀ DI COLORE DEL MANTELLO (DEPIGMENTAZIONE, SPECIALMENTE
MACCHIE BIANCHE, REGIONI MARRONI [6]) E DELLA STRUTTURA DEL PELO [7]
|
|
FISIOLOGIA
|
AUMENTO
DEL DEPOSITO DI GRASSO (SOTTOCUTANEO E INTRAMUSCOLARE) [8]
|
MIGLIORI
PRESTAZIONI FISIOLOGICHE, TRA CUI L’ALLATTAMENTO
|
|
PRECOCITÀ,
STAGIONI DI RIPRODUZIONE ESTESE (CICLI DI ESTRO NON STAGIONALI) [9]
E MAGGIORE STIMOLAZIONE SESSUALE
|
|
ALTERAZIONE
DEI LIVELLI ORMONALI
(ORMONE
ADRENOCORTICÒTROPO [10]), MODIFICAZIONE DELLE CONCENTRAZIONI DI
NEUROTRASMETTITORI
|
|
COMPORTAMENTO
|
MANTENIMENTO
DI COMPORTAMENTI GIOVANILI IN ETÀ ADULTA (NEOTENIA)
|
RIDUZIONE
DELL’ATTIVITÀ MOTORIA
|
|
RIDUZIONE
DELL’AGGRESSIVITÀ INTRASPECIFICA, SPECIALMENTE NEI MASCHI
|
|
AUMENTO
DEL TRATTO DELLA DOCILITÀ
|
[1] Presentano questo fenomeno, per
esempio, ratti, conigli, maiali, pecore, capre, bovini, yak (v. infra), lama,
cammelli,
cavalli, asini, gatti, cani.
[2] I denti ridotti si ritrovano in topi, cani
e maiali.
[3] Questa modificazione si ritrova in
bovini, pecore e capre e questo si riflette in modificazioni del cranio (il
corno è
costituito da una guaina di cheratina che ricopre il nucleo osseo, ossia è un
processo dell’osso frontale).
[4] Fenomeno presente nei mammiferi
domestici più comuni, ad eccezione del cavallo.
[5] Le orecchie flosce si ritrovano in
conigli, cani, volpi, suini, ovini, caprini, bovini, asini.
[6] La depigmentazione, per esempio, si ritrova in topi, ratti,
conigli, cani, gatti, volpi, maiali, pecore, capre,
bovini, cavalli,
cammelli.
[7] Per esempio, nelle pecore
domestiche a pelo lungo, la muta spontanea del pelo all’inizio dell’estate è
andata
perduta, e
il pelo cresce di continuo; nei cavalli domestici il pelo della criniera e
della cosa s’è allungato di molto
etc.
[8] Nella pecora il grasso si sviluppa
anche nella coda.
[9] Presentano cicli di estro più
frequenti, per esempio, topi, ratti, cani, gatti, volpi, capre.
[10] Ormone di natura polipeptidica,
prodotto dal lobo anteriore dell’ipofisi, che stimola l’attività funzionale della
corteccia
surrenale (Adenocorticotropic Hormone,
ACTH) ed è implicato nella produzione e nel rilascio di
cortisolo (v.
supra).
Tabella
n. . Fonte
(adattata): Leach, 2003, p. 349; Wilkins et
alii, 2014, p. 795; Clutton-Brock, 2001, pp. 50-54.
Questo è un
insieme coerente di tratti che si presentano assieme in un pacchetto ereditario
e si classifica come sindrome da domesticazione (Domestication Syndrome, DS), in quanto indica un complesso
caratteristico di sintomi che ha un preciso riferimento alla sua causa (la
selezione del tratto comportamentale della docilità); per potere però spiegare
il meccanismo di comparsa di questa sindrome, che s’è visto essere un fenomeno
non previsto quando s’è avanzata la scelta d’una modificazione del solo
comportamento, s’è dovuto ricorrere a un’ipotesi (basata sulla domesticazione
delle volpi sopra citata) che prende il nome dalla cresta neurale. Per capire
quest’ipotesi, è però necessaria una spiegazione che riguarda il fenomeno
dell’epigenesi, cioè il fenomeno dello sviluppo d’un organismo a partire da una
cellula indifferenziata, cioè al fenomeno che rimanda a come s’evolve, nei
mammiferi, un embrione. È pertanto necessario sapere che l’embrione (ossia
l’organismo in via di sviluppo derivato dall’unione dei gameti maschili e
femminili) si forma a partire da una cellula fecondata e dalle sue ripetute
divisioni cellulari e con il differenziamento, a seguire, delle cellule
prodotte, ciò che porta l’embrione ad acquisire le strutture tipiche della sua
specie (ontogenesi), vale a dire i tessuti, gli organi e le strutture
necessarie per la sua sopravvivenza nel tempo. Nello specifico, nella prima
divisione cellulare s’origina una massa di cellule, tutte dotate dello stesso
patrimonio di geni, detta mòrula, le cui cellule sono poi pluripotenti in
quanto sono grossomodo in grado di trasformarsi in un qualsiasi tipo cellulare
dell’organismo adulto (e sono dette cellule staminali; per inciso, la cellula
uovo fecondata, lo zigote, è una cellula staminale totipotente avendo in sé la
potenzialità di formare un intero organismo; le cellule della massa cellulare
interna sono le citate cellule staminali pluripotenti, e queste possono poi subire
un’ulteriore specializzazione dando origine a cellule staminali multipotenti,
cioè dotate d’una specifica funzione). È poi in queste cellule della morula che
inizia il processo di differenziamento, e questo processo è poi regolato da uno
specifico gruppo di geni, detti omeotici,
che hanno il compito di controllare la sintesi di proteine che, a loro
volta, hanno un effetto di controllo sull’attività delle altre cellule, cioè ne
determinano la specializzazione secondo un percorso piuttosto che un altro, specializzazione
che dipende poi dalla combinazione dei geni omeotici d’una popolazione cellulare
che s’esprime in una data regione. Come dire che i geni omeotici controllano il
piano generale di sviluppo d’un organismo, i Baupläne di cui s’è detto sopra, determinando il destino di interi
gruppi di cellule durante lo sviluppo dell’embrione, o embriogenesi (da
ricordare poi che tra questi geni regolatori si trovano alcune sequenze
nucleotidiche caratteristiche, dette homoeobox,
molto simili in tutti gli organismi eucarioti, dagli invertebrati ai
vertebrati, ciò che dimostra che almeno alcuni processi genetici dello sviluppo
sono comuni a tutto il regno animale). Infatti, nel Bauplan dei mammiferi le prime suddivisioni dell’embrione sono
permesse dall’organizzazione spaziale ch’è a sua volta determinata da alcuni
segnali molecolari che sono distribuiti in regioni dove viene controllato o il
silenziamento o l’attivazione di specifici geni omeotici, i quali, codificando
per proteine capaci di legarsi al DNA nucleare, sono di conseguenza, capaci di
regolarne l’espressione promuovendo il differenziamento cellulare, il tutto al
fine d’istituire una corretta formazione dell’embrione pluricellulare (per fare
un esempio, la specificazione delle strutture del corpo dalla regione cefalica
a quella caudale, in quello ch’è detto asse antero-posteriore, avviene a opera
dell’attivazione differenziata di un particolare insieme di geni omeotici,
detti geni hox). Come dire che la
riorganizzazione dei territori embrionali è dovuta essenzialmente al fenomeno
della migrazione di popolazioni di cellule; infatti, nella fase successiva alla
formazione della morula, si forma al centro di questa una cavità, detta
blastocèle, cui segue una fase di riarrangiamento e di migrazione cellulare, o
gastrulazione, dove le cellule, al fine di formare il piano strutturale
definitivo dell’organismo, s’organizzano in tre strati, o foglietti germinativi
(o embrionali, v. anche supra), vale
a dire un foglietto esterno, l’ectoderma; uno intermedio, il mesoderma (in cui
s’origina anche un tessuto connettivo embrionale lasso formato da una
popolazione di cellule sparse in un’abbondante sostanza intercellulare, il
mesenchima) e, infine, uno interno, l’endoderma. Come dire che la migrazione
cellulare all’interno formerà gli organi endodermici e mesodermici e quella
all’esterno quelli ectodermici, tanto che da questi foglietti embrionali si
differenziano poi i gruppi di tessuti che saranno presenti nell’organismo
completo; in linea generale, dall’ectoderma s’originano il tessuto della cute e
il sistema nervoso; dal mesoderma si formano il tessuto osseo e cartilagineo, i
muscoli, le gonadi, gli organi escretori, mentre dal mesenchima si formano
tutti i tessuti di tipo connettivale; infine, dall’endoderma deriva il tubo
digerente e il rivestimento epiteliale delle vie respiratorie. Nei mammiferi
esiste poi un fenomeno di migrazione cellulare che si presenta quando
l’ectoderma, ch’è destinato a formare il cervello e il midollo spinale, seguendo
il citato processo di gastrulazione grazie al quale un territorio cellulare
situato all’esterno si ripiega all’interno, s’invagina migrando sotto la
superficie dell’epidermide arrivando a formare il tubo neurale (processo detto
di neurulazione). È poi da entrambi i lati dorsali di questo tubo neurale che si
differenziano in seguito le popolazioni delle cellule della cresta neurale che,
migrando a loro volta in altre parti del corpo (regolate, in questo, da
numerosi fattori di trascrizione e svariate molecole che danno la possibilità d’esprimersi
a oltre 100 geni), arrivano ad avere un ruolo fondamentale nello sviluppo di mandibole,
denti, orecchie e melanociti
(cioè delle
cellule dello strato basale dell’epidermide, che sintetizza e secerne la
melanina presenti nel sistema tegumentario che forma il rivestimento esterno del corpo degli
animali), così come ai gangli dei nervi e del Sistema nervoso, alla midollare
del surrene e altro ancora. La figura seguente mostra una sezione trasversale
di un embrione ch’illustra l’avvenuta formazione, tra l’ectoderma e
l’endoderma, del tubo neurale e la struttura della cresta neurale (in figura
sono citati anche i somìti, cioè i
segmenti in
cui si suddivide la parte dorsale del mesoderma, a destra e a sinistra della
corda dorsale, o notocorda, v. supra):
Figura n. .
Fonte: Tortora e Derrickson, 2011, p. 537.
Là dove,
ancora, un’alterazione della cresta neurale, per deficit dello sviluppo o della migrazione cellulare, può arrivare a
causare la depigmentazione di alcune aree della pelle, la malformazione della
cartilagine delle orecchie, alcune anomalie dei denti, alterazioni nello
sviluppo della mandibola e, indirettamente, un non corretto sviluppo cerebrale
o una riduzione o una lenta maturazione delle ghiandole surrenali (quelle che
producono l’adrenalina necessaria alla risposta di attacco o fuga, cioè alla
reazione fight or flight), ossia
molti dei tratti della sindrome da domesticazione e, sebbene le cellule della
crosta neurale non siano precorritrici dirette d’una qualsivoglia parte del
Sistema nervoso centrale o della corteccia surrenale, in ogni caso giocano un ruolo
importante nello sviluppo di questi tessuti per il tramite delle interazioni postmigratorie
che riguardano lo sviluppo dell’embrione, cioè la sequenza dei processi
d’accrescimento, di differenziamento e di sviluppo degli organi (o
organogenesi) che inizia, come detto, dopo la gastrulazione e che conduce alla
formazione d’un organismo. L’ipotesi consiste dunque nel supporre che gli
animali domesticati possano presentare una riduzione dello sviluppo in ingresso
delle cellule della cresta neurale corrispondenti ai tratti del pacchetto
ereditario (un deficit cellulare) o averle
comunque meno efficienti per difetti di migrazione, ragion per cui gli effetti fenotipici
prodotti da questa popolazione di cellule embrionali proprie alla crosta
neurale potrebbero manifestarsi come un effetto collaterale e secondario della
domesticazione, cioè della selezione comportamentale del tratto della docilità
(come s’è verificato nelle volpi domesticate nella struttura di ricerca di
Novosibirsk, in Siberia); o, detto altrimenti, l’ipotesi suggerisce che la
selezione iniziale per la docilità porti a un deficit cellulare nella cresta neurale dovuto a molteplici varianti
genetiche preesistenti che influenzano il numero di cellule della cresta
neurale nei siti finali, e che questa ipofunzione della cresta neurale alla
fine produce, come sottoprodotto non selezionato, le variazioni morfologiche
della pigmentazione, delle mascelle, dei denti, delle orecchie etc.; si sottolinea però che
quest’ipotesi della cresta neurale, che riesce a spiegare direttamente o
indirettamente il repertorio della sindrome da domesticazione, non riesce a trovare
un meccanismo esplicativo per le code che si presentano arricciate nei cani e
nelle volpi domesticate, e a cavatappi nei maiali (v. infra), in quanto non esiste un rapporto causa/effetto dovuto a un deficit della popolazione cellulare
della cresta neurale. La figura seguente illustra lo sviluppo schematico della
sindrome da domesticazione in relazione alla cresta neurale d’un cane; il tubo
che parte dal cervello e arriva alla coda indica la posizione approssimativa
della cresta neurale nell’embrione precoce, mentre le frecce indicano i vari percorsi
di migrazione delle cellule della cresta neurale; sono segnalate, in alto e da
sinistra a destra, le orecchie flosce, il tubo neurale/midollo spinale e la
posizione iniziale della crosta neurale embrionale, a destra e dall’alto in
basso, le già citate orecchie flosce dovute a un indebolimento della
cartilagine), il muso accorciato e le ridotte dimensioni dei denti e, in basso,
da sinistra a destra, le alterazioni della pigmentazione del mantello, i gangli
del Sistema nervoso simpatico, le ghiandole surrenali e, segnalato sotto la
coda, l’accorciamento e la curvatura della cartilagine della coda:
Figura
n. . Fonte (adattata): Wilkins et alii, 2014, p. 795 [?].
LA
DOMESTICAZIONE DEGLI ANIMALI
Fatta dunque
salva l’ipotesi che le cellule della crosta neurale (Neural crest cells, NCCs) dei mammiferi siano una classe specifica
di cellule staminali proprie ai vertebrati che appaiono durante l’embriogenesi
sui bordi dorsali del tubo neurale e che, in seguito, seguono rotte di
migrazione che danno origine ai precursori cellulari di molti tipi di cellule e
tessuti e ne promuovono indirettamente lo sviluppo di altri, cioè il pacchetto
ereditario della sindrome da domesticazione dovuto all’ipofunzionamento della
cresta neurale, possiamo riprendere la storia della domesticazione nella
Mezzaluna fertile. Ora, l’esplorazione archeologica d’un dato insediamento
umano permanente, per esempio, un sito neolitico (v. infra), restituisce di ciò ch’è rimasto della fauna degli animali
dei reperti che si possono associare a quattro categorie, come mostra la
tabella seguente:
RESTITUZIONE FAUNISTICA D’UN INSEDIAMENTO
UMANO PERMANENTE
|
NOTE
|
|
SPECIE
SELVATICHE
|
D’INTERESSE
CINEGÈTICO[1] E VENATORIO [2]
|
SPECIE
COMPRESE GENERICAMENTE SOTTO IL NOME SELVAGGINA; RIMANDANO A MAMMIFERI E
UCCELLI IN GENERE DESTINATI ALL’ALIMENTAZIONE UMANA
|
ANTROPOFILE
|
SONO
SPECIE CHE COLONIZZANO L’HABITAT
UMANO COME SE QUESTO FOSSE SOLO UN ALTRO HABITAT
A LORO CONGENIALE
|
|
COMMENSALI
|
SONO
SPECIE CHE VIVONO IN STRETTA PROSSIMITÀ DELL’UOMO, E INTERAGISCONO CON ESSO
BENEFICIANDO DI UNA COMUNE FONTE ALIMENTARE [3]
|
|
SPECIE SEMIDOMESTICHE
|
D’INTERESSE
VENATORIO
|
SONO
SPECIE CHE NON POSSONO ESSERE ALLEVATE SECONDO LE TECNICHE DELLA
DOMESTICAZIONE TRADIZIONALE, MA PRESENTANO UN INTERESSE VENATORIO, PER CUI,
PUR RIMANENDO SELVATICHE, IL LORO AMBIENTE E IL LORO COMPORTAMENTO È IN UN QUALCHE MODO SOTTO CONTROLLO DELL’UOMO
|
SPECIE DOMESTICHE
|
SONO
SPECIE IN CUI LE FUNZIONI DELLA CURA, DELLA NUTRIZIONE E DELLA RIPRODUZIONE
SONO CONTROLLATE DALL’UOMO
|
|
SPECIE
RINSELVATICHITE
|
SONO
SPECIE CHE SONO STATE INTRODOTTE DALL’UOMO AL DI FUORI DEL PROPRIO AREALE
NATURALE CHE, DOPO AVERE SPERIMENTATO IL CONTROLLO DELL’UOMO, RIESCONO AD
ADATTARSI E A INTERAGIRE CON LA NUOVA REALTÀ AMBIENTALE
|
[1] Il termine indica l’attività di
caccia con il cane.
[2] Il termine si riferisce alla
caccia e all’uccellagione, come dire che qui non è qui valorizzata l’attività
della pesca.
[3] Le specie commensali dell’uomo
sono generalmente tolleranti rispetto a una vasta gamma d’habitat e di condizioni ambientali
(eurieche),
in grado d’utilizzare una grande varietà di cibo (eurifaghe) e possono vivere o
in diretta associazione con l’uomo o
in grado di
colonizzare ambienti marginali rispetto all’abitato antropico.
Tabella
n. .
Fonte (modificata): Masseti, 2008, pp. 71-73, p. 105.
Se con il
termine antropocoria (già utilizzato sopra e derivato dal greco ἀνϑρωπο-, ἄνϑρωπος, uomo, e dal tema χωρέω,
spostarsi, diffondersi) s’intende la dispersione involontaria dei disseminuli
delle piante ad opera dell’uomo, allargando l’interpretazione anche agli
animali, s’arriva a intendere con questo termine la loro dispersione e
diffusione in date aree geografiche per causa diretta o indiretta dell’uomo,
cioè per l’alterazione consapevole o inconsapevole degli areali distributivi
originari della fauna; se accettiamo questa nuova esplicitazione semantica,
ecco allora che possiamo raggruppare alcune di queste specie, quelle
domestiche, semidomestiche, commensali e rinselvatichite, sotto il termine pluricomprensivo
di fauna antropocora, come da figura:
Figura
n. .
Fonte: Masseti, 2008, p. 72.
Per
esempio, rifacendosi ai siti natufiani del Levante (v. supra), l’occupazione antropica permanente dell’ambiente nei
protovillaggi stanziali ha reso disponibili, in modo costante e via via in modo
sempre più rilevante, sia delle risorse trofiche quanto delle possibilità di
rifugio, ciò che ha permesso un’improvvisa concentrazione di specie faunistiche
all’interno e nelle immediate vicinanze degli insediamenti umani, tanto che i
resti fossili hanno restituito la documentazione dell’avvenuto instaurarsi,
all’interno d’un tipo inedito d’ambiente antropogenico, d’un microcosmo
faunistico differenziato che presenta un atipico ventaglio d’organismi
biologici che non avrebbero ragione alcuna di trovare comunanza d’ospitalità in
un habitat che non fosse
antropizzato, ventaglio che presenta una fauna il cui destino sarà nella
presenza o nell’assenza d’un ruolo economico all’interno del processo di
domesticazione che s’avvierà di lì a poco. Non avranno un ruolo, in questo
processo, specie commensali che comprendono mammiferi e uccelli di piccole
dimensioni, quali il topo domestico (Mus
domesticus), il ratto nero (Rattus
rattus) e il passero domestico (Passer
domesticus) che acquisiscono, così, un vantaggio rispetto alle popolazioni
d’altri taxa non commensali e che, in
pari tempo, subiscono un rapido processo di speciazione, o di subspeciazione, in situ (certo per il passero, in forse
per il topo domestico), né specie antropofile come la taccola (Corvus monedula) che vive in grotte e
ripari sotto roccia nei territori che ospitano questi insediamenti; avranno
invece un ruolo di risorsa alimentare le specie selvatiche d’interesse
venatorio, quali la gazzella (Gazella)
e la lepre (Lepus; v. supra) e un
ruolo economico nel processo di domesticazione, come sopra detto, la capra (Capra aegagrus), la pecora (Ovis orientalis), il bue (Bos primigenius), il maiale (Sus scrofa) e l’asino (Equus hemionus onager). Dunque, dato un
repertorio faunistico prima dell’intervento dell’uomo, e dopo un lungo processo
e di detenzioni in cattività e di tentativi di mansuefazione d’una grande
varietà di specie faunistiche da parte dell’uomo, storicamente si selezionano poi
i taxa che potranno o no essere
domesticati da cui emergono le categorie sopra citate che si ritrovano nei siti
neolitici, tutte o quasi in un qualche modo legate nel loro destino all’uomo,
cioè antropocore. Da questo ventaglio emergono poi anche i taxa che saranno domesticati, tutti rientranti nella categoria dei mammiferi
terrestri erbivori o onnivori (e non prevalentemente carnivori) e pesanti in
media più di 45 chili scelti solo in base a criteri di convenienza (selezione
postzigotica, v. supra; si ricorda
che qui, in linea di massima, non si prendono in considerazione animali domesticati
di taglia inferiore, quali galli e galline, tacchini, oche, piccioni etc.). In
quanto selettivamente scelti nel ventaglio delle specie che sono state
storicamente oggetto di predazione, questi animali arrivano a obbedire solo
alle pressioni dell’ambiente antropizzato (selezione artificiale) e non a
quelle dell’evoluzione naturale cui obbedivano i progenitori selvatici (e fatta
salva la questione che l’allevamento intenzionale e l’isolamento genetico sono
un fenomeno storicamente tardo, perché, per esempio, inizialmente la selezione
artificiale doveva essere debole in quanto presentatesi come impossibilità al
controllo sull’isolamento genetico, specialmente per le femmine che, come
mostrano le analisi genetiche, persistono negli incroci con rappresentanti di
popolazioni selvatiche). È il fenomeno che, in biologia, si chiama speciazione
simpatrica (v. supra), cioè il
processo di formazione, a partire da una specie originaria, di una nuova specie
grazie all’insorgere di un meccanismo dovuto all’isolamento riproduttivo (o
barriera) che impedisce il mescolamento genetico con le specie compatibili
(detto effetto del fondatore). Supponiamo un maschio e una femmina dal maschio
fecondata la cui discendenza aumenti notevolmente a causa della cattività in
cui questi animali sono tenuti; l’antropizzazione della coppia e della sua discendenza,
cioè l’assenza di competitori compatibili (interfecondi) negli ambienti
controllati della stabulazione, annulla o quasi la selezione naturale essendo ridotto l’effetto di trascinamento
degli alleli della popolazione interfeconda (che, se ci fosse, darebbe origine
a una sottospecie) e introduce la selezione artificiale, vale a dire una deriva
genetica; ossia, come sopra detto, un mutamento casuale per cui il pool genico cambia e s’organizza
rapidamente e liberamente (tanto che, invece di una sottospecie, abbiamo così
una nuova razza); una deriva genetica, questa, che è spesso massiva in quanto la frequenza
degli alleli (o allelomorfi), non è lenta come potrebbe essere quella dei
progenitori che obbediscono alla selezione naturale e alla presenza di competitori,
e che quindi si presenta inerziale, ma drastica e veloce in quanto sottoposta
alle pratiche dell’antropizzazione (riguardo alla frequenza degli alleli, si
ricorda che questi sono una delle due o più forme possibili di un gene,
prodotta per mutazione e situata nella stessa posizione relativa, o locus, su cromosomi analoghi; i
cromosomi sono poi presenti in coppie identiche nei nuclei delle cellule di
piante e animali, detti per questo diploidi , e sono i vettori dei geni che
costituiscono la base dell’ereditarietà; il numero, in sigla 2n, la forma e la
grandezza dei cromosomi, inoltre, sono costanti per ogni specie, ad esempio
nell’uomo sono 2n = 23; v. infra).
Quindi il tutto parte dal definitivo isolamento riproduttivo della coppia
domesticata (e dei suoi discendenti) dai progenitori ancestrali (v. supra), il che, dato il meccanismo di
speciazione, permette poi di selezionare le caratteristiche desiderabili (ad
esempio, il vello delle pecore o il grasso dei maiali), così come s’è visto per
le razze dei cani ca. 200 anni fa (v. supra).
Potenzialmente, questo meccanismo di speciazione porterebbe, qualora
diminuissero le risorse trofiche naturali, a una pressione selettiva molto
alta, dunque a una conseguente contrazione della popolazione, cosa che non è
perché gli animali domesticati rientrano, come consumatori stabulati, cioè
garantiti, nel ciclo di produzione alimentare degli essere umani che da questa
contrazione li garantisce (cioè entrano a far parte dell’uso strategico delle
risorse trofiche controllate dall’uomo per il tramite dell’agricoltura e che,
in questo caso, sono riservate all’alimentazione animale). Cosa che, sia detto
per inciso, non vale per gli essere umani che probabilmente hanno sì
anestetizzato e indebolito la selezione naturale, ossia rallentato il mutamento
della specie, e permesso un incremento demografico esponenziale (flush), ma sono destinati al collasso (crash) qualora l’ecosistema da loro
manipolato (antropogenico) non sia più rinnovabile attraverso il repertorio
tecnologico esistente (come è capitato storicamente, ad esempio, nella
Mezzaluna Fertile, e come capiterà ancora, secondo un’evoluzione che, dopo
l’ampliamento dell’areale della colonizzazione da parte di una popolazione in
aumento, ne manifesta a seguire un drastico calo della popolazione, secondo il
meccanismo della Flush and Crash
Evolution). Detto questo, di questi mammiferi,
potenzialmente, ne esistono sui suoli del mondo 148, ma solo 14 sono stati
domesticati, e in un periodo che va dal 10 000 al 2500 a.C. (sono compresi nel
periodo anche i 134 tentativi che sono stati fallimentari). La figura seguente
mostra le sette grandi regioni zoogeografiche (distribuzione dei mammiferi) del
mondo:
Figura n. .
Fonte: Masseti, 2008, p. 3.
La tabella
a seguire mostra dove sono zoogeograficamente distribuiti i 148 mammiferi e gli
esiti della domesticazione:
SPECIE
ZOOGEOGRAFICHE [1]
|
REGIONE
ZOOGEOGRAFICA (UNITÀ ZOOGEOGRAFICHE)
|
TOTALI
|
|||
PALEARTICA
(EURASIA)
|
ETIOPICA
(AFRICA SUBSAHARIANA)
|
NEARTICA/
NETROPICA
(AMERICHE)
|
AUSTRALIANA
(AUSTRALIA)
|
||
SPECIE POTENZIALI
|
72
|
51
|
24
|
1
|
148
|
SPECIE DI CUI È FALLITA LA DOMESTICAZIONE
|
59
|
51
|
23
|
1
|
134
|
SPECIE DOMESTICATE
|
13
|
0
|
1
|
0
|
14
|
PERCENTUALE DI SUCCESSO NELLA
DOMESTICAZIONE
|
18%
|
0%
|
4%
|
0
|
22%
|
[1]
Si
tratta di Mammiferi erbivori e onnivori (e non prevalentemente carnivori)
pesanti più di 45 chili in media
Tabella n.
. Fonte (adattata): Diamond, 1998, p. 123.
La tabella
seguente indica quali sono stati i 14 animali domesticati, qual è la loro alimentazione,
quali sono i progenitori e dove (areale) e quando la domesticazione è avvenuta:
ANIMALI DOMESTICATI
|
TIPO DI ALIMENTAZIONE
|
PROGENITORI SELVATICI
|
AREALE (APPROSSIMATIVO) DI SPECIE
SELVATICA AL MOMENTO DELLA SUA PRIMA DOMESTICAZIONE
|
DATE (APPROSSIMATIVE) DI PRIMA
DOMESTICAZIONE CERTA (a.C.)
|
CAPRA (Capra hircus)
|
ERBIVORA
|
BEZOAR (Capra
aegagrus o egagro o capra del
Bezoar)
|
EURASIA
(MONTI DEL VICINO ORIENTE)
|
8 000
|
PECORA (Ovis
aries)
|
ERBIVORA
|
MUFLONE ASIATICO (Ovis orientalis [1])
|
EURASIA
(MONTI DEL VICINO ORIENTE)
|
8 000
|
MAIALE (Sus domesticus)
|
ONNIVORA
|
CINGHIALE
SELVATICO (Sus scrofa, Sus Vittatus)
|
EURASIA
(EUROPA, ASIA E NORD-AFRICA [2])
|
8 000
|
BUE (Bos
taurus)
|
ERBIVORA
|
URO (Bos primigenius)
|
EURASIA
(EUROPA, ASIA E NORD-AFRICA)
|
6 000
|
CAVALLO (Equus caballus)
|
ERBIVORA [3]
|
CAVALLO
SELVATICO (Equus ferus)
|
EURASIA
(UCRAINA, STEPPE DELLA RUSSIA MERIDIONALE E ASIA CENTRALE)
|
4 000
|
ASINO (Equus asinus)
|
ERBIVORA
|
ASINO SELVATICO (Equus
africanus)
|
EURASIA
(NORD-AFRICA E FORSE VICINO ORIENTE)
|
4 000 [4]
|
BUFALO
ASIATICO (Bubalus bubalis, bufali
fluviali e palustri [5])
|
ERBIVORA
|
BUFALO
SELVATICO (Bubalus arnee o bufalo
indiano)
|
EURASIA
(ZONE UMIDE; CINA [?], INDIA E SUD-EST ASIATICO)
|
4 000
|
LAMA (Lama glama); ÀLPACA (Vicugna vicugna [6])
|
ERBIVORA
|
GUANÀCO (Lama guanicoe, Vicugna pacos)
|
AMERICHE
(AMERICA MERIDIONALE, REGIONI SEMIDESERTICHE E D’ALTA QUOTA; ANDE, AMERICA
MERIDIONALE)
|
3 500
|
DROMEDARIO
(Camelus dromedarius [7])
|
ERBIVORA
|
DROMEDARIO
SELVATICO (progenitore sconosciuto)
|
EURASIA (DESERTO
ARABO-SIRIANO [8])
|
2 500
|
CAMMELLO
(Camelus bactrianus [10])
|
ERBIVORA
|
CAMMELLO [9]
SELVATICO (progenitore sconosciuto)
|
EURASIA (TURKESTAN
CINESE, MONGOLIA; STEPPA ARIDA E DESERTO)
|
2 500
|
RENNA (Rangifer tarandus tarandus)
|
ERBIVORA
|
RENNA
SELVATICA (Rangifer tarandus)
|
EURASIA
(EUROPA SETTENTRIONALE, ASIA) E AMERICA SETTENTRIONALE [11]
|
DATI
ARCHEOLOGICI NON SUFFICIENTI PER DEFINIRE UNA DATA
|
YAK DOMESTICO (Bos grunniens)
|
ERBIVORA
|
YAK SELVATICO (Bos
mutus)
|
EURASIA
(MONTAGNE DEL TIBET, DEL NEPAL E DELL’HIMALAYA)
|
|
BANTENG DOMESTICO (Bos
javanicus)
|
ERBIVORA
|
BANTENG (Bos sondaicus) [12]
|
EURASIA
(BORNEO E ISOLE DEL SUD-EST ASIATICO)
|
|
MITHAN o Gayal (Bos frontalis) [13]
|
ERBIVORA
|
GAUR (Bos
gaurus)
|
EURASIA
(INDIA E SUD-EST ASIATICO)
|
[1] Il muflone asiatico è anche
antenato del muflone europeo, Ovis
musimon, che ora è compreso in Ovis
orientalis.
[2] Il Nord-Africa è spesso incluso
per la sua comunanza biogeografica e culturale con l’Eurasia.
[3] Il cavallo, pur essendo erbivoro,
non è un ruminante (cioè non è poligastrico come i ruminanti, ma monogastrico
al pari dei suini, degli asini e dei carnivori; su questa questione, v. infra). Si ricorda, inoltre, che il
cavallo, con l’asino, appartiene all’ordine
Perissodactyla, ed è un ungulato perissodattilo, cioè imparidigitato; i restanti
animali citati nella tabella appartengono invece all’ordine Artiodactyla e sono ungulati artiodattili, cioè paridigitati (v. supra).
[4] La domesticazione dell’asino
sembra essere stata precedente a quella del cavallo.
[5] Questi animali possono prosperare
solo in climi caldi e con la possibilità d’accesso all’acqua (di fiume, come in
India; di palude come in Cina e Birmania, dove sono utilizzati nel processo di
coltivazione del riso).
[6] Sono razze molto differenziate
della stessa specie primordiale, e non specie diverse (ma non è opinione
condivisa) e presentano lo stesso numero cromosomico (v. infra).
[7] Cammello arabo (a una gobba).
[8] A rigore di termini, il cammello
non è un ruminante, anche se sottopone la cellulosa a fermentazione, per poi rigurgitare
e rimasticare il bolo a somiglianza di bovini, capre e pecore.
[9] A Nord della Penisola Arabica.
[10] Cammello della Battriana (a due
gobbe); la Battriana è una regione che corrisponde, in parte, con l’attuale
Afghanistan.
[11] Nel Nord America, la renna è
chiamata caribù (v. infra).
[12] Da alcuni Bos sondaicus è ritenuto un sinonimo non valido di Bos javanicus; nella dicitura Bos javanicus, ritenuta quella corretta,
sono poi contrassegnate, sotto la stessa etichetta, sia le forme selvatiche che
quelle domesticate, questo in contrasto con il trattamento tassonomico riservato
agli altri organismi, ragion per cui qui si mantiene l’appellativo Bos sondaicus per il banteng selvatico; è parente
dell’uro presenta una taglia più piccola
del Bos gaurus.
[13] Questi animali sono esclusivamente
di tipo sacrificale, cioè macellati dopo strangolamento o uccisione con armi
appuntite solo durante occasioni rituali (matrimoni, funerali, malattie,
disgrazie etc., o per certificare
un’ascesa di status).
Tabella n.
. Fonte (adattata): Diamond, 1998, p. 122, p. 127; Clutton-Brock, 2001, pp.
258-259.
Di questi
animali domesticati, la capra, la pecora, il maiale, il bue e il cavallo hanno
avuto una diffusione sovraregionale, gli altri una diffusione solo regionale,
come mostra la tabella seguente:
MODALITÀ DI DIFFUSIONE DEGLI ANIMALI
DOMESTICATI
|
TIPOLOGIA DEGLI UNGULATI DOMESTICATI
|
ZONAZIONE ZOOGEOGRAFICA DELL’ATTUALE DIFFUSIONE
|
SOVRAREGIONALE
|
CAPRA
|
INTERCONTINENTALE
|
PECORA
|
||
MAIALE
|
||
BUE
|
||
CAVALLO
|
||
REGIONALE
|
ASINO
|
EUROPA, NORD
AFRICA
|
BUFALO
ASIATICO
|
SUD-EST
ASIATICO, ZONE UMIDE DEL VICINO ORIENTE, NORD AFRICA, EUROPA MERIDIONALE [1]
|
|
LAMA/ALPACA
|
QUASI
ESCLUSIVAMENTE NELLA ZONA DELLE ANDE
|
|
DROMEDARIO
|
EURASIA,
AFRICA [2]
|
|
CAMMELLO
|
DALL’ASIA
CENTRALE ALL’ANATOLIA (TURCHIA)
|
|
RENNA
|
QUASI
ESCLUSIVAMENTE IN SCANDINAVIA E IN SIBERIA
|
|
YAK DOMESTICO
|
HIMALAYA,
TIBET, MONGOLIA
|
|
BANTENG DOMESTICO
|
INDONESIA
|
|
MITHAN
|
SUD-EST
ASIATICO
|
[1] Alcune popolazioni, a
volte inselvatichendo, sono state introdotte in Sud America e in Australia.
[2] È presente, allo stato selvatico,
in Australia.
Figura
n. . Fonte (modificata): Masseti, 2008,
p. 158; Diamond, 1998, p. 122.
Di questi,
ancora, prendiamo ora in considerazione uno a uno i progenitori selvatici mostrandone,
brevemente, le caratteristiche e, s’è il caso, le caratteristiche delle specie
domesticate che ne derivano. L’egagro (Capra
aegagrus), se ci si basa su studi del DNA mitocondriale, è probabilmente
l’unico progenitore selvatico delle capre domestiche (Capra hircus) ed è uno tra i primi ruminanti erbivori a essere
domesticato (per la sua alimentazione, v. supra;
per il processo di digestione dei ruminanti, v. infra); Capra aegagrus presenta una mole media e una corporatura massiccia, con zampe
robuste e relativamente brevi, adatte alla vita in habitat montani, rupestri, con zoccoli fessi terminanti in punte
ottuse, e coda corta; i maschi hanno il capo ornato da corna ritorte come
scimitarre, molto più piccole nelle femmine
(per la questione della variazione
nella morfologia delle corna con la domesticazione, cioè il passaggio dalle
corna a scimitarra, presenti ai livelli del Neolitico preceramico, PPNA e PPNB,
alle corna ritorte che s’affermano a partire dal Neolitico ceramico, PN, v. supra); il pelo è più corto d’estate che
d’inverno e solo nei maschi si forma una barbetta sotto il mento; da
risottolineare il fatto che, visto che brucano di preferenza in habitat ostili, presentano anche una
versatilità dal punto di vista alimentare che ha favorito il loro successo in
quanto animali domestici; la figura seguente ne mostra una ricostruzione
parziale:
Figura
n. (specie selvatica: Egagro, o Bezoar, Capra aegagrus). Fonte: Clutton-Brock,
2001, p. 97
Il muflone (Ovis orientalis) è un ruminante erbivoro
selvatico che pascola nelle regioni collinari e pedemontane; presenta un corpo
piuttosto piccolo, arti sottili e robusti, terminanti in piccoli zoccoli anteriormente divisi e coda relativamente corta; le corna dei
maschi sono massicce, ricurve e ritorte, cioè con le estremità rivolte di lato,
in basso e in avanti, e sono più grandi e robuste di quelle delle femmine (maschi e femmine formano poi gruppi separati, salvo che nella
stagione riproduttiva); il pelo più esterno della pecora selvatica, detto
giarra, è rigido, ruvido e relativamente corto d’estate e tende a sviluppare uno
strato di sottopelo corto e lanoso, detto borra, che cresce soltanto durante
l’inverno; nelle pecore domestiche, invece, la giarra manca del tutto e la
borra, da cui si ricava la lana, cresce tutto l’anno e non cade con l’arrivo
dell’estate come nella muta spontanea delle specie selvatiche; la lana può
essere marrone, bianca, nera o una commistione di questi colori e la sua
utilizzazione in senso produttivo risale al VI-IV millennio a.C.; la figura
seguente mostra la ricostruzione del muflone europeo che, come detto, è
attualmente ritenuto una sottospecie del muflone orientale, Ovis orientalis, che ed è ritenuto essere l’unico antenato delle
pecore domestiche, Ovis aries:
Figura
n. (Muflone europeo, Ovis musimon). Fonte: Clutton-Brock,
2001, p. 91
Per quanto
riguarda la domesticazione di capre e pecore selvatiche, è poi da ricordare che
queste hanno un sistema sociale basato su un singolo leader dominante che permette l’imprinting
umano (v. infra), questo a differenza
d’altri ungulati, per esempio, i cervi e le gazzelle, che, pur vivendo in
branchi, non presentano una struttura sociale basata su gerarchie di dominanza;
ancora, favorisce la loro domesticazione il fatto che, a differenza d’altri
animali, per esempio, un cervo o un’antilope, non difendono il loro territorio,
ciò che consente di raccoglierle in greggi compatti (più le pecore che le
capre), in condizioni d’affollamento che capre e pecore sembrano prediligere.
Il
cinghiale selvatico (Sus scrofa),
considerato il progenitore del maiale (Sus
domesticus), è l’unico taxon non
specializzato in una dieta erbivora fra gli ungulati che per primi sono stati
coinvolti nel processo di domesticazione, inoltre è una specie ubiquitaria che
predilige gli areali forestali di latifoglie decidue e si presenta tarchiato,
con una mole consistente (i maschi possono superare il metro d’altezza, i
100-150 cm di lunghezza e raggiungere un peso di un quintale e oltre), la cui
grande testa, sviluppata anteriormente, termina in un muso (o grugno) nudo e in
parte muscoloso e mobile, con una dentatura (44 denti) caratterizzata da canini
assai grandi e a crescita continua che, nei maschi, si presentano particolarmente
sviluppati, sporgenti e rivolti in alto (i canini inferiori, o zanne, possono
raggiungere i 30 cm); gli arti, che sono relativamente brevi, poggiano sugli
zoccoli del terzo e quarto dito, e gli arti posteriori sono più corti di quelli
anteriori; il corpo è poi quasi interamente rivestito di setole dure, con
pelame fitto (la coda, corta, termina con un ciuffo di setole); si suppone che
la sua domesticazione abbia avuto luogo in più tempi (più o meno contemporaneamente
a Capra aegagrus e Ovis orientalis) e in aree geografiche
fra loro diverse, nel Vicino Oriente (v, supra,
Jericho nel PPNB, dove i resti di suini sono marginalmente più piccoli di
quelli precedenti, lo stesso nei resti osteologici ritrovati nel sito di Qal’at
Jarmo, nel Kurdistan iracheno, v. figura n. [Clutton-Brock, 2001, p. 88] ), in
Europa, in Cina e nel Sud-Est asiatico. La figura che segue mostra non l’areale
generico di distribuzione di Sus scrofa
(segnato nella figura n. [Clutton-Brock, 2001, p. 42] con la lineetta e il
punto), ma quello specifico delle 25 sottospecie (o 27, comprese quelle forse rinselvatichite)
che si sono evolute da Sus scrofa per
adattarsi alle locali condizioni climatiche e ambientali (è però da
sottolineare che i dati della figura riportata qui sotto risalgono a indagini
precedenti al 2 000 d.C., poiché oggi, a seguito di molteplici analisi con il
DNA mitocondriale, le sottospecie sono state ufficialmente ridotte a 16):
Figura n. .
Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 114.
Da
ricordare poi che la dentizione del cinghiale è adatta e per triturare vegetali
e per sfibrare alimenti carnei (anche in fase di decomposizione) e che il loro
apparato digestivo, a differenza di quello poligastrico degli erbivori
ruminanti (che presentano dei prestomaci, v. infra), è scarsamente specializzato in quanto presenta un solo
stomaco (sono cioè monogastrici, come gli equini e i carnivori, v. infra). Per quanto riguarda la sua
domesticazione, si deve sapere che, se il cinghiale adulto è particolarmente
aggressivo, i lattónzoli (cioè i piccoli durante la
fase dell’allattamento e prima dello slattamento che avviene ca. a 2 mesi
d’età) possono invece essere facilmente domesticati e, a seguire, manifestano
un subitaneo adattamento alla vita stanziale antropica dove cercano i rifiuti
alimentari e lo stretto contatto fisico con altri membri del loro gruppo
familiare (forse a causa del fatto che una femmina può arrivare a partorire
fino a dieci lattonzoli per figliata); inoltre, i suini non sono territoriali e
mangiano ininterrottamente di tutto per molte ore per poi dormire a lungo, ciò
che fa sì che non debbano mangiare di notte, ciò che, ancora, in regime di
cattività, ben s’adatta ai ritmi di veglia e di sonno delle comunità umane;
inoltre, oltre che rinchiuderli in un recinto, si possono addestrare i maiali
domesticati ad andare dove vuole il conduttore (il porcaro) offrendogli del semplice
cibo, ciò che permette loro di vagare liberamente nella foresta arricchendo la
dieta sotto la sola sorveglianza d’un porcaro; per inciso, mentre la capra e la
pecora implicano la transumanza nel processo di domesticazione (data la loro
tendenza agli spostamenti per la ricerca stagionale dei pascoli), il maiale no,
giacché, come il suo progenitore, il cinghiale, è onnivoro, ciò che permette,
oltre al riciclo produttivo dei materiali di scarto, processi di domesticazione
e d’allevamento inimmaginabili per capre, pecore e buoi.
L’uro (Bos primigenius, oggi estinto), esclusi
i bovini domestici del Sud-Est asiatico, è considerato come l’unico progenitore
selvatico delle diverse razze di bue domestico (Bos taurus), anche se si sospetta che la sua domesticazione, data
la sua diffusione ubiquitaria, sia avvenuta più volte e in luoghi diversi (nel
subcontinente indiano, nel Vicino Oriente e, ma non è certo, in Nordafrica); è
un ruminante che bruca e pascola nelle foreste e che s’adatta a vivere anche in
regioni a macchia più aperta e i suoi areali vanno da 60° di latitudine Nord
(escluso il Nordamerica) ai 30° di latitudine Sud (tranne che in India, dove
una sua sottospecie, ora estinta, ha forse dato origine agli zebù, bovini
gibbosi domestici successivamente diffusi in Africa e nel resto dell’Asia); è
un animale di notevoli dimensioni (con un’altezza che sfiora i 2 m, tra 160 e
180 cm, e una lunghezza che può arrivare ai 3 m e un peso di 800 – 1 000 kg,
con un dimorfismo sessuale molto accentuato, per cui le femmine sono, e di
molto, più piccole), ed è caratterizzato da un collo muscoloso, imponente, e da
lunghi e snelli arti (relativamente alle dimensioni complessive e al peso
corporeo), con corna lunghe (fino a 107 cm) a forma di mezzaluna nei maschi e più
corte (fino a 70 cm) e a forma di lira nelle femmine e presenta un manto di
pelo corto (più folto in inverno); è un ruminante erbivoro abitante delle
foreste decidue dell’Eurasia che s’adatta anche ad aree steppiche o
caratterizzate da macchia diradata; la figura seguente mostra una ricostruzione
dell’uro:
Figura n. (specie
selvatica: Bos primigenius). Fonte
(modificata): Clutton-Brock, 2001, p. 103.
Come detto,
l’areale originale di distribuzione dal Bos
primigenius (che fa parte della Megafauna) comprende l’Eurasia e il
Nord-Africa (sono esclusi il Nordamerica e il subcontinente indiano), regione
zoogeografica da cui si sono successivamente evolute tre sottospecie, una in
Vicino Oriente e in Europa, una in India e una in Nordafrica; nel Vicino
Oriente s’è evoluto il Bos primigenius
primigenius, una sottospecie del Bos
primigenius, da cui s’è evoluto Bos
taurus; in India s’è evoluto il detto Bos
primigenius namadicus, da cui è probabilmente disceso il domesticato Bos indicus, o zebù (detto anche bue
gibboso in quanto presenta
una caratteristica gobba nella regione fra il margine inferiore del collo e il
dorso, probabilmente un discendente del banteng,
Bos sondaicus, v. infra); la figura seguente mostra una ricostruzione
del Bos indicus (si distinguono
morfologicamente dalle razze taurine per il fatto d’avere il cranio piuttosto
allungato e stretto, corna voluminose, una giogaia voluminosa e pesante, zampe
lunghe e sottili, orecchie grandi e pendule e una gibbosità dovuta a un
ingrossamento muscolare o adipo-muscolare sulla regione posteriore del collo o
del garrese; fisiologicamente risultano poi meglio adattati all’ambiente
tropicale rispetto ai bovini non gibbosi, per esempio, resistono alle alte
temperature e all’umidità):
Figura n.
(specie domestica: Zebù, Bos indicus).
Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 111.
Infine, in
Nordafrica s’è evoluto il Bos primigenius
mauretanicus, che probabilmente non ha lasciato discendenti. La figura
seguente illustra, con tre tonalità degradanti di grigio scuro, l’area di
diffusione delle tre sottospecie sopra citate:
Figura
n. . Fonte (modificata): Creative
Commons.
Da non
dimenticare, infine, a proposito della domesticazione di Bos primigenius, che le prime attestazioni certe, databili al 6 200
a.C., provengono
dal sito di Çatal Hüyük in Anatolia (anche se, e sempre in Anatolia, ma
risalenti al PPNB, cioè a ca. 7 000 anni a.C., presso Hacılar Höyük, o Haçilar,
un sito a ovest di Çatal Hüyük, sono poi stati rinvenuti resti osteologici di
bovini di taglia più piccola del Bos
primigenius; per la localizzazione dei due siti, v. figura n. [Clutton-Brock, 2001, p. 88]) e che, almeno per quanto riguarda l’uso produttivo
dei bovini domestici relativamente alla pratica della mungitura e alla
produzione di latte, essa risale al IV millennio a.C. ed è localizzata
primariamente in regioni come la Mesopotamia e l’Egitto (per il problema
fisiologico del malassorbimento del lattosio, componente fondamentale del latte
fresco, v. infra).
Del cavallo
s’è parlato sopra a proposito della sua filogenesi e se ne tratterà diffusamente
a seguire a proposito della sua domesticazione e del suo ruolo presso i popoli Kurgan; valga ora, parlando della sua
presenza allo stato selvatico (Equus
ferus) il fatto ch’è stato oggetto d’assidua predazione antropica, tanto
che nel Paleartico occidentale l’areale del cavallo subisce una forte
contrazione nella transizione tra la fine del Pleistocene e l’inizio
dell’Olocene; per esempio, scompare in Europa (tranne che nella penisola
iberica) e nel Levante, ma sopravvive con poche popolazioni nell’Anatolia del
Nord e nelle steppe dell’Europa orientale (in America il cavallo s’è estinto
probabilmente 8 000 anni fa). Il cavallo selvatico presenta poi due
sottospecie, quella eurasiatica, il tarpan,
Equus ferus ferus (classificato anche
come Equus ferus gmelini), proprio alla
zona occidentale della steppa eurasiatica, cioè alla regione, detta
pontico-caspica, che passa per la Russia meridionale e s’estende dall’Ucraina centrale al Nord-Ovest
del Kazakhstan, e quella asiatica, il takhi, Equus ferus przewalskii (o cavallo di Prževal’skij), proprio alla
regione adiacente al Kazakhstan e posta fra la Siberia e la Cina occidentale,
cioè alla Mongolia (Equus ferus
przewalskii è da alcuni ritenuto una specie distinta, Equus przewalskii); si suppone, ed è questa l’ipotesi più
accreditata, che sia in ambiente steppico eurasiatico occidentale che sia poi
iniziata la sua diffusione e domesticazione, nello specifico presso i popoli pre-Kurgan (v. infra) con il tarpan; il tarpan è poi geneticamente
indistinguibile dal cavallo domestico, ed escludendo che il cavallo di
Prževal’skij possa essere ancestrale di cavalli domestici; infatti, l’esistenza
di 2n = 66 cromosomi nel takhi lo
identifica per essere diverso dal tarpan
e dall’Equus caballus che hanno 2n =
64, così come, oltre al cariotipo, è poi lo stesso DNA mitocondriale del takhi che forma un gruppo distinto, il
che è dire che takhi e tarpan sono due popolazioni diverse (e nonostante
il cavallo di Prževal’skij possa
poi ibridarsi
con il cavallo domestico per produrre prole fertile), anche se per altri la
domesticazione di questo taxon non è
monocentrica, come restituisce l’evidenza archeologica, ma multicentrica, e se
per altri ancora entrambe le sottospecie, il tarpan e il takhi, devono
considerarsi come progenitrici del cavallo domestico (Equus caballus); alcuni, infine, dicono che Equus ferus non è una specie, ma una sottospecie classificabile
come Equus ferus caballus. La figura
seguente illustra il probabile areale di distribuzione del cavallo selvatico
all’altezza del III millennio a.C., quando inizia il lungo processo della sua
domesticazione nella Russia meridionale e in Asia occidentale (il processo, in
Europa, avviene all’incirca mille anni dopo, a partire dal II millennio a.C.):
Figura
n. . Fonte: Masseti, 2008, p. 164.
Da
ricordare che i cavalli si nutrono al pascolo, in praterie temperate e ben
irrigate, e sono solo relativamente adatti ai deserti o ai biotopi boscosi pur
potendovi, se costretti, sopravvivere (per esempio, i takhi che hanno abitato le steppe desertiche della Mongolia,
probabilmente il margine estremo del loro areale di diffusione naturale), e
sono dotati di denti a corona alta e d’un apparato digerente specializzato per
assimilare l’erba , infatti, come sopra detto, Equus caballus è un erbivoro che presenta il vantaggio della
digestione enzimatica (tipica dei monogastrici), cui si somma quella batterica
(tipica dei poligastrici, quali sono i ruminanti); specificandone e le modalità
d’alimentazione e grosso modo il funzionamento dell’apparato digestivo,
possiamo dire che un cavallo si sposta nel pascolo alla ricerca d’erba e radici
con pasti brevi e veloci (in media 8-10 volte al giorno su un arco di ca. 15
ore); s’appropria poi delle risorse reperite per il tramite della prensione del
labbro superiore che fa poi presa su quello inferiore (e non usando la lingua
come i bovini, o il grugno spinto in avanti e in alto come fanno i maiali) e
insalivando e masticando intensamente il cibo, con una frequenza di
masticazione maggiore rispetto a quella dei ruminanti e dei carnivori, arriva a
formare un bolo; nella bocca avviene una prima fase della digestione che poi
continua, dopo il passaggio rapido del bolo attraverso l’esofago, nello
stomaco; lo stomaco del cavallo è, rispetto alla sua taglia, decisamente
ridotto (un bovino, per esempio, presenta un volume ca. 10 volte superiore) ed
è qui che si svolge sommariamente la digestione gastrica d’una parte
dell’ingerito in quanto lo stomaco si svuota velocemente; la digestione
prosegue, con un transito relativamente veloce, in un intestino tenue, o piccolo
intestino, che si presenta molto allungato e dove si manifesta un alto
assorbimento degli zuccheri semplici derivati in parte dalla degradazione degli
amidi e in parte dagli alimenti (ed è, questa, la fine del processo digestivo
enzimatico); in seguito si passa all’intestino crasso, o grosso intestino,
formato da cieco, colon e retto; è
poi nella prima parte del crasso, nel cieco, che ha poi luogo la maggior parte
della fermentazione batterica degli alimenti fibrosi che permette la digestione della cellulosa e
d’una parte dell’emicellulosa, trasformata poi in carboidrati vegetali
assimilabili dall’organismo (la fermentazione cecale è poi simile, in questo, a
quella dei ruminanti); l’indigeribile, dopo il processo fermentativo di cieco e
colon, lo si ritrova poi nel retto
dov’è, in seguito, espulso con le feci (per l’apparato digestivo dei ruminanti,
v. infra); infine, resta da dire, che
le dimensioni e la morfologia generale dei primi cavalli domestici presentano,
rispetto a quelli selvatici, un cambiamento minore di quello rilevato in altre
specie d’animali domesticati, come mostrano i siti archeologici dove la
restituzione dei reperti ossei, abbondante, non permette di distinguere tra i
cavalli domestici e quelli selvatici.
L’asino selvatico
(Equus africanus), riconosciuto come
progenitore di tutti gli asini domestici (africani o asiatici che siano), è un
equide caratteristico dell’Africa postglaciale il cui areale di distribuzione è
poi andato via via decrescendo per ridursi alla sola Africa settentrionale,
dove ne sono riconosciute tre sottospecie, una diffusa in Algeria e sulle
montagne della catena montuosa dell’Atlante che s’estende tra Marocco, Algeria
e Tunisia (forse provvista di zebrature agli arti e ora estinta, Equus africanus atlanticus), una in
Nubia (cioè in un’area dell’Africa Nordorientale, divisa tra l’Egitto e il
Sudan e attraversata longitudinalmente dal Nilo; questa sottospecie, Equus africanus africanus, è estinta ed
è, rispetto all’asino dell’Algeria, di più piccole dimensioni) e una in Somalia
(questa è una sottospecie prossima all’estinzione ed è la razza più alta tra le
tre, con evidenti zebrature agli arti, Equus
africanus somaliensis); la figura seguente mostra una ricostruzione
dell’asino selvatico nubiano:
Figura n.
(specie selvatica: Equus africanus
africanus). Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 139.
La figura
seguente mostra invece una ricostruzione dell’asino selvatico somalo:
Figura n.
(specie selvatica: Equus africanus somaliensis).
Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 140.
Ora, visto
che non è possibile identificare con certezza l’origine delle attuali razze
domestiche (Equus asinus), antenati
si possono riconoscere in tutte e tre le sottospecie (fatta salva un’ipotesi
che vede il progenitore nel solo Equus
africanus africanus) e si può affermare che la distribuzione geografica
delle tre sottospecie costituisce un cline esteso in tutta l’Africa del Nord,
dalla catena dell’Atlante al Mar Rosso (un cline è poi una variazione graduale,
unidirezionale e continua, di date e determinate caratteristiche d’una specie
in aree geografiche fra loro adiacenti; questa variazione di caratteri che
sconfinano gli uni negli altri senza soluzione di continuità è generalmente
correlata a variazioni ambientali, quali temperatura, umidità, altitudine etc.); a ciò s’aggiunga che, nel Vicino
Oriente, gli areali di distribuzione di Equus
africanus si sono sovrapposti a quelli di altri equidi selvatici, per
esempio l’emione (Equus hemionus, di
cui l’onagro, cioè l’asino selvatico persiano di cui s’è parlato sopra, Equus hemionus onager, è ritenuto una
sottospecie), per cui si sospetta fortemente, in base a resti osteologici (e
anche se le ossa e i denti di Equus
africanus e Equus hemionus non
sono sempre facili da distinguere), che l’areale d’origine della domesticazione
della specie si situi tra la Mesopotamia, la Siria e il Levante meridionale; la
figura a seguire mostra poi gli areali di diffusione dell’asino selvatico
africano (Equus africanus) e asiatico
(Equus hemionus), con le loro
sottospecie:
Figura n. .
Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 139.
L’asino
selvatico s’è dunque diffuso in località steppose e semidesertiche, cioè in
luoghi che, ricevendo 100-200 mm di pioggia annuale, sono poveri di
vegetazione, luoghi cui la sua dieta, fatta d’erba, corteccia e foglie,
s’adatta; dieta ch’è poi permessa anche dal suo apparato digerente monogastrico
ch’è in grado di sminuzzare risorse trofiche le più coriacee; inoltre, può resistere
anche senz’acqua, se pure per non prolungati periodi di tempo (fino a 3 giorni
e perdendo fino al 30% del suo peso), ciò che ci permette d’affermare che
questa dieta, quantitativamente scarsa e di poco significato nutritivo, indica un
organismo con grandi capacità di resistenza; capacità sfruttate poi dal punto
di vista antropico che lo faranno, domesticato, animale da lavoro e mezzo di
trasporto per carichi pesanti (che hanno innovato i sistemi di trasporto delle società agropastorali), cui
s’aggiunga che sarà allevato anche per ricavare carne, latte (biochimicamente simile
a quello materno degli infanti) e cuoio; da ricordare, ancora, che alcuni
sostengono che Equus asinus sia da
ritenersi una specie a sé e che altri lo considerano una sottospecie di Equus africanus, nel qual caso, se
supportata l’ipotesi filogenetica che valida la seconda ipotesi, si dovrebbe
parlare per l’asino domestico di Equus
africanus asinus e ch’esistono anche degli ibridi (diventati comuni
all’altezza del 2 500 a.C.) qui non presi in considerazione, quali il mulo e il
bardotto (il mulo deriva dall’accoppiamento tra un asino e una giumenta, mentre
il bardotto è dato dall’incrocio tra un’asina e uno stallone); per quanto
riguarda le testimonianze archeologiche d’una domesticazione, sono escluse
quelle riguardanti Equus hemionus
(giacché questi non può essere il progenitore di specie domestiche nel Vicino
Oriente in quanto le sue modalità comportamentali non si possono ridurre alla
domesticazione, v. infra, oltre al
fatto che l’asino domestico asiatico non può generare prole feconda s’è
incrociato con un emione, a differenza di quanto avviene se l’incrocio è
effettuato con un asino selvatico africano), mentre le testimonianze risalenti
al primo Olocene e riguardanti Equus
africanus sono scarse e, visto che come per il cavallo non ci sono
differenze riconoscibili tra i resti dell’asino selvatico e quelle delle prime
forme domestiche, mancano le prove concrete che certifichino la sua prima
domesticazione (in ogni caso, la più antica evidenza osteologica proviene da
Uruk, nella Mesopotamia meridionale e nei pressi dell’Eufrate, ed è databile all’inizio
del III millennio a.C., nel mentre, a seguire, l’impiego di Equus asinus diventa pratica assai diffusa
nell’area geografica compresa fra l’Egitto e la Mesopotamia).
Il bufalo
indiano selvatico (Bubalus arnee) è oggi
in via d’estinzione e si rinviene solo nelle riserve o nelle foreste fluviali inaccessibili
del Nepal e del Sud-Est asiatico e, come detto sopra, il suo habitat preferito è
legato al clima caldo e all’acqua (fiumi, praterie alluvionali, stagni, acquitrini
etc.); la sua dieta è prevalentemente
erbivora e presenta, nella sua grossa taglia, un aspetto tozzo (esiste
dimorfismo sessuale e i maschi possono raggiungere, al garrese, l’altezza di
quasi 2 m, una lunghezza tra i 2 e i 3 m e un peso superiore alla tonnellata); esibisce
grosse corna che si presentano ricurve all’infuori e volte all’indietro e il
manto presenta un pelo rarefatto, per cui la pelle è quasi nuda, pure se spessa
e coriacea, e ricca di ghiandole sebacee, ma povera di ghiandole sudoripare,
tanto che l’immergersi nell’acqua del bufalo rappresenta un’ineludibile strategia
di difesa contro il caldo degli ambienti in cui vive (e, visto che vive spesso
nell’acqua, gli zoccoli sono strutturati per facilitarne lo spostamento sul
fondo, cioè appiattiti
e allargati alla base); dato che non esiste alcuna evidenza archeologica di
domesticazione, è poi ipotizzabile che la più antica domesticazione del bufalo
trovi la sua origine nelle regioni caratterizzate dalla coltura del riso in
Cina e in Indocina; in ogni caso è da sottolineare che, già all’altezza del III
millennio a.C., la sua forma domestica è conosciuta nella valle dell’Indo
(nella regione corrispondente al Pakistan odierno), in Cina e anche in reperti
mesopotamici (il bufalo è attestato come selvatico, nel Vicino Oriente, già a
partire dal Pleistocene); attualmente esistono due gruppi principali di bufali
domestici (Bubalus bubalis), di
taglia inferiore rispetto
al progenitore
selvatico, Bubalus arnee, quello di
fiume, che vive in India e che predilige l’acqua corrente e limpida; quello
delle paludi, che vive in Cina e Birmania (più simile al progenitore rispetto
al bufalo di fiume), e che frequenta luoghi dove le acque sono fangose; il loro
ruolo è principalmente quello d’essere efficienti animali da tiro nelle risaie.
Prima di
parlare delle forme selvatiche di cammelli, dromedari, guanachi e vigogne, è
necessario sapere che la famiglia dei Camelidi è originaria dell’America
Settentrionale, famiglia estinta in Nord America che s’è in seguito diversificata
in una sottofamiglia (Camelinae) con
due tribù (v. supra) e s’è diffusa attraverso
l’istmo di Panama nell’America del Sud (tribù dei Lamini) e, attraverso la Beringia, è passata dall’Alaska in Siberia,
per poi penetrare verso Sud in Asia meridionale e verso Ovest in Africa
settentrionale (tribù dei Camelini),
in ogni caso in habitat che vanno dalla
pianura fino ai 5 000 m s.l.m., dunque adattandosi al caldo e al freddo, alle
zone aride e semiaride, alla pianura o alla montagna, cioè adattando le
funzioni fisiologiche ad habitat carenti
di risorse trofiche e caratterizzati da forti escursioni termiche tra
estate/inverno o notte/giorno, volendo allo stress
termico, alla disidratazione, alle difficoltà di respirazione e visione nei
deserti o alla carenza d’ossigeno in altezza (o ipossia), e altro ancora, cioè
in ambienti ostili all’insediamento antropico; in Asia e in Africa la tribù dei
Camelini s’è diffusa con un genere (Camelus) nelle sue tre specie, due del cammello
(in Asia, Camelus ferus, Camelus bactrianus) e una con il
dromedario (in Africa, camelus
dromedarius) e, in America Meridionale, la tribù dei Lamini s’è diffusa con due generi ciascuno con due specie, il guanaco
(Lama guanicoe e Lama glama ) e la vigogna (Vicugna
pacos e Vicugna vicugna); di specie
selvatiche di queste due tribù, a tutt’oggi, esistono poi solo il cammello, il
guanaco e la vigogna, persistendo il dromedario solo allo stato domestico
(Camelus dromedarius); la tabella seguente riassume quanto
affermato:
FAMIGLIA
|
Camelidae [1]
|
||
SOTTOFAMIGLIA
|
Camelinae
|
||
TRIBÙ
|
Camelini [2]
|
Lamini
|
|
GENERE
|
CAMMELLO
(Camelus)
|
GUANACO (Lama)
|
VIGOGNA (Vicugna)
|
SPECIE
|
Camelus ferus
|
Lama guanicoe [3]
|
Vicugna pacos
|
Camelus bactrianus
|
Lama glama
|
Vicugna vicugna
|
|
Camelus dromedarius
|
[1] Questa famiglia
s’è estinta, in Nord America, verso la fine del Pleistocene,
probabilmente
grazie all’overkill antropico della
Megafauna che ha reso il Nuovo
Mondo
povero di specie da domesticare (per esempio, oltre ai Camelidi, sono
scomparsi
anche gli Equidi).
[2] La divisione tra
le due tribù è avvenuta, stando ai soli reperti fossili, 11 milioni
d’anni
fa; le tribù dei Camelini e dei Lamini sono emigrate (una in Asia, l’altra
in Sud
America) quasi contemporaneamente all’altezza di 3 milioni d’anni fa.
[2] Scritto anche
nella forma guanicöe o guanicoë.
Tabella
n. .
Fonte: Cui et alii, 2007.
la figura
seguente mostra invece graficamente dov’è nata la famiglia dei Camelidi durante
l’Eocene (ca. 45 milioni d’anni fa) e la diaspora fra le due tribù dei Camelini e dei Lamini:
Figura
n. .
Fonte (modificata): Creative
commons.
Riguardo al
cammello selvatico attuale (Camelus ferus),
l’analisi del DNA ha poi confermato che deve essere considerato una specie
separata dal cammello domestico (Camelus
bactrianus), ma anche che il Camelus
ferus, oltre che di un lignaggio separato, non può essere considerato il progenitore
diretto di Camelus bactrianus, tanto
che il rapporto evolutivo tra Camelus
ferus e Camelus bactrianus non è, a
oggi, per nulla chiaro, cui s’aggiunga poi che non c’è alcuna prova che il
progenitore del dromedario (Camelus
dromedarius) sia un cammello; di là da queste incertezze, il cammello
selvatico (Camelus ferus), detto
anche cammello della Battriana selvatico, è originario del Turkestan cinese e
della Mongolia ed è presente oggi allo stato selvatico soltanto in una
ristretta zona ai margini del deserto del Gobi, in areali remoti della Mongolia
e in habitat dov’è conformato alle
forti escursioni termiche che vi sono presenti (la temperatura estiva può
toccare i 60-70 ºC e quella invernale scendere a -30 ºC) e, a causa della predazione
specialmente antropica, è considerato una specie in pericolo d’estinzione; la
domesticazione del cammello, che ha permesso, assieme a quella d’altri membri
della sottofamiglia Camelinae, la
colonizzazione d’ambienti ostili all’uomo, è poi avvenuta in Asia centrale, da
dove il cammello domesticato (Camelus
bactrianus) s’è poi diffuso verso oriente sino alla Cina settentrionale e,
a occidente, sino all’Asia Minore e alla Russia meridionale, anche se le prime
evidenze archeologiche che documentano la domesticazione provengono dalla
Persia e dal Turkestan e sono da riferirsi al III millennio a.C. (la prima
testimonianza documentata dell’esistenza di cammelli domestici risale al
ritrovamento di letame di cammello, all’altezza del 2 600 a.C., nel sito di
Shahr-i Sokhta, uno dei primi esempi di società complesse, protostoriche, nella
parte Sudorientale dell’Iran quasi ai confini dell’Afghanistan); il Camelus bactrianus, pur essendo
domesticato, è mantenuto in uno
stato semibrado, il che vuol dire che deve procurarsi autonomamente le risorse trofiche nell’areale in cui vive e
che il ruolo degli esseri umani è quello di garantirgli l’accesso all’acqua,
ciò che avviene essendo i cammelli incustoditi in grado di ritornare alloro
pozzo familiare; il cammello domestico presenta poi un corpo massiccio e
pesante, una testa
piccola, il collo lungo e strettamente incurvato, le zampe corte e robuste, un mantello folto e due gobbe
dorsali
molto sviluppate e irregolari (questo a differenza del cammello selvatico odierno
che presenta gobbe piccole e a forma di cono, cioè con una base rotonda e un’estremità
appuntita); il rivestimento
peloso, ch’è molto più abbondante rispetto a quello del dromedario, è un carattere
d’adattamento protettivo contro i freddi dei deserti asiatici e, sempre a causa
delle escursioni termiche di cui sopra, il rivestimento cade autonomamente
d’estate; questo cammello, ancora, è
impiegato per il trasporto (fino a 400 kg e oltre) nelle regioni tra la Cina
settentrionale e la Turchia e, se necessario, può percorrere 150 km in 15-20
ore, e può sopportare fino a 20 giorni senza bere e mangiare; la figura
seguente ricostruisce l’aspetto del cammello domestico:
Figura n.
(specie domestica: Camelus bactrianus).
Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 179.
Il dromedario
(Camelus dromedarius), o cammello
arabo, è originario nella sua forma selvatica del deserto arabo-siriano (e il
dato archeologico della sua domesticazione risale al III millennio a.C.), ed è oggi
diffuso nei deserti caldi della regione sahariana e del Vicino Oriente; ha una
corporatura snella, collo e zampe lunghe, pelo corto e una sola gobba (le gobbe
dorsali di cammelli e dromedari sono, come sopra detto, accumuli di tessuti
fibrosi e adiposi, dunque con lipidi di riserva che, metabolizzati, permettono
a questi animali di sopportare lunghi periodi di digiuno); la sua dieta è d’erbe
e cespugli secchi e, se ben nutrito con piante grasse e non sottoposto a sforzi
eccessivi, può resistere alla sete per otto giorni; è impiegato per il trasporto (fino
a 200 kg) e ha un’andatura più veloce di Camelus
bactrianus; la figura seguente ricostruisce l’aspetto del dromedario:
Figura n.
(specie domestica: Camelus dromedarius).
Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 179.
Cammello e
dromedario, stando ad alcuni autori, sono poi sottospecie d’una unica specie
(non ancora identificata) dato che le differenze fra i due si riducono se si
pensa, di là dagli adattamenti ai diversi habitat,
che la
regolazione della temperatura corporea e della resistenza alla sete obbediscono
in entrambi alla stessa dinamica, che l’unica gobba del dromedario in realtà è
data dalla fusione di due gobbe cresciute in modo asimmetrico (infatti, quella più grande si
trova fusa in modo parziale con quella accennata al di sopra delle spalle,
ridotta di dimensioni rispetto al Camelus
bactrianus), che le due specie sono interfertili (solitamente, sono fertili
solo gli ibridi femmina) e presentano lo stesso cariotipo (2n = 70).
I Camelidi
sudamericani, animali tipici degli ambienti aridi e steppici che caratterizzano
l’habitat della puna (l’altopiano andino, una regione semidesertica dal clima freddo
e arido che si distende fra i 3 000 e i 5
000 m d’altitudine in Cile, Bolivia e Argentina), sono più piccoli
rispetto a quelli del Vecchio mondo, non presentano dimorfismo sessuale, sono
privi di gobbe dorsali e possiedono le orecchie più lunghe e sia le specie
selvatiche che quelle domesticate presentano lo stesso cariotipo (2n = 74) e
possono ibridarsi fra loro dando prole fertile, e l’ibridazione dei due generi Lama e Vicugna si spiega considerando che i dati emersi dal sequenziamento
del mtDNA mostrano una divergenza relativamente recente risalente a ca. 2
milioni d’anni fa; si presume, inoltre, che la domesticazione del guanaco e
della vigogna sia da collocare tra il 5 500 e 3 500 a.C., cioè prima della
domesticazione del cammello nel Vicino Oriente, come mostrano i reperti
archeologici dei siti preceramici della Puna di Junín, in Perù, nella parte
centrale delle Ande; il guanaco (Lama
guanicoe), il più
grande artiodattilo selvatico del Sudamerica, dopo lo sterminio antropico
(avvenuto tra i 7 000 e i 4 000 anni a.C.) sopravvive ora allo stato selvatico
solo in un areale ristretto, nella regione andina oltre i 4 000 m d’altezza
(inizialmente il suo areale era compreso fra la Cordigliera delle Ande e la
Patagonia, fino alla Terra del Fuoco), e presenta una testa piccola,
orecchie erette e appuntite, un collo lungo e incurvato e zampe lunghe e
sottili; il manto è dato da pelo morbido; la figura seguente ne
ricostruisce l’aspetto:
Figura n.
(specie selvatica: Guanaco, Lama guanicoe).
Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 178.
Il lama (Lama glama, o Lama peruana) è una forma domesticata del guanaco, ed è diffuso
nelle regioni andine, dal Perù al Nord dell’Argentina; ha le orecchie con la punta rivolta
verso l’interno e la pelliccia di colore variabile; è usato come animale da
trasporto; la figura
seguente ne ricostruisce l’aspetto:
Figura n.
(specie domestica: Lama, Lama glama).
Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 178.
La vigogna
(Vicugna pacos), più piccola e dal
pelo più folto del lama, si trova esclusivamente in alta montagna, fra i 3 800
e i 5 000 m s.l.m., ed è diffusa nelle praterie alpine dall’Ecuador meridionale
al Cile settentrionale; è il più piccolo dei camelidi sudamericani e ha una
dentatura caratterizzata dalla crescita continua degli incisivi inferiori, e un
vello lungo da 4 a 10 cm, che ha il ruolo di proteggerlo dalle fredde
temperature andine; da ricordare che, mentre il cammello, il dromedario e il
lama presentano poi una struttura sociale con un maschio dominante che assicura
la coesione della mandria nel contesto d’un sistema di gerarchie di dominanza
in un’area familiare (home range),
senza essere spiccatamente territoriale, la vigogna vive in gruppi familiari
all’interno di territori socialmente isolati difesi dal maschio (core area, v. supra), area da cui i giovani maschi sono scacciati dal maschio
dominante non appena le madri smettono di proteggerli e in cui le giovani
femmine sono, prima delle nuove nascite, espulse da entrambi i genitori; l’alpaca
(Vicugna vicugna), inizialmente ritenuto
discendente del guanaco, è una forma semidomestica della vigogna, ed è stato
selezionato proprio per fornire lana d’alta qualità (presenta un manto con pelo
molto lungo e folto, spesso di colore marrone), e vive in Perù e in Bolivia; stando
ad alcuni studiosi non è poi una forma domestica della vigogna, ma una specie
indipendente (Lama pacos); la figura seguente ne ricostruisce
l’aspetto:
Figura n.
(specie domestica: Alpaca, Vicugna
vicugna). Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 139.
Da
ricordare, infine, che lo stomaco di tutti i Camelidi, specializzato per le
diete erbivore, possiede tre sole concamerazioni (rumine, reticolo e abomaso,
v. infra) invece delle quattro che si
riscontrano nell’apparato digerente dei Ruminanti, manca, infatti, l’omaso (v. infra) e il cieco (v. infra) si presenta corto e semplice;
oltre a questo, si formano nelle pareti del rumine delle cavità, dette celle
acquifere, dove s’accumula l’acqua tratta dagli alimenti; tutti i Camelidi,
ancora, presentano anche un apparato masticatorio diverso da quello dei
Ruminanti, una muscolatura degli arti posteriori diversa da quella degli
Ungulati in quanto le zampe s’inseriscono al tronco solo alla sommità della
coscia (quando, per esempio, in cavalli e bovini l’inserzione ha luogo a partire
dal ginocchio in su) e l’appoggio del piede non avviene sullo zoccolo, ma su un
ampio cuscinetto cutaneo che alloggia le ossa delle dita e, infine, il fatto
che le modificazioni anatomiche e fisiologiche che presentano rimandano alle
strategie di sopravvivenza in ostili ambienti desertici e d’alta quota.
La renna
selvatica (Rangifer tarandus) e
quella domestica (Rangifer tarandus
tarandus) non presentano grandi differenze osteologiche, per cui è
praticamente impossibile potere risalire dall’analisi delle ossa al momento
iniziale della domesticazione (permessa a seguito del fatto che sono animali
altamente gregari e non territoriali, v. infra),
pur essendo evidente nella Rangifer
tarandus tarandus una
domesticazione che presenta caratteristiche anomale rispetto alle altre;
infatti, le popolazioni artiche e subartiche che hanno in carico le mandrie
delle renne sono costrette al nomadismo (già a partire dal Paleolitico
superiore, come mostrano alcune evidenze archeologiche), cioè si devono
adattate agli spostamenti delle renne che, pur domesticate o semidomesticate, presentano
abitudini migratorie (in autunno e in primavera) verso le loro aree familiari (home range) invernali ed estive,
coprendo per questo anche enormi distanze alla ricerca di risorse trofiche
nella tundra, dopo il disgelo di primavera, quali erbe, muschi, germogli, licheni
(v. Cladonia rangiferina, supra), e, nella taiga, alla ricerca di cortecce
di betulle o salici in autunno; le renne si cibano inoltre, quando riescono a
catturarli, dei lemming (Lemmus lemmus), cioè di piccoli roditori
lunghi ca. 15 cm, e, per ricostituire i sali minerali, vanno anche alla ricerca
dell’urina degli animali (uomo compreso, v. infra);
nella regione circumpolare sono poi presenti, in linea di massima, due sottospecie,
la renna propriamente detta (Rangifer
tarandus tarandus) diffusa nelle zone artiche e subartiche dell’Eurasia e
in cui gli animali resi domestici si mescolano con quelli selvatici o
semiselvatici, e il caribù (Rangifer
tarandus caribou, da alcuni ritenuto una specie, Rangifer caribou), diffuso nelle zone artiche e subartiche del
continente americano, allo stato selvatico (e si suppone non sia mai stato
domesticato); la Rangifer tarandus
tarandus, l’unica a essere domesticata, è alta all’incirca 1 m alla spalla,
lunga 1,80 m ca., e presenta un mantello folto (la muta avviene due volte
l’anno) e, caso unico fra i Cervidi, i palchi sono presenti in entrambi i
sessi, sebbene più forti e lunghi nel maschio (al confronto, il caribù presenta corna più
brevi, ma più pesanti, oltre che una corporatura più robusta, là dove l’altezza
al garrese è ca. 1,40 m e la lunghezza 2-2,20 m); per inciso, le femmine
perdono i palchi poco prima di figliare e i maschi dopo la stagione riproduttiva
(i palchi cadono e ricrescono annualmente a seguito di variazioni ormonali a
partire da brevi ossa frontali e rappresentano il tessuto animale a più rapida
crescita conosciuto); da ricordare che la renna, come i camelidi e l’asino, s’è
adattata a condizioni ambientali estreme, nello specifico a temperature di –
50°C, e in ambienti dove venti estremamente forti e bufere nevose sono presenti
quasi quotidianamente per 9 mesi all’anno (il manto della renna è poi
costituito da peli ruvidi molto fitti con il fusto cavo per favorire l’isolamento
termico e il naso è coperto da un pelo fitto e lungo che le consente di
pascolare nella neve e, oltre a ciò, comportamento, anatomia e fisiologia sono
adattate agli ambienti estremi, cioè finalizzate all’economia e alla
conservazione delle risorse individuali al fine della sopravvivenza in ambienti
ostili).
Lo Yak selvatico (Bos mutus, classificato anche come Poëphagus mutus, detto mutus,
muto, perché non emette muggiti, ma suoni bassi e gutturali durante la stagione
riproduttiva), è affine all’estinto uro e ha il suo areale di diffusione sugli
altopiani steppici della Mongolia, dell’Himalaya e del Tibet, e intraprende
spostamenti spaziali e altitudinali di notevole entità (da 4 000 m fino a 6 000
m e oltre d’altezza) alla ricerca dei pascoli stagionali reperiti nella tundra
alpina, nella praterie e nella steppa desertica, là dove le risorse trofiche variano
poi per tipologia (la base della dieta presenta erbe e càrici); infatti, nonostante
la forma imponente e tozza (con una gobba sul dorso all’altezza delle spalle),
lo Yak è un abile arrampicatore, adattato ai
climi rigidi, con
arti robusti,
zoccoli larghi anche molto divaricati al fine di potersi adattare alla vita in
zone paludose, e con
un vello di
colore scuro (una specie di marrone tendente al nero), folto e lungo
particolarmente nella parte anteriore del collo (la giogaia), sulle zampe, ai
lati del tronco e nella coda, cui s’aggiunge un sottopelo lanuginoso che cresce
prima dell'inizio dell'inverno come protezione aggiuntiva, un apparato pilifero
che gli permette di sopportare anche basse temperature che possono arrivare anche
a -40 °C; lo Yak presenta, inoltre, date
le altitudini frequentare, il clima freddo e l’aria rarefatta, un adattamento
che si traduce in un cuore e in polmoni più grandi, in un numero elevato di
globuli rossi e in una più alta concentrazione d’emoglobina, il tutto per
permettere una maggiore capacità per il trasporto dell’ossigeno; la specie è
poi caratterizzata da dimorfismo sessuale e i maschi possono superare i 2 m
d’altezza al garrese, i 3 m di lunghezza e pesare fino a 1 t; a causa della
predazione antropica lo Yak selvatico
ha ristretto il suo areale originario ed è attualmente. considerato una specie
in pericolo d’estinzione. Lo Yak
domestico (Bos grunniens, alla
lettera, bue che grugnisce) differisce di poco dal suo progenitore selvatico, e
variano soprattutto le dimensioni, che sono più ridotte e che nei maschi possono però raggiungere
quasi 2 m d’altezza al garrese, e per un peso che può raggiungere i 7 q e oltre;
variano, inoltre, le corna, che sono meno lunghe e massicce (ma le forme
domesticate possono anche essere acorni), il colore del mantello, che può
essere anche pezzato, e le zampe più corte, ed è probabilmente già domesticato
all’altezza del I millennio a.C. presso le popolazioni tibetane presenti nell’altopiano
del Pamir orientale o nella catena montuosa del Kuen-lun; allevato all’altezza
dei 2 000 m, è in grado di soddisfare praticamente tutti i bisogni basilari
delle popolazioni nomadi essendo un animale da soma (per esempio, può sopportare il trasporto di
carichi, fino a 150 kg, sulle lunghe distanze per due o tre giorni senza acqua
o alimentazione), da sella, da latte, da carne, da pelo, da cuoio etc., insomma un animale di cui nessuna
parte va sprecata, tanto che s’utilizza persino
lo sterco che, essiccato in tavolette, è utilizzato come combustibile
naturale; la figura seguente ricostruisce poi l’aspetto dello Yak domestico:
Figura n.
(specie domestica: Yak, Bos grunniens). Fonte: Clutton-Brock,
2001, p. 139.
Il banteng (Bos sondaicus, v. supra)
e il gaur (Bos gaurus, tra i più grandi bovidi selvatici), sono specie tra
loro affini che si trovano nelle giungle del Sud-Est asiatico; il banteng presenta il suo areale
originario di diffusione in Malesia e nelle isole indonesiane (Sumatra, Borneo,
Giava) e, oggi, lo si ritrova a Giava, in riserve protette in quanto è ritenuto
in via d’estinzione a causa della predazione antropica; è caratterizzato da un’altezza,
al garrese, che sfiora i 2 m, da una lunghezza che raggiunge i 2 m, per un
peso che va da 500 a 900 kg (la sua
dieta base è data da erbe e da germogli di bambù) e da lunghe corna, da un mantello corto,
lucido, di colore bruno scuro uniforme e da zampe, dal ginocchio in giù, che
presentano macchie bianche (la specie presenta dimorfismo sessuale); il banteng domestico (Bos javanicus) sopravvive solo nelle isole della Piccola Sonda (Bali
e Lombok) e non si dispone di nessuna evidenza storica o archeologica che possa
illustrare il processo della sua domesticazione; la figura seguente
ricostruisce l’aspetto del Bos sondaicus:
Figura n.
(specie selvatica: Banteng, Bos sondaicus). Fonte: Clutton-Brock,
2001, p. 139.
Il gaur è originario delle dense formazioni
forestali che s’estendono dall’India meridionale e dal Nepal fino alla Malesia;
la specie presenta dimorfismo sessuale e il gaur
può raggiungere una lunghezza di 3 m e oltre, un’altezza, al garrese, di più di
2 m e un peso che nei maschi può arrivare a 1,5 t (la sua dieta base
è data da erba e da
germogli di bambù), ed è ritenuto il più grande di tutti i Bovidi selvatici
attualmente viventi; possiede corna molto robuste e un mantello da bruno a
rossiccio o tendente al nero, con zampe bianche alle estremità (i maschi adulti
si caratterizzano poi per una giogaia bipartita sul collo e sulla gola e da un’accentuata
gibbosità al garrese, presente anche nel banteng e che non è un accumulo di
grasso come nello zebù, ma una cresta che si forma sulle lunghissime apofisi
spinose delle vertebre toraciche); anche il gaur,
come il banteng, è ritenuto in via
d’estinzione a causa della predazione antropica; la figura seguente ne
ricostruisce l’aspetto:
Figura n.
(specie selvatica, Gaur, Bos gaurus). Fonte: Clutton-Brock, 2001,
p. 197.
Il mithan o gayal (Bos frontalis) è
un brucatore di foresta distribuito tra i 600 e i 1 500 m d’altitudine, e
differisce dalla forma selvatica del gaur,
da cui probabilmente deriva, soprattutto nelle dimensioni, più ridotte, nel
carattere più docile e nella diversa conformazione delle corna, meno incurvate
e più lunghe e dalle zampe più corte (da alcuni studiosi è considerato come una
specie a parte); è una forma semidomestica del gaur in quanto è lasciato vagare, durante il giorno, liberamente alla
ricerca di risorse trofiche, mentre la sera ritorna nei villaggi (è allevato in
regioni dell’India, della Birmania e della Cina); come per il Bos javanicus non è disponibile nessuna
evidenza archeologica sull’origine della sua domesticazione, anche si pensa che
abbia avuto corso nella civiltà sviluppata nella valle dell’Indo all’altezza di
2 500 anni fa, si suppone per la loro bramosia di sale che ne ha inizialmente
permesso l’avvicinamento allo stato brado e, successivamente, a incoraggiarli e
a persuaderli a rimanere nei pressi dei villaggi; la figura seguente ne
ricostruisce l’aspetto:
Figura n.
(specie domestica, Mithan, o Gayal, Bos frontalis). Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 197.
Mostrate le
caratteristiche di massima degli animali selvatici che sono stati domesticati,
ora si presentano le caratteristiche che devono essere presenti affinché un
processo di domesticazione di queste pecie possa attuarsi; in linea di massima si
può dire che un animale selvatico, per potere essere domesticato, deve essere
in possesso d’un pacchetto di comportamenti estremamente preciso (come mostrano
i 134 fallimenti), in mancanza del quale l’esito sarà sempre negativo; i
fattori che possono impedire la domesticazione sono vari, tra questi si segnala
il fatto che la riproduzione in cattività richiede che i rituali codificati di
corteggiamento propri alla specie siano possibili nell’area di stabulazione
all’aperto e per molti animali questo non è possibile date le necessità imposte
dall’investimento sessuale, dall’aggressività dei maschi nella competizione intrasessuale,
dalla recettività delle femmine e per le caratteristiche dell’isolamento
riproduttivo prima della copula (e, per certi animali, questo è vero anche se
non vivono isolati, ma in branco); ad esempio, le vigogne (v. supra), per i loro lunghi e elaborati
corteggiamenti, difficilmente sono domesticabili per cui, per tosarle, bisogna
obbligarle ad una stabulazione temporanea e, dopo la tosatura, rilasciare loro
la libertà; ancora, data la progenie, un animale domestico deve crescere in
fretta, pena un dispendio diseconomico; infatti, un erbivoro come l’elefante (Elephas), per esempio, richiede ca. 15
anni per diventare adulto, ed è per questo che gli elefanti sono catturati
adulti e ammaestrati di volta in volta (sono cioè addomesticati, ma non domesticati).
Per non parlare del fatto che certi animali che vivono in branco, per esempio le
renne (v. supra) e le gazzelle, non
possono essere indirizzati durante il loro percorso migratorio, come può fare
l’uomo per la capra o la pecora; oppure può capitare che molti animali
manifestino comportamenti imprevedibili o aggressivi nei confronti dell’uomo;
l’onagro persiano (Equus hemionus onager,
v. supra), per esempio, un animale
apparentemente domesticabile in quanto sottospecie dell’asino selvatico
asiatico (Equus hemionus), si
dimostra, se domesticato, incontrollabile, irascibile, pronto a non abbandonare
mai la presa se riesce a mordere chi l’avvicina, ciò che produce gravi ferite;
in più, se ridotto in cattività, morde con ferocia anche le femmine compromettendo
così di fatto le sue possibilità riproduttive; segue, in figura, la ricostruzione
dell’aspetto dell’onagro:
Figura n. .
Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 141.
Oppure che,
se gregari, abbiano caratteristiche di socialità sgradite alla cultura degli allevatori;
per esempio, il licàone (o licaòne, Lycaon
pictus), è un Canide che si
sposta per lunghi tratti in un’ampia gamma di habitat a Sud e a Est del Sahara ed è anche un ipercarnivoro che
vive e caccia in branco, un carnivoro altamente altruista, tanto da possedere
uno stomaco sociale; infatti, il suo comportamento sociale è incentrato sui
piccoli (che sono partoriti nello stesso periodo e allevati collettivamente) ed
è dettato dal fatto che il cibo cacciato è in parte destinato alla loro sopravvivenza
e a tal fine è loro rigurgitato in bocca, così come l’offerta di cibo rigurgitato è anche per chi,
durante la caccia alla preda, di solito antilopi, è stato escluso dal pasto
(madri, feriti o altri), dunque non un comportamento fondato sulla
comunicazione mediante l’espressione facciale o la postura (come avviene in
altri Canidi tra di loro e nei confronti dell’uomo), ma un comportamento
dettato dalla condivisione con tutti del cibo predato, abbondante o meno che
sia, appunto lo stomaco sociale di cui sopra; tanto che l’uomo, per disgusto
nei confronti di questa pratica, non vuole domesticarlo, anche se questa
domesticazione sarebbe fattibile nel caso accettasse la modalità comunicativa di
ricevere in bocca il cibo rigurgitato del licaone al pari degli altri membri
del branco; segue, in figura, la ricostruzione del suo aspetto:
Figura n. (Lycaon pictus).
Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 68.
Altri
animali, ancora, pur essendo gregari, non si lasciano raggruppare (imbrancare)
e scappano al primo cenno di pericolo e, se posti in cattività, muoiono di
paura o nel tentativo di saltare di là dal recinto; la gazzella dorcade (Gazella dorcas), per esempio, di fronte
a un predatore, scappa subito ad una velocità che può raggiungere gli 80 km ca.
all’ora e presenta la capacità di superare ostacoli fino a 15 m d’altezza e, se
addomesticata nonostante le capacità di fuga, scatta in preda al panico contro
le recinzioni fino a procurarsi lesioni mortali; segue, in figura, la
ricostruzione dell’aspetto d’una gazzella dorcade:
Figura n.
(Gazzella dorcade, Gazella dorcas).
Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 31.
Escluse
queste caratteristiche che presentano impedimenti, il pacchetto della
domesticazione prevede poi che l’animale da ridurre in cattività debba essere
un erbivoro (o onnivoro, come il maiale), ma non un carnivoro; e il perché è
presto detto, dato che l’efficienza della massa del consumato (vegetali o
carne) si converte, come sopra detto, in quella del consumatore (animale
vegetariano o carnivoro) con una media del 10% ca., ci vogliono, ad esempio, 5
tonnellate di mais (Zea mays) per
avere un erbivoro di 500 chili e 50 tonnellate di vegetali, cioè 5000 chili di
carne, per avere un carnivoro di 500 chili; va da sé che, data la scala, nella
catena alimentare in cattività un carnivoro non è proficuo; ancora, l’animale
deve vivere in branco, cioè deve partecipare a una struttura di relazioni
sociali codificata (come dire che la dominanza deve essere stabilita attraverso
un ordine gerarchico o di rango), e non deve avere un comportamento rigidamente
territoriale (cioè deve condividere il territorio, o area familiare, del suo
branco con altri branchi, ossia tollerare la presenza di altri simili, a
differenza di quei branchi in cui i maschi, solitamente, difendono l’area familiare
dagli animali ritenuti intrusivi). Prendiamo, per esempio, i cavalli selvatici,
che presentano nella loro organizzazione sociale (non territoriale) un ordine
di dominanza in quanto vivono in branchi (o harem)
formati da uno stallone, da alcune giumente (fino a un massimo di sei) e dai
loro puledri e tra le giumente, una è dominante e le altre sono dominanti
ognuna con la giumenta che le segue in scala gerarchica; negli spostamenti, che
sono abitudinari e tendono a dar luogo a piste segnalate dagli escrementi (ciò
che ha facilitato la loro localizzazione a chi voleva domesticarli), il branco
presenta lo stallone in coda, la giumenta dominante in testa seguita dai
puledri in ordine di nascita, cui seguono le giumente in ordine di rango, a
loro volta accompagnate dai puledri a scalare (l’ultimo nato, lo si ripete, è
sempre il più vicino alla madre); in questa struttura sociale si può poi
inserire l’uomo che può rendere il branco domesticato (ciò che presuppone la
manipolazione delle relazioni sociali interbranco), infatti, in questo caso, i
cavalli seguono l’uomo che ha il rango di giumenta dominante, il tutto perché
in cattività i puledri, appena nati, lo riconoscono in modo irreversibile o
comunque durevole come tale, poiché la giumenta madre non è presente e anche se
di fatto l’uomo è un suo surrogato in movimento (è quello che si chiama
meccanismo dell’imprinting o Prägung; vale la pena sottolineare, a
questo proposito, che l’imprinting
comporta una soggezione attiva e emotiva dell’animale all’uomo, che si
manifesta con una specie di neotenia, come detto con il mantenimento, o
ritenzione, da adulto del comportamento giovanile e sottomesso del piccolo nei
confronti del genitore); ora, poiché i cavalli, anche domesticati, non hanno un
comportamento rigidamente territoriale, possono poi essere riuniti in branchi e
convivere ammassati nei recinti o nelle stalle, con la clausola che i cavalli
maschi (escluso quello o quelli per la riproduzione) siano castrati e, se non
castrati, tenuti almeno in stalle individuali; infatti, se è vero che il
cavallo segue un ordine di dominanza non territoriale ed è soggetto all’imprinting, non presenta però la
caratteristica d’un forte gregarismo in quanto, per esempio, un giovane
stallone allo stato brado (che rimanda alla seconda forma sociale dei cavalli
selvatici, che
è quella di
un branco di soli giovani maschi che esplorano vasti territori in modo
imprevedibile) cerca di portare via dagli altri branchi le giovani giumente e,
per convincerle, le morde e sferra loro calci, comportamento ch’è inibito s’è castrato o stabulato.
Lo stesso fenomeno, dalla logica delle relazioni sociali di dominanza
all’interno del branco alla Prägung e
ai recinti, si presenta, ad esempio, nelle capre, nelle pecore, nei bovini e
nelle renne che hanno anche il vantaggio di essere animali molto, ma molto più
gregari dei cavalli (quindi, in ogni caso, più facili da domesticare). La
figura seguente mostra come le renne, data la loro modalità di manifestare una
distanza di fuga (v. supra) ridotta, cioè
con la loro tolleranza a sopportare gli intrusi (siano uomini, cani o anche
lupi) e la gregarietà slegata dalla territorialità, siano facilmente
indirizzabili nella direzione desiderata semplicemente gridando, vale a dire
sfruttando la loro reazione alla paura, che consiste nello stringersi l’una
all’altra e nel seguire il leader del
gruppo (lo stesso vale per molti altri animali artiodattili domesticabili,
quali ruminanti e suini, anche se poi l’imbrancamento delle renne s’è poi
evoluto nella pratica di seguirle nelle loro migrazioni):
Figura n. .
Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 194.
La renna,
inoltre, oltre al sale da lambire offerto da mano umana, predilige, come detto,
anche l’urina degli animali e dell’uomo con i loro sali, di cui essa abbisogna
(e sono per lei insostituibili), ciò che, tra l’altro, nel caso dell’urina
umana, l’abitua all’odore dell’uomo e la spinge a seguirne le migrazioni; altri
animali, invece, facilitano poi l’allevamento poiché sono commensali, come la
capra e il montone che, di là dal pacchetto sopra citato, amano le graminacee,
colture degli agricoltori presso i quali s’avvicinano e che permettono agli
uomini l’alimentazione stabulare; altri animali, detti animali spazzini poiché
onnivori, si avvicinano agli uomini perché amano invece i suoi rifiuti, anche
carnei, come s’è visto sopra nel caso del lupo e come vale anche per il cinghiale
(l’uno legato alla storia evolutiva del Cane, v. supra; l’altro, come detto, precorritore del maiale; da
sottolineare, a questo proposito, che se i cinghiali adulti sono
particolarmente aggressivi, cioè territoriali per quanto riguarda il cibo e le
femmine, i lattonzoli, cioè i cinghiali poppanti, si lasciano al contrario
prontamente addomesticare, vivono in gruppo a stretto contatto, e s’abituano
facilmente allo stile di vita degli insediamenti antropici, ad esempio
adottando ritmi di veglia e sonno umani a causa del fatto che, mangiando
ininterrottamente rifiuti per molte ore, la notte dormono, a differenza del
cinghiale selvatico che ha abitudini crepuscolari e notturne; per non parlare poi
degli animali saprofagi (v. supra),
che mangiano la carne lasciata dall’uomo sulla carcassa della bestia uccisa e
che s’avvia alla decomposizione. Come visto, gli animali domesticati sono,
tranne il maiale (v. supra), il cane
(v. supra) e il gatto (v. supra), tutti erbivori e, tranne il
cavallo (v. infra), tutti ruminanti.
I ruminanti, infatti, presentano un apparato digerente adatto per assimilare
alimenti ad alto contenuto di cellulosa ed emicellulosa (erba, arbusti, fieno,
stoppie, paglia e foglie) grazie ai loro stomaci che sono divisi in quattro
cavità di fermentazione (concamerazioni) dove i batteri decompongono i
materiali fibrosi (in realtà si dovrebbe parlare di un pre-stomaco a tre
concamerazioni, o tratti specializzati dell’esofago, e di uno stomaco,
l’abomaso). Il processo di digestione avviene in due fasi: quando brucano
(ossia mangiano l’erba con la lingua), i ruminanti masticano in modo grossolano
i bocconi (la dentatura è anch’essa specializzata, con molari dalla struttura larga e piatta atta a
triturare le fibre di cellulosa) , tanto che il cibo mal triturato e insalivato
passa direttamente nella prima cavità, o rumine, dove inizia il processo di
fermentazione grazie alla flora batterica; dopo di che, in seguito a rigurgiti
e insalivazioni periodiche (un ruminante arriva a produrre fino a 60 l al
giorno di saliva), il contenuto del rumine ritorna per risucchiamento e
eruttazione nella bocca dell’animale sotto forma di bolo, bolo che viene
ulteriormente masticato, o ruminato, e poi inviato nelle altre cavità, reticolo
e omaso, dove subisce un ulteriore processo di fermentazione e, alla fine,
nell’abomaso dove avviene un vero e proprio processo di digestione grazie agli
acidi e agli enzimi; le figure che seguono mostrano il percorso del cibo del mammifero ruminante (le frecce orientate indicano il percorso
del cibo):
Figura n. . Fonte: Smolik, 1978, p. 132
Figura n. . Fonte: Cavalli-Sforza
e Cavalli-Sforza, 2010 a, p. 282.
Da notare è
poi il fatto che, nutrendosi i ruminanti di cellulosa ed emicellulosa, il loro
ciclo alimentare non è antagonista a quello dell’uomo. Ora, come sopra
evidenziato a proposito della sindrome da domesticazione, le modificazioni nel
processo di passaggio dallo stato primigenio (selezione naturale) a quello
domesticato (selezione artificiale) sono varie; infatti, dopo un lungo periodo
di incroci selettivi, nell’animale domesticato emergono alterazioni
morfologiche, essendo il corpo del mammifero una struttura plastica (pur nel
vincolo delle barriere genetiche) che subisce, ad esempio, uno squilibrio nella
velocità con cui le diverse parti dell’organismo crescono le une rispetto alle
altre tanto che l’individuo adulto domesticato presenta proporzioni anatomiche
diverse dalla controparte selvatica (e, data l’ipotesi della cresta neurale, v.
supra, si sospetta che questo dipenda dalle
variazioni ormonali indotte dalla dipendenza fisica ed emotiva all’uomo giacché,
rinselvatichito, un animale che era domestico e che riacquista le originarie
condizioni di relazione sociale intergruppo, cioè l’autosufficienza alimentare
e riproduttiva e l’imprinting non
manipolato, recupera cioè l’indipendenza fisica ed emotiva, riprende dopo un
certo tempo, per selezione naturale, sembianze simili a quelle del progenitore
selvatico). Se n’è già parlato sopra, e giova forse ripetere che tra le
modificazioni indotte dalla sindrome da domesticazione uno dei primi indizi
certi si ha con una riduzione della taglia corporea (tra le specie che sono diventate
più piccole si hanno, tra altre, buoi, maiali, pecore e capre; per esempio, le
ossa metacarpali delle capre, di cui s’è detto sopra, passano dai 140 mm del
Paleolitico ai 100 mm del Neolitico); valga, a illustrazione della riduzione
corporea, la figura seguente che mostra, in modo approssimativo, il passaggio
di taglia dall’uro (v. supra) al bue,
suo discendente domestico:
Figura n. .
Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 103.
Ancora, si
presentano un allungamento delle orecchie (con l’eccezione del cavallo), dei
nuovi tipi di code (quali la coda a cavatappi del maiale di cui s’è detto sopra,
v. figura n. , o la coda grassa in alcune pecore), la presenza di più pelo (con
la sparizione della spontanea muta estiva e una crescita continua di vello, per
esempio, il sottopelo lanoso nelle pecore), un aumento della deposizione di
grasso nel sottocute e nei fasci muscolari (come nel manzo e nel montone) o un
aumento generalizzato di grasso (come nei maiali e nelle pecore o negli animali
castrati, quale il bue), una riduzione delle dimensioni del cervello (quale,
per esempio, la diminuita capacità cranica della pecora), le variazioni nella
regione del cranio (come il diverso sviluppo delle corna di bovini, ovini o
caprini, v. figura n. , supra; per le
capre, v. infra), si presenta,
insomma, la sindrome da domesticazione; segue una figura che illustra la coda a
cavatappi del maiale:
Figura n. .
Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 51.
Molte
specie, poiché non devono più presentare comportamenti di distanza di fuga dai
predatori in quanto stabulate, presentano poi un’evoluzione degli organi legati
ai sensi molto meno sviluppata rispetto ai loro progenitori ancestrali; infine,
tra gli animali che sono stati domesticati, il cavallo è l’animale che ha
subito meno modificazioni dal punto di vista genetico, probabilmente perché,
almeno in fase di neolitizzazione assestata, non è rientrato tra gli animali
selezionati dagli uomini per la produzione carnea o lattea (in realtà, il
consumo di carne di cavallo ha subito delle oscillazioni; per esempio, nel
Paleolitico la sua carne, che se l’animale non è sottoposto a sforzo, è tenera
tanto nel puledro, quanto nell’individuo adulto, è molto apprezzata, tanto che
la pressione venatoria rischia di farlo scomparire essendo un metodo di caccia
anche quello di far precipitare mandrie di cavalli dai dirupi, e, almeno nelle
fasi iniziali della domesticazione, lo stesso apprezzamento riceve dai popoli
centro-europei e asiatici dediti alla pastorizia e dai popoli pre-cristiani
dell’Europa settentrionale). Detto questo, in linea di massima possiamo ora così
indicare, come mostra la tabella, le caratteristiche che deve presentare il
pacchetto dell’animale che può essere domesticato (non è compreso il tratto
dell’autodomesticazione, né il fatto che un animale allevato in condizione di
domesticazione, cioè isolato riproduttivamente dai suoi progenitori selvatici e
là dove la riproduzione naturale in ambiente antropico si lega a quella
artificiale, darà origine a una nuova specie):
PACCHETTO DELLA DOMESTICAZIONE
|
|
TRATTI DISTINTIVI
|
CARATTERISTICHE DI MASSIMA
|
ROBUSTEZZA
|
DEVE
POTERE SOPRAVVIVERE AL DISTACCO DELLA MADRE, PROBABILMENTE PRIMA DELLO
SVEZZAMENTO, E ADATTARSI A UN NUOVO AMBIENTE, A NUOVE CONDIZIONI DI
TEMPERATURA E D’UMIDITÀ; DEVE RESISTERE ALL’ATTACCO D’AGENTI INFETTIVI E DI
PARASSITI NUOVI PER LA SUA SPECIE
|
ALIMENTAZIONE
|
DEVE
PRESENTARE UNA DIETA FLESSIBILE PER QUANTO RIGUARDA LE ABITUDINI ALIMENTARI
|
CRESCITA
|
DEVE
PRESENTARE UN ACCETTABILE TASSO DI CRESCITA (A FRONTE DELLA DURATA D’UNA VITA
UMANA) AL FINE DI POTERE ESSERE UNA FONTE ALIMENTARE DISPONIBILE
|
RIPRODUZIONE
|
DEVE
POTERSI RIPRODURRE IN CATTIVITÀ, NON DEVE CIOÈ MANIFESTARE COMPORTAMENTI
INDIVIDUALISTI E COMPETITIVI NELLA STAGIONE DEGLI AMORI
|
GREGARIETÀ
|
LA SPECIE
CUI APPARTIENE DEVE PRESENTARE UNA STRUTTURA COMPORTAMENTALE AFFINE A QUELLA
UMANA, CIOÈ DEVE TRATTARSI D’UN ANIMALE SOCIALE IL CUI COMPORTAMENTO È
IMPERNIATO SU UNA GERARCHIA DI DOMINANZA, AL FINE DI POTERE ACCETTARE LA
FUNZIONE DI GUIDA (LEADERSHIP)
DELL’UOMO
|
PREVEDIBILITÀ
|
DEVE
PRESENTARE UN COMPORTAMENTO CHE SIA PREVEDIBILE
|
MANSUETUDINE
|
NON DEVE
ESSERE AGGRESSIVO NEI CONFRONTI DELL’UOMO
|
DISTANZA
DI FUGA
|
DEVE
PRESENTARE UNA BASSA DISTANZA DI FUGA
|
AMMASSAMENTO
|
LA FUGA
DEVE MANIFESTARE IL COINVOLGIMENTO DELL’INTERO BRANCO (GLI ANIMALI DEL BRANCO
DEVONO POTERE TOLLERARE LA RECIPROCA PRESENZA)
|
TERRITORIALITÀ
|
NON
DEVONO ESSERE RIGIDAMENTE TERRITORIALI, DEVONO CIOÈ AVERE PARTI DI TERRITORIO
SOVRAPPONIBILI E IN COMUNE CON ALTRI BRANCHI
|
Tabella n. . Fonte: Diamond, 1998, pp. 129-133; Clutton-Brock,
2001, pp. 14, 21-22.
Ancora, prima
di passare alla domesticazione delle piante, può essere forse utile ricordare
il rapporto ch’è intercorso, nell’arco temporale che va dal Paleolitico al
Neolitico, fra le comunità umane preistoriche e gli animali coinvolti in un
processo che sarà poi di domesticazione, come mostra la tabella seguente (dove sono
coinvolti solo gli ungulati) da leggersi con beneficio d’inventario:
STRATEGIE DI GESTIONE DEGLI UNGULATI
|
CARATTERISTICHE DI MASSIMA
|
PREDAZIONE
CASUALE [1]
|
È SVOLTA
UN’ATTIVITÀ DI PRELIEVO SECONDO LE ESIGENZE OCCASIONALI
|
PREDAZIONE
CONTROLLATA [2]
|
È
ESERCITATO UN CONTROLLO SULLA PREDAZIONE IN PERIODI STAGIONALI PARTICOLARI
|
ACCOMPAGNAMENTO
DEI BRANCHI [3]
|
GLI
SPOSTAMENTI DEL BRANCO SONO SEGUITI ESERCITANDO UNA FORMA DI CONTATTO
COSTANTE, AL PUNTO DI SVILUPPARE UN’ASSOCIAZIONE CON UNA PRECISA POPOLAZIONE
ANIMALE
|
CONTROLLO
A DISTANZA
|
IL
CONTROLLO DIRETTO SUGLI ANIMALI È ESERCITATO SOLO IN ALCUNI PERIODI
DELL’ANNO, IN PRIMAVERA ED AUTUNNO, QUANDO LO SPOSTAMENTO DEL BRANCO È
PILOTATO DA CONTROLLORI AL FINE D’ASSICURARE IL COMPLETO TRASFERIMENTO DEL
BRANCO CUI UN DETERMINATO GRUPPO UMANO S’È ASSOCIATO
|
CONTROLLO
RAVVICINATO [4]
|
IL
CONTROLLO DIRETTO SUGLI ANIMALI È ESERCITATO DURANTE TUTTO L’ANNO, A CONTATTO
COSTANTE CON IL BRANCO, NON ESCLUDENDO L’IMPIEGO DI RECINZIONI
|
ALLEVAMENTO
STABULARE [5]
|
L’ANIMALE
È MANTENUTO IN CONDIZIONI D’IMMOBILITÀ IN UN AMBIENTE ANTROPICO PER L’INTERO
CORSO DELLA SUA ESISTENZA DOVE’È ALIMENTATO E DIFESO DAI PREDATORI
|
[1] In questo caso interessa l’animale
morto come risorsa trofica, ciò che manifesta un atteggiamento
di
predazione non razionalizzata delle risorse naturali giacché, in condizioni
tecnologiche più evolute
(che si
presentano alla fine del Pleistocene), sono solitamente uccisi molti più
animali di quanti
ne
occorrano per sopravvivere, com’è accaduto alla fine dell’ultima glaciazione (overkill).
[2] A partire da questo tipo di
controllo s’incomincia lentamente a introdurre il calcolo razionale nella
gestione degli
animali come risorsa trofica, ciò che sposta l’interesse dall’animale morto a
quello vivo,
nello specifico
a ciò che assicura e mantiene una riserva trofica che si ritroverà nella prole
dell’animale
controllato.
[3] In questo contesto, i cacciatori
adattano il loro comportamento a quello delle prede, secondo processi
biologici
intrinseci tra predatore e preda, ciò che dà poi vita a sistemi culturali
specializzati nella caccia
di
particolari prede.
[4] Nel caso dell’uso di recinzioni,
si parla di stabulazione libera. In questo contesto, invece di modellare
il proprio comportamento
su quello della preda, l’uomo impara a manipolare e a rendere più mansueto il
comportamento
d’alcuni animali con cui si riesce a comunicare socialmente, ed è probabilmente
a partire
da questa
fase che s’iniziano ad elaborare i concetti economici legati al valore
attribuito all’animale, cioè
l’operatività
permessa da nozioni quali possesso/eredità/scambio/acquisto.
[5] In questo caso si parla di stabulazione
fissa. Di qui, attraverso un isolamento riproduttivo permesso
dalle
barriere antropiche, s’arriverà poi all’odierna detenzione utilitaristica
dell’animale non più come
sola
risorsa trofica, bensì come risorsa economica in senso stretto, cioè come
predazione non razionale
delle risorse
naturali.
Tabella
n. . Fonte (modificata): Masseti, 2008,
pp. 185-186, p. 270.
In questo
processo che porterà degli animali a essere domesticati, e che la tabella
appena vista propone per quadri di sviluppo, è poi importante sottolineare che,
se il tentativo di domesticare le piante (cioè d’isolare delle varianti
genetiche che si dimostrino portatrici dei tratti desiderati, v. infra), è stato antropicamente
perseguito nel corso del tempo in maniera più decisa, o relativamente più
decisa, con pratiche di selezione artificiale, nel caso degli animali la
selezione naturale nel processo di domesticazione è stata predominante, e di
molto, rispetto alla selezione artificiale (come del resto s’è visto nei casi
sopracitati dove s’è parlato d’autodomesticazione); tanto ch’è sempre bene insinuare
che, nelle strategie di gestione degli ungulati riportate in tabella, né
l’allevamento intenzionale né l’isolamento genetico (ossia la selezione
artificiale), sono stati in un arco diacronico di lunga durata un fattore precipuamente
importante essendo, per esempio, l’allevamento degli esemplari femminili legato
ad una consapevolezza che s’è presentata tardivamente, ed essendo poi quest’allevamento
diventato consapevole strettamente legato, a sua volta, alle possibilità umane
di controllo, possibilità che sono inizialmente costrette ad essere esercitate
al massimo su degli esemplari maschili in surplus,
cioè delle possibilità ridotte alla sola pratica della castrazione (ciò che
richiede anche l’evolversi d’una competenza), là dove poi la maggioranza degli
esemplari femminili, e per tempo lungo, non è stata geneticamente isolabile,
vale a dire ch’è stata passibile d’incroci con esemplari maschi non domestici,
selvatici, cosa che del resto mostra anche la presenza d’un flusso di geni a
lungo termine prodotto dall’ibridazione continuata fra gli animali selvatici e
quelli in fase di domesticazione che si ritrova in seguito nell’analisi del DNA
delle femmine domesticate, per esempio, di caprini, ovini, suini, asini, bovini
e camelidi. Può essere utile, ancora, illustrare in sequenza ipotetica e per
sommi capi (e con beneficio d’inventario) il processo biologico di
domesticazione, come mostra la tabella seguente:
PROCESSO BIOLOGICO DI DOMESTICAZIONE
|
|
TRATTI DISTINTIVI
|
CARATTERISTICHE DI MASSIMA
|
ISOLAMENTO
|
UN
PICCOLO GRUPPO D’ANIMALI RIDUCE LA DISTANZA DI FUGA E PUÒ ESSERE ISOLATO
|
AMBIENTE
ANTROPICO
|
INIZIANDO
A VIVERE IN AMBIENTE ANTROPICO, CIOÈ
IN STRETTO E CONTROLLATO ISOLAMENTO DAI CONSIMILI SELVATICI, LA
SELEZIONE NATURALE DEL GRUPPO OPERA IN UN NUOVO REGIME RIPRODUTTIVO
|
COLLO DI
BOTTIGLIA E FORMAZIONE DEL GRUPPO FONDATORE
|
QUANDO
UNA SPECIE È RIDOTTA IN MODO DRASTICO DI NUMERO PER UN EVENTO CHE NON È
DOVUTO ALLA SELEZIONE NATURALE, MA, COME IN QUESTO CASO, ALLA SELEZIONE
ANTROPICA, SI FORMA UN GRUPPO FONDATORE CHE PRESENTA UN POOL GENICO CASUALE IN QUANTO IL GRUPPO NON INCORPORA TUTTA LA
VARIABILITÀ GENETICA DELLA SPECIE
|
EFFETTO
DEL FONDATORE
|
I
CAMBIAMENTI CHE SI PRESENTANO SONO ORA LEGATI AI GENI E ALLE FREQUENZE
ALLELICHE PRESENTI IN QUESTO GRUPPO FONDATORE, CIOÈ ALLA PICCOLA PORZIONE
CASUALE, STOCASTICA, DI VARIAZIONE DI CUI IL GRUPPO FONDATORE È PORTATORE E
CHE IL NUOVO REGIME RIPRODUTTIVO PERMETTE E MANIFESTA
|
SPECIAZIONE
|
NE SEGUE
UNA DERIVA GENETICA PIÙ DRASTICA DI QUELLA PRESENTE NORMALMENTE (NELLA QUALE
LA FREQUENZA DEGLI ALLELI CAMBIA CON RELATIVA LENTEZZA) POICHÉ LA
RIORGANIZZAZIONE GENETICA IN ISOLAMENTO ANTROPICO PERMETTE MUTAMENTI
EVOLUTIVI MOLTO PIÙ RAPIDI, CIOÈ LA FORMAZIONE D’UNA NUOVA SPECIE [1]
|
[1] Si tratta d’una popolazione
d’individui interfecondi geneticamente isolati da barriere antropiche.
Tabella
n. . Fonte (modificata): Clutton-Brock,
2001, pp. 46-47.
Da
ricordare, infine, che nelle società pastorali e agricole, data la stretta
convivenza tra uomini e animali, questi ultimi presentano anche l’inedito
fenomeno della zoonosi (a antropozoonosi), cioè possono essere agenti patogeni
in quanto trasmettono malattie, a volte anche letali all’uomo (per esempio, Sus domesticus è il principale ospite
intermedio di parassiti del sistema gastrointestinale umano, come il verme
solitario o tenia armata, o i bovini domestici lo sono per la tenia inerme etc.; ma su questa questione, v. infra).
Nessun commento:
Posta un commento