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Dalle società di caccia e raccolta alla domesticazione degli animali


LE SOCIETÀ DI CACCIA-RACCOLTA
IL MESOLITICO
IL NEOLITICO, 1
LA MEZZALUNA FERTILE
IL PROTO-ALLEVAMENTO E LA PROTO-AGRICOLTURA NELLA MEZZALUNA FERTILE
L’EVOLUZIONE DEI PROTO-VILLAGGI AGRICOLI NEL VICINO ORIENTE
IL TELL DI JERICHO
LA DOMESTICAZIONE DEL CANE E DEL GATTO
UOMO E AUTODOMESTICAZIONE
SINDROME DA DOMESTICAZIONE
LA DOMESTICAZIONE DEGLI ANIMALI


IL PALEOLITICO

LE SOCIETÀ DI CACCIA-RACCOLTA

Le bande di cacciatori-raccoglitori (di solito tra dieci e venti individui) che vivono secondo le modalità proprie a una società di caccia-raccolta, sono nomadi, ossia si spostano periodicamente seguendo le modalità con cui si presentano le risorse trofiche costanti (fauna e flora selvatica) dell’habitat in cui vivono. Il territorio è poi sfruttato grazie al possesso di un pacchetto mesolitico che ha fissato diacronicamente le conoscenze, altamente specializzate, sul valore alimentare, sulla distribuzione e sull’utilizzo dell’intero complesso dei vegetali e degli animali e sulle tecnologie adatte a quell’ambiente specifico (e che ogni appartenente al gruppo deve conoscere, pena la morte, essendo non sempre data la suddivisione dei compiti), e questo sfruttamento si manifestata entro un ciclo temporale grossomodo stagionale. Ognuno di questi gruppi sfrutta il territorio in modo che, è importante sottolinearlo, non travalichi la zona che è occupata da un altro gruppo (il che sottolinea il fatto che la densità di un gruppo deve essere, ed è, sempre in equilibrio con le possibilità alimentari che ha a disposizione, deve cioè rispettare le capacità di portata del territorio). Nel caso si presenti un esubero di risorse non date come costanti, ma periodiche (ad esempio, un’abbondanza carnea dovuta a una più fortunata battuta di caccia), nella zona di confine tra due o più gruppi, si può assistere allora a uno scambio che è la precondizione che determina poi la possibilità di una rete di relazioni e legami sociali in un più ampio dispositivo di raggruppamento degli individui di vari gruppi, tanto che ogni gruppo può diventare specialista nei confronti dei gruppi vicini. Facendo un esempio teorico, un gruppo che vive in un micro-habitat che favorisce periodicamente le graminacee spontanee può diventare, con la raccolta, fornitore di convertitori biologici vegetali in cambio di quelli animali, questo se l’altro gruppo vive in un micro-habitat che vede la presenza periodica di flussi di pecore selvatiche che diventano selvaggina, tanto che i due gruppi, per sopravvivere, abiteranno in simbiosi territori contigui; normalizzando così, sempre per continuare l’esempio, i rapporti con lo scambio di prodotti e di donne (esogamia), creando cioè un dispositivo di raggruppamento d’individui ch’è squisitamente economico e sociale e che coesiste con pacchetti tecnologici e conoscitivi adatti a quell’ambiente e non a un altro e che questo dispositivo lo determinano, vale a dire sfruttando la giusta quantità di lavoro e di risorse e creando una rete fissa di scambi coerente con le necessità riproduttive che l’ambiente permette. Cementando così, nel detto dispositivo, l’aspetto sociale egualitario (la rete fissa) con l’aspetto economico (gli scambi e il versante nutrizionale), il tutto nel rispetto del dato ambientale, in coerenza con il pacchetto tecnologico vigente e con l’aspetto biologico (le necessità riproduttive permesse). Insomma, e senza idealizzare più di tanto le società di caccia e raccolta dove, se l’ecosistema è equilibrato, queste possono ricorrere a riserve di cibo disponibili in natura, a uno stile di vita che non porterà, come avviene nel passaggio dalla caccia e dalla raccolta all’agricoltura (v. infra) e come mostra l’insieme della documentazione archeologica ed etnografica oggi disponibile, alla necessità d’un surplus di lavoro, a un peggioramento delle condizioni nutrizionali, a malattie e a incrementi demografici non sostenibili, a una collettività dove domineranno le disuguaglianze economiche e sociali, lo sfruttamento e delle risorse e degli uomini nell’ottica d’uno stravolgimento degli equilibri dell’ambiente che porterà a un suicidio ecologico che data a partire dal Mesolitico.

IL MESOLITICO

Nel Quaternario s’è visto che, tra la fine del Pleistocene e l’avvio dell’Olocene, s’assiste a una deglaciazione (all’altezza del 10 000 a.C.) e al progressivo affermarsi di un regime climatico post-glaciale, che si conferma nel Mesolitico e che sostituisce il clima preesistente con quello temperato, ossia con il caldo e l’umido che permettono l’avanzata della flora e della fauna verso il Nord Europa. Sui territori liberati dai ghiacci, infatti, comincia ad avanzare l’abete rosso (Picea excelsa) e si presenta il fenomeno di un allungamento del periodo di esposizione della vegetazione ai flussi solari. L’abete rosso incalzato dalla quercia (Quercus) e dal frassino (Fraxinus), migra verso Nord fino al limite degli alberi (o timberline, v. supra), oltre la quale frontiera ci sono la vegetazione della tundra (caratterizzata, come detto, dall’assenza di formazioni vegetali arboree) e i ghiacciai perenni. Insomma, e lo si ripete, si viene praticamente a formare, alla latitudine più a Nord dopo la tundra, un bioma di aghifoglie (Gimnosperme) detto taiga (v. supra), seguito, nelle zone temperate, dalle foreste di latifoglie (Angiospermae) e con uno strato di sottobosco ben sviluppato, appunto il bioma classificato come foresta temperata (v. supra) che è quello maggiormente trafficato dall’uomo nel Mesolitico. Nella tundra, prima della deglaciazione, vive un insieme di animali, detto Megafauna (v. supra), che è dato dal gruppo di animali che s’è adattato a condizioni di freddo estremo, quali il Mammuth (Mammuthus), il Rinoceronte lanoso (Coelodonta antiquitatis), il grande Orso delle caverne (Ursus spelaeus), l’Alce gigante (Megaloceros giganteus, con corna palmate fino a 5 m d’ampiezza) etc., resta però che con lo scioglimento dei ghiacci questa Megafauna si rarefà, tanto che si stima che la densità degli animali si sia ridotta del 99%, una vera e propria estinzione di massa (v. supra). La tabella seguente mostra l’estinzione dei Mammiferi superiori a 40 kg nel Paleartico occidentale nel Tardo Pleistocene (tra 35 000 e 10 000 anni fa ca.):

SPECIE
MEDIA DI PESO STIMATA IN kg
SOPRAVVIVENZE POSTGLACIALI AL DI FUORI DEL PALEARTICO OCCIDENTALE [1]
ORSO DELLE CAVERNE
   500
NO
IENA MACCHIATA (CROCUTA CROCUTA)
     85
[2]
ELEFANTE LANOSO
5 000
ELEFANTE DELLE FORESTE
9 000
NO
RINOCERONTE DELLE STEPPE (STEPHANORINUS HEMITOECHUS)
1 600
NO
RINOCERONTE LANOSO
2 900
NO
IPPOPOTAMO
2 500
[2]
MEGALOCERO GIGANTE
   700
NO
BISONTE DELLE STEPPE
1 000
NO

[1] Esclude la Groenlandia a Nord e arriva, a Sud, fino al Sahara settentrionale e a parte della Penisola arabica settentrionale; a Occidente include tutte le isole dell’Oceano Atlantico Nordorientale fino a Capo Verde e a Oriente il confine coincide con quello orientale della Russia europea e del Mar Caspio fino a comprendere l’Iran
[2] Sopravvive nell’Africa subsahariana.

Tabella n.  .  Fonte (modificata): Masseti, 2008, p. 22.

La causa di questa rarefazione è reperibile nel ritiro alle latitudini artiche della tundra, ossia dalla scomparsa della base alimentare di questi animali di grossa taglia, ma probabile causa concomitante la si ritrova nelle stragi ecologicamente disequilibrate dovute alla eccessiva pressione venatoria (overkill) dei predatori favorita anche dal climax delle tecnologie venatorie (tipo di predazione, per inciso, che non è avvenuta solo in Europa, ma anche nelle Americhe e in Australia, cioè ovunque dove Homo sapiens è arrivato, v. supra).  Questi animali, inoltre, non possono vivere nelle foreste che prendono il posto della tundra alle latitudini meridionali europee, come dire che per ragioni biologiche è impossibile il loro adattamento alle condizioni climatiche proprie all’Olocene nella sua fase iniziale, cioè al surriscaldamento e alla comparsa di climi caldi e, soprattutto, umidi. Ora, di questi animali di grossa taglia sopravvivono, se pure drasticamente ridotti di numero, bovini e cavalli e pochi altri. Pertanto la diffusione di un’economia di caccia-raccolta, che precedentemente si indirizzava alla megafauna, in quanto ora l’ecosistema non è più equilibrato come il precedente, è adattativa con il nuovo habitat forestale; è sì come prima predatoria e parassitaria, auto-sufficiente, solo che ora il nomadismo dei cacciatori-raccoglitori si manifesta entro un’area geografica in cui la distribuzione delle specie selvatiche di vegetali e d’animali s’è allargata, si presenta cioè con un areale forestale che disloca le sue risorse in un largo spettro di possibilità alimentari. Differente, dunque, rispetto all’area di caccia e raccolta dell’ultima fase del Paleolitico (caccia generalizzata) a causa, lo si ripete, della scomparsa dei branchi di animali di grossa taglia che obbligano all’intensificazione e della raccolta vegetale (radici, tuberi, bacche, frutti, semi, con prime interferenze sul ciclo di vita delle piante per aumentarne la produttività) e all’alimentazione carnea di selvaggina di piccola taglia (micro-mammiferi) tipica delle foreste o di pesca d’acqua dolce o salata o con l’uccellagione; da sottolineare che lo spostamento (eventuale) degli uomini al seguito delle mandrie si fa poi specializzato e si manifesta con i prodromi di un’alimentazione carnea di riserva, ossia con l’incubazione di quella che sarà una gestione delle mandrie pari al controllo della riproduzione con la pastorizia e l’allevamento. Vale a dire, insomma, che con la deglaciazione si manifesta una riconversione coatta verso un regime alimentare che sarà poi foriero di nuovi, ma degradati, standard nutritivi e di novità tecnologiche (v. infra).
Per avere invece un’idea complessiva dell’alimentazione carnea delle bande di cacciatori-raccoglitori riferita alle cronologie culturali del Paleolitico e del Mesolitico, valga il grafico seguente che mostra i risultati di un’indagine sui diversi resti osteologici di animali mangiati (in percentuale) restituiti da 165 siti archeologici europei del tardo Paleolitico e del Mesolitico, dai quali risulta che la frequenza dei resti d’alcuni carnivori di piccole e medie dimensioni può a volte rivelarsi superiore a quella di specie apparentemente più attraenti sotto il profilo venatorio e alimentare quali, per esempio, l’alce, Alces alces, il camoscio, Rupicapra rupicapra, il bisonte europeo, Bison bonasus e la renna, Rangifer tarandus:


Figura n. . Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 25 (il Cervo nobile, o cervo reale, è il Cervus elaphus; tra i Mustelidi si trovano lontre, tassi, donnole, martore etc.; tra i Lagomorfi la lepre e il coniglio).

Da sottolineare è poi anche il fatto che il nuovo regime economico di caccia e raccolta presente nell’Europa mostra caratteristiche trofiche diverse rispetto alla caccia-raccolta del Vicino Oriente, essendo la biogeografia qualitativamente  e quantitativamente altra nelle due aree (come dire che le latitudini, i suoli e i climi sono diversi, dunque variano le fitofonti, quali ad esempio bacche, frutti selvatici, funghi, radici con cui ci si nutre in Europa, mentre nel Vicino Oriente si raccolgono semi selvatici di cereali e leguminose; e lo stesso dicasi delle zoofonti, per esempio, gli uni si nutrono di selvaggina o di specie animali proprie delle foreste decidue, quali cinghiali, caprioli, cervi, potendo di lumache d’acqua, di pesci e crostacei, gli altri di gazzelle, daini, capre, pecore, antilopi), anche se è vero che entrambe le zone risentono fortemente d’un impoverimento biocenotico che eleva i costi sociali per l’ottenimento delle proteine animali e vegetali. Oltre che alla citata diminuzione di taglia degli animali cacciati, si assiste anche, dal punto di vista tecnologico, a una miniaturizzazione dell’industria litica e alla sua standardizzazione e specializzazione che sfocia, con il declino dell’uso diretto della selce, nell’uso dei micro-utensili per modellare una strumentazione in osso (e, probabilmente, in legno e cuoio), oppure per produrre utensili misti caratterizzati dall’inserimento di piccole punte geometriche di selce giustapposte in manici di legno (o microliti) o utensili dotati di manico in guaine di corna di cervo; sono inoltre usati l’arco, la freccia (strumenti che tengono conto del fatto che, in ambiente forestale, lo stile di caccia si è dovuto modificare facendosi, da collettivo che era, individuale) e, per la pesca, l’arpione e l’amo. Tutte le caratteristiche sopra delineate designano poi una formazione economico-sociale postpaleolitica, detta Mesolitico (ca. 10 000-9000 a.C.), che precede e prepara quella propriamente Neolitica.

IL NEOLITICO, 1

LA MEZZALUNA FERTILE

La figura a seguire valorizza la presenza dei tratti del clima mediterraneo (clima caldo a estate asciutta, con presenza dunque di siccità, e inverni miti con precipitazioni tra i 250 e 300 mm, v. supra) in varie aree del mondo, aree anche molto distanti fra loro, ma sempre situate tra il 30° e il 40° parallelo; cioè, partendo da sinistra e dall’alto in basso, la California e parte del Cile (quello non andino), la regione mediterranea, il Capo occidentale del Sudafrica meridionale e l’Australia sud-occidentale e sud-meridionale:


Figura n. . Fonte: Masseti, 2008, p. 4.

Di quest’insieme, valorizziamo per ora la delimitazione approssimativa dell’area mediterranea con le sue propaggini, là dove sono poi presenti i tratti biogeografici (che sono qui concentrati, seppure in un notevole ventaglio di varianti regionali) che sono determinanti le congiunture di un dato divenire storico delle società di caccia e raccolta, quelli che caratterizzano dal punto di vista dello sviluppo economico, sociale e culturale l’epoca storica del Neolitico, qui dove si ritrova la Mezzaluna Fertile, la più antica zona di produzione alimentare al mondo e il sito d’origine delle principali specie vegetali e animali (anteriori al 7000 a.C.) che sono oggi coltivate e allevate, e la figura seguente ne mostra la geografia che s’estende ad arco dall’Egitto attraverso la Palestina (situata sulla costa orientale del Mare Mediterraneo fino al Deserto siriaco e al corso del fiume Giordano), la Siria arrivando poi fino alla Mesopotamia (la regione compresa tra l’Eufrate e il Tigri):


Figura n. . Fonte: Diamond, 1998, p. 103.

Di quest’area, per prima cosa, anche se ci sono molte zone del mondo, come appena visto, che presentano un clima mediterraneo, sottolineiamo ch’è solo nella Mezzaluna Fertile che si manifesta la più vasta estensione contigua di terre con questo clima pedologico, ciò che permette una maggiore diversità animale e vegetale (infatti, in quest’area si verificano le più forti escursioni stagionali, il che favorisce l’evoluzione di un’alta percentuale di piante annue, giusto quelle, come si vedrà, preferite dagli agricoltori). Per esempio, tra le 56 specie dal seme più grosso, cioè quelle scelte e utilizzate dall’uomo agricolo in quanto il loro peso è dieci volte tanto la media delle erbacee (su mille e più specie edùli, cioè commestibili, scelte e utilizzate dai cacciatori-raccoglitori), ben 32 si concentrano nella Mezzaluna Fertile, ossia sono a disposizione dei cacciatori-raccoglitori autoctoni e tra queste le prime piante che saranno domesticate, quali, tra i cereali, l’orzo, il farro e l’Einkorn (progenitore del grano); tra i legumi, le lenticchie, i piselli, i ceci e la veccia, e il lino tra le fibre. Dunque ben otto piante autoctone che possono considerarsi fondatrici dell’agricoltura mediorientale (al contrario, il Cile di piante ne ha a disposizione due, la California e il Sudafrica una a testa l’Australia sudoccidentale nessuna, come mostra la tabella seguente che indica gli areali della distribuzione delle 56 specie, là dove sono presenti anche aree con un clima arido):

REGIONI FLORISTICHE (UNITÀ FITOGEOGRAFICHE)
NUMERO DI SPECIE
OLARTIDE

MEDITERRANEO

32
INGHILTERRA
 1
AMERICA DEL NORD
 4
PALEOTROPICO
ASIA ORIENTALE
 6
AFRICA SUBSAHARIANA
 4
NEOTROPICO
AMERICA DEL CENTRO
 5
AMERICA DEL SUD
 2
AUSTRALE
AUSTRALIA SETTENTRIONALE
 2
TOTALE
56













Tabella n. . Fonte (adattata): Diamond, 1998, p. 107.

Per seconda cosa, la Mezzaluna Fertile (ch’è a cavallo di Palestina, Libano, Giordania, Siria e Iraq) presenta una grande diversità orografica che favorisce la biodiversità, cioè la variabilità all’interno di una singola specie vegetale (ad esempio, varietà di pianura e varietà di montagna) o tra specie diverse e tra ecosistemi (ad esempio, tra gli ecosistemi terrestri e quelli acquatici, tra una pianura e un fiume, o tra quelli che presenta una montagna che, a quote diverse, mostra ecosistemi variabili, con la presenza di nicchie protette nelle vallate); si va, infatti, dalla depressione più bassa al mondo, a El Ghor (nella cui depressione tettonica è il Mar Morto, ai confini di Israele, Cisgiordania e Giordania, v., supra, la Great Rift Valley), a 408 metri sotto il livello del mare, a monti poco meno alti di 5000 metri (Zard-e Kuh, nei Monti Zagros, lungo il confine occidentale dell’Iran, raggiunge 4547 metri), passando per pianure attraversate da fiumi (il Giordano, in Palestina; l’Eufrate e il Tigri, in Iraq), colline e deserti. Per terza cosa, la ricchezza e la diversità di ambienti offre il vantaggio unico di un’abbondanza di specie animali selvatiche adatte alla domesticazione, a tutt’oggi i più importanti mammiferi domestici, quali la capra, originaria probabilmente delle alture dei Monti Zagros (la capra, infatti, predilige le montagne e gli habitat ostili che rendono le sue abitudini alimentari parche ed elastiche, dunque favorevoli alla alimentazione in cattività) o del Levante mediterraneo; la pecora, originaria delle zone centrali del Vicino Oriente (la pecora, a differenza della capra, pascola nelle zone collinari e pedemontane e predilige l’erba); il bue, dell’Anatolia e il maiale, del Nord (ma v. anche infra). Come dire, infine, che l’agricoltura (e l’inizio sistematico del disturbo antropico dell’eco-sistema) trova radicamento qui perché, come si vedrà, i cacciatori-raccoglitori non possono più utilizzare il pacchetto mesolitico e perché tutte le piante e gli animali del pacchetto neolitico (v. infra) sono già a disposizione (il problema a seguire sarà poi quello di come si è passati da un processo di neolitizzazione primario, originario, a uno secondario, mimetico, ma su questo vedi infra).                                                                                                                                           
Sopra s’è parlato, in generale, del clima che favorisce la nascita dell’agricoltura, bisogna ora meglio specificare quali caratteristiche diacroniche del clima si sono manifestate nella Mezzaluna fertile e che cambiamenti nell’ecosistema (in generale) sono presenti da un clima a quello che lo segue. Tra il 18 000 e il 13 000 a.C., nel Tardo Pleistocene, è presente un clima freddo e secco cui corrisponde la presenza del bioma steppa (v. infra) che favorisce la caccia dei grandi e medi mammiferi erbivori (quelli ungulati, che presentano le falangi, o l’unica falange, rivestita da zoccoli). Tra il 13 000 e l’8 000 a.C., nella transizione all’Olocene, si presenta un clima temperato e molto umido che favorisce la formazione di una foresta rada (quercia-pistacchio) e la crescita abbondante di piante annuali, graminacee e leguminose. Tra l’8 000 e il 6 000 a.C. il clima diventa più caldo e secco e si assiste a un arretramento della foresta e a un impoverimento delle risorse alimentari.

IL PROTO-ALLEVAMENTO E LA PROTO-AGRICOLTURA NELLA MEZZALUNA FERTILE

Tra l’8000 e il 6000 a.C., nel Vicino Oriente che s’affaccia sul Mediterraneo Orientale, sotto l’Anatolia (che corrisponde grosso modo al territorio dell’odierna Turchia), si manifesta dunque, in un habitat esteso che arriva fino all’Iraq settentrionale a all’Iran occidentale (cioè nella Mezzaluna Fertile), la possibilità di allevare animali che vivono in branchi. Non la gazzella (Gazella), che è cacciata in modo organizzato con inseguimenti e accerchiamenti, e in modo massivo come mostra l’abbondanza dei resti ossei nei siti archeologici, e che è dunque stata decimata dalla caccia indiscriminata e cessa di essere, tra il Mesolitico e il Neolitico avanzato, una fonte importante di cibo, bensì la capra selvatica (le gazzelle sono state, per millenni, le prede preferite dai cacciatori del Vicino Oriente ed è impensabile che l’uomo non abbia tentato la loro detenzione o mansuefazione, e che questi tentativi non siano riusciti lo mostrano le grandi quantità di resti osteologici che si sono accumulati nel tempo senza mai mostrare tracce da sindrome da domesticazione, per esempio, una variazione morfologica, v. infra; e se interessa, uno dei metodi di caccia (pianificata) è consistito nello spingere un branco di gazzelle entro un recinto murario a secco che s’estende per molti chilometri, predisposto lungo le vie della loro migrazione in tarda Primavera verso Nord, con un ingresso che si presenta largo; le mura del recinto sono di pietra del deserto e si confondono con l’ambiente e vanno poi a formare un vasto imbuto (ma esistono anche altre forme) e sono, inoltre, alte più d’un uomo, tranne che per alcuni tratti più bassi, di là dai quali sono scavate delle profonde fosse; ora, quando le gazzelle sono entrate, le urla e gli schiamazzi degli uomini le impauriscono, tanto che le gazzelle terrorizzate e in fuga saltano le basse mura e finiscono nelle fosse, là dove sono abbattute e macellate; le porzioni utilizzabili saranno poi trasportate al villaggio dove saranno sottoposte alla salagione, o a essere seccate, quale riserva alimentare; questa struttura d’ammassamento e macellazione è poi detta desert kite, cioè aquilone del deserto, perché tale sembra ad una visione dall’alto (altri dicono però che la funzione degli aquiloni non è quella di favorire la predazione; in ogni caso è da ricordare, ancora, che la riforestazione che ha luogo qui dopo la fine del periodo glaciale non è così estesa come quella dell’Europa, e che la rarefazione degli alberi facilita la caccia di animali che vivono in branchi). Dunque, s’è detto, non la domesticazione della gazzella, ma quella della capra selvatica. I branchi selvatici di capre vivono in rilevi montuosi spaccati da rapide valli che, per qualche decina di chilometri, incanalano e isolano le migrazioni dei branchi di capre tra i pascoli ad alta quota dell’estate e la pianura frequentata durante l’inverno; e il controllo antropico sulla capra è possibile perché queste migrazioni possono essere accompagnate dall’uomo e dal cane (Canis familiaris, v. infra), senza per questo alterare le abitudini biologiche del branco che si ciba di piante selvatiche (precorritrici del grano e dell’orzo) e che vive allo stato brado sempre raggruppato su una zona vegetale contigua che permette la sua alimentazione tra l’estate e l’inverno (ed è raggruppato anche nel caso si manifesti la possibilità d’una distanza di fuga, v. infra, poiché questi branchi, a differenza di altri animali che, in quest’occasione, praticano la dispersione, rimangono sempre compatti). Si presenta così, per queste società di caccia e raccolta, una condizione geofisica e biozoologica (o zoogeografica) che permette di potere escludere dalla caccia gli erbivori migratori le cui mandrie si presentano solo occasionalmente (e s’escludono da sé i grandi erbivori difficili da avvicinare o impossibili da trattenere) e di focalizzare su un unico animale le attività che non sono più di predazione, ma preparatorie all’allevamento. Abbiamo qui, infatti, la coincidenza del territorio controllato dal gruppo umano e il normale percorso degli erbivori, ciò che favorisce la specializzazione nel controllo del branco (battitura esercitata dall’uomo e dai cani) e l’alimentazione carnea e dei prodotti derivati dal latte (sull’alimentazione lattea, v. infra). Una volta acquisito il principio, l’applicazione a specie nuove presenta poi minori difficoltà perché sono scelti animali che si raggruppano in società dense su un’estensione vegetale continua, sono cioè erbivori, gregari e migranti, e il cui comportamento nel fuggire è nel raggruppamento (ad esempio, bovini e cavalli). Su queste questioni legate ai prerequisiti della domesticazione, v. anche infra.
Grazie al mutato clima presente alla fine del Pleistocene, nell’Olocene, quando si presenta un clima di tipo mediterraneo che mostra, come detto, estati lunghe, calde e secche e inverni miti e piovosi, e proprio nelle stesse zone (cioè nella Mezzaluna Fertile) e nello stesso periodo in cui si manifesta la prima domesticazione degli animali, si assiste all’ampliamento spontaneo dell’areale di diffusione dei cereali e dei legumi selvatici. Questi cereali e legumi presentano un adattamento specifico al genere umano: sono annui e, a causa di queste breve ciclo, non superano le dimensioni di una piccola erbacea e si finalizzano a generare in abbondanza semi che rimangono in quiescenza durante la stagione secca, crescono alla ripresa invernale delle piogge (ca. 250-300 mm all’anno) e maturano, ossia muoiono, nella lunga stagione arida lasciando cadere i semi sul suolo che si riproducono autonomamente (v. infra), semi che presentano un possibile uso e riuso alimentare in quanto sono commestibili e rigenerabili annualmente.
In queste zone dal clima mediterraneo esistevano già, nelle società di caccia e raccolta, sfruttamenti periodici delle erbacee da seme o graminacee che, malgrado la piccolezza dei semi (e se pure le proteine vegetali presentano uno svantaggio rispetto a quelle animali), rappresentavano un alimento di adeguato valore nutritivo (fatto salvo che la raccolta rispettasse l’equilibrio tra le risorse vegetali disponibili e l’alimentazione del gruppo, cioè la capacità portante dell’ambiente). Ora, con l’ampliamento dell’areale dei cereali e dei legumi selvatici, aumenta la possibilità di raccolta, in breve tempo e in grande quantità, di semi che hanno la caratteristica di potere essere conservati per l’alimentazione e per la seminagione consapevole, cioè selettiva (v. infra), ciò che altera l’equilibrio preesistente a favore di un incremento della popolazione che cresce (come si vedrà) sempre più in fretta della disponibilità alimentare offerta dalle risorse vegetali. Disequilibrio che permette e incentiva, nell’ottica di uno sfruttamento sempre più intensivo delle piante, il passaggio graduale da un’economia mista (di caccia e di raccolta controllata) verso una stanzialità di raccolta irreversibile, tanto che il potere raccogliere i semi maturi e immagazzinarli fa sì che ciò che prima era una pianta accessoria dell’alimentazione diventi la pianta dominante. Stanzialità di raccolta che, presente come economia mista già prima dell’agricoltura, dà origine ai villaggi. Visto che saranno poi necessari ca. due millenni prima che i villaggi mesolitici diventino, da zone di orticoltura, colonie agricole, vediamone l’evoluzione.

L’EVOLUZIONE DEI PROTO-VILLAGGI AGRICOLI NEL VICINO ORIENTE

I primi villaggi del Vicino Oriente sono stati costruiti, come visto, in coincidenza con un modo di sussistenza basato sulla raccolta di semi selvatici di orzo, grano, piselli, lenticchie e di altre piante (sempre selvatiche) che sono domesticati a scapito delle piante irrimediabilmente selvatiche. Ad esempio, il grano selvatico (triticum monococcum aegilopoides) matura, nella tarda primavera, in un periodo di tre settimane. È stato provato che un individuo dotato di un falcetto dalla lama di selce e con il manico di legno (o osso), se il grano selvatico cresce fitto, può in un’ora raccoglierne quasi un chilo (la produttività per ettaro è di ca. una tonnellata), o un insieme di esperti raccoglitori di accantonare in tre settimane una quantità di grano sufficiente, a una famiglia, per tutto l’anno (il valore calorico prodotto da un ettaro messo a grano è di 50 a 1, cioè pari a 50 calorie per ogni caloria di lavoro speso). I primi villaggi stanziali (o protovillaggi, v. infra) sorgono poi per avere un luogo dove immagazzinare il grano, macinarlo e trasformare la farina in alimenti. Servono così, oltre alle abitazioni fatte con mattoni di argilla seccati al sole, cesti (per trasportare il raccolto), silos sotterranei (per conservare le cariossidi; la cariosside è il frutto secco indeiscente della spiga, che non si apre nella caduta quando maturo), forni (per tostare le cariossidi vestite, cioè aprirle per procurarsi il seme; per le cariossidi nude è sufficiente la battitura) e pesanti macine (per fare la farina con i semi). Dati i campi a stoppie dopo la raccolta, dati i resti non commestibili delle piante, è poi possibile anche alimentare le capre (che con grano e orzo selvatico, come detto, si cibano) e tenerle in cattività, cioè stabulate dentro dei recinti all’aperto in cui è possibile mungerle e, volendo, macellarle.
La lavorazione e lo stoccaggio dei cereali, l’abbondanza di proteine vegetali e l’aumento delle calorie procapite (se pure a fronte di un degrado dello standard dietetico rispetto a quello permesso dalle proteine di origine animale) favoriscono la crescita demografica. Infatti (senza dimenticare che, se si vuole abbassare la densità demografica, sono possibili le pratiche culturali dell’astinenza sessuale, dell’aborto e dell’infanticidio, spesso delle femmine), dopo un parto, una donna virtualmente feconda non ha ovulazioni finché non ha immagazzinato una riserva di energia (sotto forma di grasso, che in percentuale rispetto al suo peso corporeo è di ca. il 20-25%), che le possa permettere di affrontare le esigenze di un feto in sviluppo. Ora, una dieta ricca di proteine animali e povera di carboidrati, se la donna allatta per quattro o cinque anni come avviene nelle società di caccia e raccolta, non permette di accumulare grassi e ritarda l’ovulazione (cioè favorisce l’amenorrea) e tiene bassa la densità demografica; cosa che non capita quando una dieta ricca di carboidrati (se pure povera di proteine animali) permette di acquistare grasso, ciò che favorisce la ripresa dell’ovulazione post-natale e la possibilità energetica di un’alimentazione adatta alle necessità di un feto in sviluppo. Conseguentemente, nelle società agricole, sedentarizzate, si assiste a un aumento della popolazione (una donna partorisce all’incirca ogni due anni, fatti salvi i tassi di mortalità naturali o culturali e le speranze di vita), cioè della densità demografica. Questo processo di crescita è autocatalitico (la catalisi è quel fenomeno per cui un processo, grazie a un catalizzatore, è accelerato; qui il catalizzatore è dato da uno dei prodotti della reazione stessa, vale a dire dalla densità demografica che, con la sua retroazione positiva, fa sì che la reazione, una volta innestata, proceda sempre più celermente), ed è un processo che sempre più velocemente trasforma i proto-villaggi in villaggi, i villaggi in proto-città e, a seguire, in città, in città-stato e in imperi, ciò che allarga i territori che praticano l’agricoltura intensificata e, pena il collasso, l’evoluzione tecnologica che favorisce l’intensificazione nello sfruttamento delle risorse (zoo-fonti e fito-fonti). Spesso a danno delle società di caccia e raccolta, come capita nella neolitizzazione dell’Europa. Valga, a proposito dell’incremento demografico, la tabella seguente:

PERIODO (APPROSSIMATIVO, a.C.)
POPOLAZIONE
NOTE EVENTUALI
VICINO ORIENTE
EUROPA
MONDIALE (IN MILIONI)
50 000
---
---
---
--- 
10 000
---
---
4
TASSO DI CRESCITA STIMATO: 0,0512 % L'ANNO (80 NATI PER 1000 ABITANTI OGNI ANNO)
  8 000
   100 000
---
---
  5 000
---
---
5
  4 000
3 200 000
---
7

Tabella n. . Fonte: Harris, 1981, p. 42; Acot, 2004, p. 82; Haub, 2005, p. 5.

Per quanto riguarda, in generale, l’incremento o decremento demografico (ossia il rapporto tra le nascite e le morti), è necessario sapere che le capacità di crescita della popolazione umana sono costanti e non presentano variazioni da epoca a epoca o da gruppo a gruppo (ad esempio i maschi sono sempre in numero superiore alle femmine per un rapporto 1,05, cioè 105 maschi e 100 femmine) e che le potenzialità di questa crescita dipendono da fari fattori. Tra i quali, il contesto ambientale, inteso come forza di costrizione ineludibile, quali il clima (con i suoi lunghi cicli), lo spazio (con i suoi modi dell’insediamento umano, la mobilità o la densità della popolazione, quindi la disponibilità di un ecosistema), le patologie (che nel breve periodo, collegate anche al sistema alimentare, hanno diretta influenza su riproduzione e sopravvivenza). Segue il contesto economico e sociale, inteso come forza di costrizione ineludibile, quali lo offrono i microbi (batteri, virus, protozoi, spirocheti, ricksettie etc.); come dire, per quanto riguarda le società agricole, la malnutrizione cronica (data un’alimentazione abitualmente inadeguata o carenziale) o meno, la totale assenza di difese sanitarie e igieniche dovute alla mancanza di conoscenze mediche e alla precarietà delle condizioni abitative etc. Ancora dal contesto ambientale, inteso però come forza di lenta modificabilità, quali la Terra vista come possibilità di fonti energetiche rinnovabili, di materie prime, e anche di sviluppi produttivi, ad esempio, l’agricoltura e i regimi alimentari possibili che ne derivano; come dire subordinazione alla produttività del suolo e subordinazione plurisecolare della popolazione ai limiti di un regime calorico accettabile, anche in condizioni di stress nutritivo. Da valorizzare sono anche le condizioni di vita, che rimandano, almeno nelle società agricole, alla stratificazione sociale, quindi a un determinato sviluppo delle forze e i comportamenti sociali, cioè i fattori culturali che comportano modificazioni con rilevanza demografica, ossia dai tratti che limitano la fertilità, il numero dei gradi proibiti per la scelta del coniuge (la coniugalità), l’età della nuzialità, il celibato o il nubililato, il prolungato allattamento o il controllo delle nascite, la mobilità e le migrazioni etc. Infine, dalla presenza o meno degli adattamenti automatici (ad esempio in caso di stress alimentari, o carestie prolungate dove, pur possedendo le popolazioni un notevole grado di adattabilità allo stress nutritivo di breve, medio o lungo termine, l’adattamento non funziona) che possono portare all’aumento della mortalità e quindi alla selettività biologica (nel senso dell’adattamento genetico alle condizioni di stress delle generazioni a venire) o, nei confronti delle malattie, a un’immunizzazione (temporanea o permanente) o a una domesticazione nel caso di mutuo adattamento tra agente patogeno e ospite umano.

IL TELL DI JERICHO

Fatto salvo che l’Epipaleolitico (12 000 – 10 500 a.C., v. supra) è un termine utilizzato dagli storici del Vicino Oriente per designare la fase che precede il Natufiano e il Neolitico preceramico (v. infra), cioè la fase caratterizzata dalle industrie microlitiche che si sviluppano durante l’arco d’una fase pluviale (16 000 – 9 000 a.C.), che si presenta dopo il maximum del freddo secco del 18 000 a.C. (del Würm IV, v. supra), e nel corso del quale la caccia e la raccolta sono intensificate nel mentre s’assiste a un incremento demografico che precede la stanzialità, ora, per dare un’idea più precisa della struttura di questi protovillaggi che si sono venuti a formare, segue una descrizione di Tell es-Sulān dato, come vedremo, dalla sovrapposizione di molteplici strati d’abitato, 23, per la precisione, che arrivano a formare una collina (tell, in arabo, significa appunto collina, monte), cioè dalla descrizione del tell di Jericho (Gèrico) tra l’Epipaleolitico e il Neolitico, cioè a partire dal 16 000 per arrivare al 6 000 a.C. La figura seguente mostra la configurazione geografica del Vicino Oriente in cui si ritrovano i prodromi delle società stanziali e agricole (cioè l’area della Mezzaluna Fertile):


Figura n. . Fonte: Masseti, 2008, p. 48.

All’Epipaleolitico, tra il 10 500 e l’8 500 a.C., segue un periodo in cui s’afferma appunto la presenza delle prime compagini protoagricole e sedentarie (documentate queste ultime da strutture in pietra) nel Vicino Oriente, è poi storicamente classificato come Natufiano (derivato dal nome della vallata del Wādī en-Nāṭūf, nel Deserto della Giudea, a settentrione del Mar Morto, e dove il termine wādī, che si trova scritto anche uadi, indica il letto d’un torrente con piene stagionali), ed è un periodo in cui avviene la transizione economica e sociale dall’Epipaleolitico al Neolitico (dalle società di caccia e raccolta a quelle che saranno stanziali); il Neolitico, detto aceramico, lo si suddivide secondo una nomenclatura che adotta la classificazione bipartita inglese, Pre Pottery Neolithic (cioè Neolitico preceramico, in sigla, PPN) di due tipi, il tipo A che va dall’8 500 al 7 500 a.C. (o PPNA) e il tipo B, che va dal 7 500 al 6 000 a.C. (o PPNB). La tabella seguente riassume la suddivisione cronologica sopra delineata:

PERIODO
DATE CORRISPONDENTI (a.C.) [1]
EPIPALEOLITICO [2]
12 000 – 10 500
NATUFIANO
10 500 – 8 500
NEOLITICO
PPNA
8 500  – 7 500
PPNB
7 500 – 6 000

[1] Le date indicate sono approssimative giacché queste variano
da un testo di riferimento all’altro.
[2] Da ricordare che, al di fuori del Vicino Oriente, questo stesso
periodo è invece detto Mesolitico.

Tabella n.  .

Per quanto riguarda il tell, in paleoetnologia, come sopra accennato, è poi una collina artificiale di natura antropica che è prodotta da quanto resta, negli insediamenti umani di lunga durata che occupano un dato luogo, degli edifici di mattoni di fango costruiti progressivamente, in quanto insieme abitativo, l’uno sull’altro, mescolati, volta per volta, con l’accumulo dei materiali residui della vita sociale ed economica qui svolta, quali manufatti, vestigia umane (che qui non saranno prese in carico) o resti vegetali e animali, detriti etc., che si sono depositati nelle varie sovrapposizioni che si sono avute, come dire che lo spaccato verticale del tell offre all’analisi e all’interpretazione la stratigrafia storica dell’evolversi di una struttura economica e sociale. Il tell di Jericho si trova in Palestina (Cisgiordania), a 366 metri sotto il livello del mare, e lungo le pendici orientali dell’altopiano di Giudea nella valle del Giordano, là dove una falda sotterranea affiorante alimenta la sorgente di ‘Ain es-Sulān, ciò che ha dato origine a un ecosistema stabile che ha permesso l’evolversi storico di quest’insediamento ch’è il prodotto di ca. 9 000 anni di continuità insediativa (probabilmente la struttura urbana più antica del mondo). La figura seguente illustra le caratteristiche di massima che sono presenti in molti insediamenti natufiani, la sorgente (qui ‘Ain es-Sulṭān), il letto d’un torrente stagionale (qui il Wādī en-Nāṭūf), le risorse di prateria (qui la valle del Giordano) e quelle d’altura (qui le pendici orientali dell’altopiano di Giudea), cioè in un luogo ch’è interfaccia tra varie tipologie di risorse:


Figura n.   . Fonte: Giusti, 1996, p. 69.

I primi strati di abitato del tell, risalenti al Natufiano, presentano, in quello che resta degli aggregati abitativi (stazioni di sedentarietà di ca. 500 m2), piani di terra battuta e tracce sui piani di calpestio dei residenti stagionali, e resti di piante e animali che ne mostrano la frequentazione e sono riconducibili, per le modificazioni morfologiche, ai lontani prodromi d’una domesticazione d’animali selvatici e di cereali, come mostrano la lucidatura delle lame dei falcetti di selce dovuta al taglio delle spighe selvatiche, l’ampio repertorio delle pietre da macina e i pestelli (in linea generale, nel Natufiano, e a partire dal 10 000 a.C., esistono evidenze archeologiche a favore della coltivazione di cereali, anche se non è possibile documentarne la domesticazione, così come l’attività di predazione antropica pare attenta a selezionare la fauna da abbattere in modo da non depauperare i branchi, dunque esercitandone un’azione di controllo esterna). Dopo una fase d’abbandono avvenuta intorno al 9 000 a.C., durante il Dryas recente (quando il clima, come già detto, si fa più fresco e secco, ciò che comporta con la siccità un mutamento dell’ecosistema e l’abbandono di tutti gli insediamenti del Natufiano, compreso il ritorno alle attività di caccia ad ampio raggio, quindi a una ripresa del nomadismo, e c’è ch’ipotizza che la siccità abbia poi portato alla precoce necessità di trovare un modo per favorire la domesticazione delle piante), in occasione d’un miglioramento e della stabilizzazione del clima con un aumento delle precipitazioni e a una maggiore ricchezza delle risorse ambientali che hanno probabilmente favorito la sedentarizzazione indipendentemente dalla domesticazione di piante e animali, il sito è rifrequentato, tanto che negli strati del tell risalenti al PPNA si trovano poi i resti d’un villaggio, più ampio dei precedenti, che occupa ca. 3-4 ettari, villaggio che presenta, oltre alle abitazioni di mattoni di argilla a pianta circolare e in parte interrate (ca. 30 cm) e con pavimenti d’argilla battuta, anche preadattamenti tecnologici all’agricoltura quali piccoli contenitori d’argilla per lo stoccaggio alimentare su piccola scala e pozzi esterni, o silos, rialzati di 3,5 metri e rivestiti di mattoni crudi intonacati per lo stoccaggio su grande scala dei semi (e due di questi silos presentano diametri di 3 – 4 m); ed è documentata, ma per il sito di Bāb al-Dhrā‘, sempre nel Levante meridionale durante il PPNA, la costruzione di silos che presentano piani sospesi per la circolazione dell’aria e la protezione dai roditori e dagli insetti. È poi presente un’architettura monumentale data da un muro di blocchi di pietra alto quasi 4 metri e largo mediamente 2, con collegata una torre del diametro di 7 metri per un’altezza di quasi 8, torre che presenta scalini all’interno per salire in sommità; riguardo a quest’insieme di mura, è esclusa l’ipotesi che rimandi a una difesa militare (v. infra), mentre è più probabile che le mura servano come sistema di protezione dalle inondazioni stagionali del vicino Giordano e dagli smottamenti; resta in ogni caso vero che questi resti connotano ampi sforzi collettivi e un grado notevole d’organizzazione e divisione del lavoro). Questo complesso può ospitare fino a 2 000 persone e più (è quindi presente una stanzialità definitivamente assestata che, se in linea generale è pari a una diminuzione del numero dei siti, mostra però come tendenza l’accrescimento delle dimensioni di quelli rimasti che implicano particolari livelli di complessità strutturale e sociale) e il regime alimentare degli abitanti è basato sul consumo di cereali, legumi, semi e frutta selvatica e sulla caccia ai mammiferi, integrata questa dalla cattura di pesci, uccelli e rettili. Tra i cereali che mostrano evidenze di domesticazione, si può citare il piccolo farro (Triticum dicoccum, v. infra) e, tra i legumi, ne sono presenti di quelli esportati al di fuori degli areali di crescita spontanea (ciò che presuppone contatti e scambi) quali, per esempio, piselli (Pisum sativum, v. infra) e lenticchie (Lens culinaris, v. infra); da un insieme di dati archeologici che riguardano poi tutto il Levante, è stata tracciata anche la trasformazione di varietà vegetali selvatiche, tra cui l’orzo (Hordeum spontaneum, v. infra) e l’avena (Avena sterilis), in forme che saranno poi domesticate nel PPNB. Per quanto riguarda l’alimentazione carnea ci si basa perlopiù sulla caccia (massiva) della gazzella del deserto (Gazella dorcas, il cui habitat è proprio alle zone semidesertiche), della gazzella di montagna, o edmi (Gazella gazella, frequente sulle montagne e sulle colline pedemontane della penisola araba) e della gazzella persiana (Gazella subgutturosa, che occupa l’areale più orientale del Vicino Oriente), che ne rappresenta il maggior apporto (e nei siti risalenti al Natufiano sono stati rinvenuti i resti dell’una o dell’altra specie di gazzella); le figure seguenti mostrano una ricostruzione (totale o parziale) delle tre citate specie di gazzella, ricordando che nell’ordine si va dalla taglia inferiore a quelle via via superiori:


Figura n. (Gazella dorcas). Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 31.


Figura n. (Gazella gazella). Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 31.


Figura n. . Fonte (Gazella subgutturosa): Clutton-Brock, 2001, p. 31.

Ancora, nella dieta carnea, rientrano altri animali, anch’essi selvatici, quali l’Ègagro (Capra aegagrus), il Muflone orientale (Ovis orientalis), l’Uro (Bos primigenius), il Cinghiale (Sus scrofa), l’Onagro (Equus hemionus onager, una sottospecie dell’emione; grosso modo, quelli che domesticati saranno, nell’ordine, la capra, la pecora, il bue, il maiale, l’asino), la Lepre (Lepus), la Volpe comune (Vulpes vulpes) e altri piccoli animali (roditori, fauna avicola etc.). In quest’arco temporale non sono presenti tracce di animali morfologicamente modificati, cioè domesticati. La figura seguente mostra la percentuale di reperti animali rinvenuti a Jericho nel PPNA (le cifre riportate nelle barre dell’istogramma riportano il numero assoluto di ossa e di denti recuperati; tra gli Equidi si trova l’onagro):


Figura n. . Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 98.

Per il PPNA è poi da ricordare che, mentre esistono importanti innovazioni nello sfruttamento delle risorse vegetali, per le risorse animali le strategie restano sostanzialmente legate ai modelli epipaleolitici, fatti salvi e l’uso delle punte di freccia di selce e con alla base delle tacche laterali, cioè dei rientri per favorire l’immanicatura (dette punte el-Khiam, dal nome di un’area del Deserto della Giudea) e l’uso di asce levigate in calcare o basato, dunque innovazioni nell’industria litica, e il caso delle prime esperienze di domesticazione del muflone (Ovis orientalis, v. infra) e dell’egagro (Capra aegagrus, v. infra), non in quest’area del Levante meridionale, bensì nelle regioni orientali del Vicino Oriente (a Jericho i resti osteologici di Sus scrofa nel PPNB si sono rivelati più piccoli del PPNA, ciò che ha fatto supporre, se non la domesticazione del cinghiale, almeno un controllo antropico su di esso) . La figura seguente mostra la probabile distribuzione dei progenitori delle quattro specie di bestiame domesticato alla fine dell’ultima glaciazione i cui areali di diffusione selvatica arrivano a sovrapporsi nel Vicino Oriente:


Figura n. . Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 42.

Nel PPNB, tecnologicamente più evoluto, gli insediamenti mostrano già una tipologia urbana (sono cioè villaggi strutturati di grandi dimensioni che documentano il divenire dell’incremento demografico), con case che ora assumono la pianta rettangolare con copertura a terrazzo, con pavimenti di terra battuta rifiniti con calce, e le cui stanze con le pareti intonacate di calce sono potenzialmente cumulabili l’una all’altra e, come moduli costruiti con mattoni probabilmente fabbricati in serie, sono atte a formare estesi aggregati poiché si sviluppano attorno a un cortile scoperto (la nascita delle prime strutture quadrangolari si presenta nel PPNA nel sito di Tell Abu-Hureyra, sulla riva Sud dell’Eufrate, nell’attuale Siria, e si generalizza in tutto il Vicino Oriente nel PPNB, e sembra anche che un’estensione della tecnica usata per la pavimentazione e l’intonacatura delle abitazioni con calce, ottenuta questa per cottura (o calcinazione) ad alte temperature di pietra calcare, ca. 750-900 °C, v. infra, mescolata con acqua, abbia favorito, a partire dalla Siria, la costruzione di vasellame in calce o in gesso, non sottoposto a cottura, produzione che prelude alla comparsa della ceramica, e ch’è nota con il nome di vaisselle blanche, alla lettera vasellame bianco; per inciso, l’uso della calce per scopi abitativi presuppone poi l’acquisizione di tecniche avanzate per il controllo delle temperature, ciò ch’implementa la successiva cottura della ceramica e la fusione dei metalli). Si consolida, inoltre, la pratica dell’agricoltura e s’affermano nuove strategie per l’utilizzo delle risorse animali; per quanto riguarda l’agricoltura s’assiste a un perfezionamento delle tecniche agricole acquisite durante il PPNA, cioè a un maggiore controllo sulle piante vegetali e, anche se non mutano le specie coltivate, s’assiste a un’intensificazione nello sfruttamento del territorio messo a coltura, compresa l’introduzione delle pratiche d’irrigazione che arrivano a formare una rete idrica regionale con la diffusione in diversi ambienti delle piante idrofile, quali l’orzo a sei file (Hordeum vulgare exastichon), le fave (Faba vulgaris) e il lino (Linum), così come si manifesta l’esportazione dei cereali modificati fuori dal loro areale di distribuzione naturale; per quanto riguarda l’utilizzo delle risorse animali, s’afferma la domesticazione definitiva d’alcune specie, tra cui quella iniziata nel PPNA del muflone e dell’egagro, cioè dei caprini (famiglia che comprende anche le pecore). A proposito delle capre, a partire dal VII millennio a.C., queste rappresentano per questo insediamento la principale risorsa carnea (e a seguire lattea), di materie prime (ossa, corna, zoccoli, pelle, grasso, deiezioni e fibre) e di pulizia preliminare del suolo in vista dell’agricoltura (le capre, come detto sopra, hanno un’alimentazione elastica che si adatta alle risorse di habitat anche ostili) e incominciano a manifestarsi quei cambiamenti morfologici che sono diagnostici della fase di domesticazione, mentre è probabilmente completata la domesticazione del maiale (come mostra la diminuzione della taglia, anche se è vero che i maiali, lasciati liberi, sono in grado d’adattarsi senza grossi problemi alla sopravvivenza nel nuovo ambiente, e questo è indizio d’una non completa domesticazione) e si sta avviando il processo di domesticazione dei bovini. Cala quindi drasticamente il consumo della gazzella (probabilmente dovuto, come detto, a un’incontrollata pressione venatoria antropica) e, in parte, quello della volpe, mentre aumenta in modo verticale il consumo delle capre (se pure la domesticazione delle pecore precede quella delle capre, in questa fase le capre sono preferite alle pecore come scorta di carne fresca), e in modo consistente il consumo degli uri (i bovini), dei cinghiali (i maiali), e di poco quello degli equidi, come mostra la figura seguente dei reperti animali rinvenuti a Jericho nel PPNB:


Figura n. . Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 98.

Per quanto riguarda la modificazione genetica della capra già domestica nel PPNB a Jericho, s’assiste a una generale riduzione delle dimensioni delle forme allevate rispetto alla forma selvatica, sindrome da domesticazione (v. infra) che si rivela, per esempio, nella riduzione delle ossa lunghe (metacarpali, etc.); si nota anche che sono presenti, inizialmente e fino al Neolitico ceramico, le corna dette a scimitarra (cioè dritte) e poi che, a partire dall’Età del Bronzo antico, iniziano a prevalere le corna ritorte (a spirale) fino a che l’altra modificazione non scompare, e le corna ritorte diventano la morfologia dominante; la figure seguente mette a confronto i nuclei ossei di corna di capre domestiche di Jericho, rispettivamente a scimitarra e ritorte (i nuclei ossei a scimitarra misurano 150 mm, quelli ritorti,  180 mm):


Figura n. . Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 99.

La figura seguente mostra invece gli istogrammi delle quantità relative di nuclei ossei appartenuti a corna a scimitarra e ritorte rinvenute a Jericho a partire dal PPNA (dove sono predominanti le corna a scimitarra) per arrivare all’Epoca bizantina [?] (dove sono predominanti le corna ritorte):


Figura n. . Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 100.

Non è però dato sapere ad ora il perché le capre a corna ritorte siano prevalse su quelle a corna a scimitarra, fatta salva l’ipotesi d’una ibridazione introgressiva d’epoca con una sottospecie dello stambecco (Capra ibex), ossia lo stambecco della Nubia, o Capra ibex nubiana, cioè con il passaggio di geni da una specie all’altra attraverso una barriera interspecifica incompleta. Da sottolineare poi che al di fuori di Jericho, in altri siti, per esempio, nel sito di Çayönü Tepesi nell’Anatolia Sudorientale (v. figura seguente), s’assiste alla comparsa improvvisa di pecore che presentano una morfologia che suggerisce una domesticazione già avviata, ciò che implica che il fenomeno dell’importazione d’ungulati è da sommarsi al fenomeno dell’esportazione dei cereali detto sopra. Qui a seguire, a prova dell’estensione del fenomeno della domesticazione degli animali, si riporta la figura che mostra alcuni siti archeologici di villaggi protostanziali e stanziali del Vicino Oriente dove sono state rinvenute testimonianze dei primi eventi di domesticazione (in alcuni casi probabile, in altri certa, come mostra la legenda; è citata anche la presenza del cane, sulla cui dinamica di domesticazione v. infra, ma non il gatto perché questo, nella storia della domesticazione, presenta caratteristiche anomale, tutte sue, pur essendo certificata la sua presenza domestica a partire da ca. 5 300 anni fa, v. infra):


Figura n. . Fonte (adattata): Clutton-Brock, 2001, p. 88.

Si può dunque affermare, partendo dall’esempio di Tell es-Sulṭān, che s’assiste nel Vicino Oriente a una generalizzazione delle strutture architettoniche quadrangolari, all’espansione dei villaggi pari all’incremento demografico basato sulla domesticazione delle piante e all’allevamento dei caprini, alla presenza di siti di nuova  installazione anche al di fuori dell’area di distribuzione dei cereali, alla sedentarizzazione definitiva e alla comparsa di un’organizzazione sociale che tende verso un maggior grado di strutturazione e gerarchizzazione, all’affermazione di legami di natura commerciale fra i vari siti pari a una fitta rete sovraregionale di scambi tra il Mar Rosso, il medio Eufrate e l’Anatolia (mostrata  dalla citata esportazione dei cereali e degli ungulati domesticati e dalla diffusione di materie prime esotiche, quali l’ossidiana dell’Anatolia, un pasta vetrosa d’origine vulcanica molto ricercata, le conchiglie del Mediterraneo e del Mar Rosso, le pietre ornamentali d’amazzonite, di turchese, di malachite etc.), ciò che testimonia d’una accresciuta divisione del lavoro, tutto un insieme di tratti ch’impone una morfologia culturale che per molti aspetti assume un carattere omogeneo (il pacchetto neolitico) che s’estende in tutta la regione del Vicino Oriente, tanto che il PPNB manifesta un dispositivo spaziale, economico e sociale in cui la pratica generalizzata dell’agricoltura e dell’allevamento del bestiame è pari ad un’affermazione culturale inedita che, come vedremo, si presenta senza ritorno (per l’analisi del collasso del PPNB nel Levante del Sud, v. infra). Detto questo, analizziamo ora, e prima d’affrontare i processi storici di neolitizzazione, com’è avvenuta nello specifico la domesticazione degli animali e delle piante, partendo alla lontana, cioè dal Cane e dal Gatto.

LA DOMESTICAZIONE DEL CANE E DEL GATTO

Per partire, bisogna non confondere l’addomesticamento, che si ha quando il processo di controllo degli uomini è su un animale selvatico catturato reso docile e tollerante nei confronti dell’uomo, dalla domesticazione che ha a che fare con animali in cattività di cui si controllano le modalità alimentari e le strategie riproduttive e senza le quali l’animale non è autosufficiente (ciò che implica la manipolazione delle sue relazioni sociali, v. infra), cioè con animali le cui caratteristiche genetiche sono precedentemente selezionate e manipolate dall’uomo. Per esempio, un ghepardo (Acinonyx jubatus) non lo si può domesticare, ma si può addomesticare, vale a dire che, grazie al suo comportamento parzialmente sociale e non aggressivo nei confronti dell’uomo, si può controllarlo dopo che è stato catturato, per esempio, al fine d’impiegarlo nella caccia agli ungulati della dimensione d’una gazzella, ma non si può allevarlo in cattività perché la sua domesticazione presenterebbe seri problemi. Ancora, si definisce domestico un animale che si riproduce in cattività e dipende, per la sua nutrizione e riproduzione, in tutto e per tutto dall’uomo; come addomesticato un animale che non si riproduce in cattività ed è autonomo nell’alimentazione, anche se è alimentato dall’uomo dopo la sua cattura. Come dire che, dati i parametri di sopravvivenza di un organismo, cioè la protezione (o difesa), la nutrizione e la riproduzione, la domesticazione presume che nessuno di questi tre parametri possa essere soddisfatto se viene a mancare la presenza umana. Detto questo, iniziamo con il processo di domesticazione del cane e del gatto, che qui s’affronta data la loro importanza nell’ambiente antropico delle società stanziali di cui s’è parlato sopra, e valgano a questo proposito le note seguenti. La domesticazione del cane è la prima domesticazione d’una specie diversa dall’uomo, ma non si sa dove, né si sa quando sia avvenuta con precisione; riguardo al dove, le ipotesi avanzano come areali il Medio Oriente, cioè la Mezzaluna Fertile (risultati ottenuti con il ricorso al DNA nucleare e l’analisi dei polimorfismi a singolo nucleotide,  o Single-Nucleotide Polymorphism, SNP, grossomodo analizzando le piccole differenze nella sequenza di una singola base del DNA), l’Europa (risultati ottenuti con il ricorso al mtDNA, v. supra), la Siberia e, infine, la Cina meridionale (risultati ottenuti sempre con il ricorso al mtDNA); riguardo al quando, alcuni  datano la domesticazione a 135 000 – 76 000 anni fa, in presenza essenzialmente di Homo neanderthalensis (con una datazione basata sul DNAmt; per inciso, questa tipologia di datazione è molto criticata in quanto è ritenuta non attendibile per eventi filogenetici che si sviluppano in tempi geologici brevi); altri, in presenza di Homo sapiens, la datano tra 40 000 e 12 000 anni fa, altri a 16 300 anni fa e altri ancora, non essendoci grandi evidenze fossili di cani vissuti prima di 12 000 anni fa (tranne che per il ritrovamento in Europa, in una sepoltura del tardo Paleolitico a Oberkassel, Germania, d’una mandibola di cane domesticato stimata come risalente a 2 000 anni prima del ritrovamento natufiano, v. infra), mettono in forse la domesticazione prima dell’avvento del Neolitico. L’evidenza fossile di cui si parla è databile tra 12 000 e 10 000 anni fa, ed è la tomba appartenente alla cultura Natufiana (v. supra) e siglata H.104, che si trova nel sito di Ain Mallaha/Eynan (denominazione araba, la prima, israeliana l’altra), a Nord d’Israele, nell’alta valle del Giordano, dove un umano, probabilmente una donna anziana, posa la mano sinistra sullo scheletro completo d’un esemplare immaturo di cane, probabilmente un cucciolo di 4-5 mesi, tra i primi esempi d’inumazione in cui un uomo giace sepolto con specie diverse; a ciò s’aggiunga il fatto che prima di 10 000 anni fa non esistono, nell’arte parietale rupestre, documenti figurativi che rappresentino il cane quali li si può ritrovare, per esempio, nelle coeve scene di caccia presenti a Alpera, in Spagna orientale, nella Cueva de la Vieja o nelle scene dell’arte sahariana di Tadrart Acacus, nella Libia occidentale. In ogni caso, la domesticazione s’è avuta a partire da un Lupo ancestrale (ascendenza che poi si traduce nella differenza di specie e nicchie tra il Canis lupus e il Canis familiaris, v. infra, differenza genetica che non supera lo 0,04%), là dove la divergenza con questo Lupo ancestrale, e con il Canis lupus, si nota con il fatto che la domesticazione (v. supra) ne ha ridotto la taglia, ne ha reso le fauci ridotte e con denti più fitti e meno grossi e robusti (per esempio, i denti canini e carnassiali, v. infra), e ne ha prodotto la faccia più grossa, il muso più corto e il cervello più piccolo del 15% ca., a pari peso, e l’analisi dei reperti osteologici forniti dalla ricerca archeologica conferma che queste modificazioni morfologiche, diagnostiche della modificazione della specie (v. infra) si manifestano nel Vicino Oriente, nel Natufiano (v. supra), tra 12 000 e 10 300 anni fa, tanto che si sospetta fortemente che la domesticazione si sia inizialmente presentata come autodomesticazione in due tappe del Canis lupus derivato dal Lupo ancestrale. E si dice autodomesticazione perché il Canis lupus, sia pur un cucciolo che non ha ancora aperto gli occhi (v. infra), non si riesce mai a domesticarlo, e se si può dare il caso d’un Canis lupus domato, questi, a differenza del cane, non trasmette geneticamente questo tratto alla prole, quindi sarebbe necessario ripetere il processo d’addestramento di nuovo da capo, come dire che il Canis lupus può essere addomesticato, ma non domesticato (v. supra). La prima autodomesticazione consiste in una larvale coesistenza, che si presenta fortemente competitiva dato che gli areali che occupano il Canis lupus e le bande dei cacciatori-raccoglitori sono spesso sovrapposti (cioè simpatrici) in quanto prediligono le stesse prede, vale a dire Mammuth lanosi, Cervi, Bisonti europei, Rinoceronti lanosi, Antilopi e Cavalli, così come prediligono le stesse parti della preda altamente proteiche, cioè gli organi interni quali cuore, fegato e polmoni e, a seguire, reni, milza e muscoli (ed è da sottolineare che nel citato repertorio i Lupi uccidono solo gli animali deboli, malati, vecchi o immaturi, ciò che crea un ecosistema che mantiene in buona salute le popolazioni delle prede, questo a differenza dell’uomo che uccide le prede in modo casuale e, con la tecnologia evoluta, uccide un numero di prede superiore al necessario per sopravvivere, alterando di conseguenza l’equilibrio dell’ecosistema, com’è probabilmente successo con l’overkill della Megafauna avvenuto tra 20 000 e 13 000 anni fa, v. supra). Cui s’aggiunga che nella predazione, per entrambe le specie, è presente il cacciare organizzato, cioè sociale (tanto che, a livello superficiale, i metodi di caccia sono fra di loro comparabili); prede che, in presenza di una diminuzione delle risorse (quale si presenta a partire da 13 000 anni fa, alla fine del Mesolitico, cioè durante il periodo glaciale chiamato Primo Dryas, nel quale si manifesta uno stress ambientale, cioè la detta diminuzione in quantità e qualità delle risorse trofiche), e se il Canis lupus è impossibilitato a reperire prede, ma solo se è impossibilitato, che, altrimenti, questa pratica non è da questa specie dismessa, si traduce nel suo comportamento di consumare gli avanzi abbandonati nei pressi degli insediamenti temporanei dei cacciatori-raccoglitori (anche se alcuni sostengono che questa pratica opportunistica sia documentabile già a partire da ca. 30 000 anni fa), e si dice avanzi abbandonati data la differenza di dentizione tra uomo e lupo che fa sì che il secondo possa mangiare anche ciò che non può mangiare il primo, per esempio, le ossa, i peli o la pelle o altro ancora. Si tenga in ogni caso conto, per valutare il comportamento opportunistico o meno del Canis lupus, che questi può arrivare a consumare fino a 5 kg di carne al giorno per una complessione fisica che mediamente va dai 45 a 35 kg, e che, per tutti i carnivori dell’era glaciale, la morte per fame è stata la normalità e che pertanto la competizione s’è presentata, conseguentemente, molto alta. In seguito, nel Neolitico, a partire grossomodo da 11 000 anni fa (quando s’afferma il clima post-Dryas, cioè quando aumentano temperature e precipitazioni) grazie alla presenza e a una certa regolarità dell’accumulo di rifiuti organici nei pressi d’una popolazione di Homo sapiens che si sta facendo stanziale (una nuova nicchia), con la presenza di un Canis lupus opportunista, cioè adattabile a una prossimità con gli umani, vale a dire con una minore distanza di fuga rispetto ad altri componenti della sua specie, e dove la distanza di fuga (o flight distance, che, alla lettera, si traduce come distanza di volo), che si può misurare controllando quanto l’animale si lascia avvicinare dall’uomo, o da qualsiasi altro animale, mentre mangia prima di fuggire. La distanza di fuga è dunque quella a cui un animale, qui un Canis lupus, può lasciare avvicinare un predatore, qui l’uomo quale agente stressante (o stressor), senza essere indotto alla fuga; ancora, per qualsiasi specie e in qualunque situazione data la distanza di fuga ottimale si situa tra un valore minimo, in cui l’animale troppo reattivo non riesce a mangiare (distanza breve) e un valore massimo in cui l’animale riesce a controllare la sua reattività mentre continua a mangiare (distanza lunga) e la selezione naturale agisce sulla distanza di fuga proprio su questo continuum tra il minimo e il massimo, spingendola verso l’uno o l’altro estremo secondo quanto cambiano le condizioni dell’ambiente in un tempo evolutivo. E se una fonte abbondante di cibo si presenta, per esempio un accumulo di rifiuti organici nei pressi d’un villaggio, essa tenderà a rendere breve la distanza ottimale, e questo comportamento è probabilmente indotto, data la nuova nicchia, da una diversa recettività agli stimoli dell’ambiente esterno dovuti ad una casualità genetica che, in alcuni Canis lupus, si traduce in una riduzione della concentrazione di corticosteroidi e alla produzione della serotonina che permette d’accorciare la distanza lunga. A questo proposito è necessario, infatti, sapere che tra i corticosteroidi, che sono ormoni secreti dalla corteccia surrenale che hanno il compito di regolare lo stress, c’è anche il cortisolo, un ormone legato alla produzione d’adrenalina che, a sua volta, è un neurormone che stimola la risposta fight or flight, cioè combatti o fuggi, vale a dire le risposte psicofisiche in caso di stress, e più alto è il livello di cortisolo e più l’adrenalina incentiva l’ampiezza, ossia l’attivazione, della distanza di fuga rispetto allo stressor; contemporaneamente, più bassi livelli di cortisolo e minore produzione d’adrenalina attivano una maggiore produzione della serotonina, un neurotrasmettitore ch’è legato, tra altri stati dell’organismo, a quello del rilassamento, cioè ad una inibizione del comportamento di fuga, ossia l’esatto opposto della risposta fight or flight. Come dire che, in alcuni di questi Canis lupus e grazie alla nuova nicchia si presenta, quindi, l’opportunità di manifestare un comportamento adattativo alla distanza di fuga che, in un isolamento sessuale dal Canis lupus territoriale che continua a riprodursi all’interno del branco (v. infra), permette poi in modo incipiente la speciazione (cioè la metamorfosi nel tempo in Canis familiaris) e d’allevare una prole più numerosa e geneticamente differenziata grazie all’aumento delle risorse alimentari e senza che possa sussistere un’esposizione troppo ravvicinata con gli umani il cui unico ruolo, alla fin fine, è quello di fornire loro la detta nuova nicchia che con la stanzialità antropica è in grado di fornire una regolare discarica di rifiuti. Si ricorda che, in linea di massima, il Canis lupus è un carnivoro che, essendo un predatore generalista, cioè non legato a un tipo di preda in particolare, può predare animali di dimensioni molto variabili, cioè di grandi o di piccole, piccolissime dimensioni; oltre alla citata carnivoria, presenta però anche abitudini alimentari opportuniste (come mostra anche la sua dentizione, che non è specializzata per il solo consumo di carne) che gli permettono di cibarsi di frutta, di vegetali, di carcasse d’animali morti, comprese quelle della propria specie, e di carni in decomposizione, cui s’aggiunga che, oltre a quest’ultimo tratto saprofago, presenta anche quello coprofago, cioè quello di trovare edibili, ossia mangiabili, le deiezioni alvine umane, vale a dire le feci (e per curiosità, s’annota qui che presso certe società è affidato un cucciolo ai bambini che ha il compito di pulire i loro sederi). Dunque è qui, in questa nicchia, che si ritrova la prima forma di simbiosi tra il Canis lupus docile (questo solo perché la riduzione evolutiva della flight distance per selezione naturale si traduce in un comportamento che noi per nostri scopi definiamo di docilità), chiamiamolo protocane, e Homo sapiens; per il resto, i comportamenti del protocane legati alla ricerca di cibo, alla riproduzione etc. sono simili a quelli delle specie selvatiche, ma adattate alla sopravvivenza d’una nicchia dovuta al passaggio storico dalle società itineranti di caccia-raccolta alle società agricole stanziali, società dove la docilità potrebbe presentarsi come vantaggiosa per gli uni e per gli altri, per esempio, con cibo dato al protocane in cambio della caccia opportunista agli animali parassiti che saccheggiano le coltivazioni. Prole di protocane che, nel giro di poche generazioni (si parla di un periodo tra i 50 e i 100 anni, tanto che, a partire da ca. 10 000 anni fa è documentata la diffusione del cane in Eurasia, Africa, America del Nord e Australia) ha continuato ad evolversi e a proclamarsi in una nuova specie, Canis familiaris e, lo si ripete, per selezione naturale in un segmento della popolazione di Canis lupus del tratto della flight distance, ossia dell’abilità di riuscire a mangiare in prossimità degli umani senza abbandonare la risorsa trofica, dunque non per una selezione artificiale da parte dell’uomo. Ragione per cui il Canis lupus e il Canis familiaris, che hanno un progenitore ancestrale in comune, evolvono in due specie distinte, parallele, ma diverse, da cui deriva la varianza dei loro tratti fenotipici, con la clausola che è la diversa nicchia ecologica che li ha poi fatti evolvere in due specie (altri, a partire dal 1982, invece che Canis familiaris usano la nomenclatura trinomia Canis lupus familiaris, e usandolo sottintendono che il processo di differenziazione di specie che s’è cercato di descrivere non sia avvenuto, dunque pensando che non esista un Lupo ancestrale, o che, s’esiste, si sia evoluto nel Canis lupus attuale, e che il cane sia non una specie a sé, ma solo una sottospecie del Canis lupus, nomenclatura trinomiale che, date le premesse, qui non s’adotta). Questa specie, dunque, non è più legata al comportamento sociale, gregario e territoriale dei Lupi, abituati a convivere, in un habitat circoscritto, in famiglie nucleari, date dalla coppia monogama e dai loro cuccioli (al massimo in un branco che contiene 2-3 famiglie nucleari, dove una famiglia nucleare comprende i genitori e i cuccioli degli ultimi tre anni  o solo quelli nati nell’ultimo parto, in media 5 o 6, ma questa pratica non è da generalizzare per tutti i Lupi), né alla socialità del protocane opportunista, spazzino, che non s’è relazionato con l’uomo pur vivendo con lui in simbiosi (socialità competitiva, da non confondere con quella territoriale del branco propria al Canis lupus, in quanto il protocane, escluso il momento della riproduzione, è costretto a vivere isolato o, al massimo, a formare piccoli gruppi familiari con una durata ch’è limitata per il maschio al momento della nascita dei cuccioli, questo vista la competizione  tollerante, non aggressiva, dei protocani nei confronti l’uno dell’altro per l’accesso alle risorse), ma è una specie in cui a un’evoluzione della competenza sociale che si manifesta nella sua evoluzione storica come allontanamento prima dal branco e poi dalla socialità competitiva. La tabella seguente mostra le differenze di socialità e di comportamento all’interno di un gruppo tra Lupi e protocani:

TRATTI DISTINTIVI
CANIS LUPUS
PROTOCANI [1]
PROTEZIONE DEL TERRITORIO
PRESENTE, INCLUSE AGGRESSIONI MORTALI CONTRO CHI NON FA PARTE DEL BRANCO
PRESENTE, CON RARE AGGRESSIONI MORTALI, SCARSO CONTATTO FISICO E CONTESE RISOLTE ABBAIANDO.
RAPPORTI DI DOMINANZA/SOTTOMISSIONE
(GERARCHIA SOCIALE)
PRESENTI, CON UN PRECISO CODICE FORMALE DI SOTTOMISSIONE
RARI, ANCHE IN PRESENZA DI FEMMINE IN CALORE
COALIZIONE FRA MEMBRI DEL GRUPPO
PRESENTE, CON LA COPPIA RIPRODUTTIVA CHE INIBISCE PERÒ LA RIPRODUZIONE D’ALTRI MEMBRI DEL BRANCO E CON COALIZIONI FRA GLI ESCLUSI PER POTERSI ACCOPPIARE CON LA FEMMINA RIPRODUTTRICE
PRESENTE, MA SOTTO FORMA DI GIOCO
COOPERAZIONE PER L’ALLEVAMENTO DELLA PROLE
PRESENTE, CON IL PADRE E I FRATELLI CHE PROCACCIANO CIBO PER I CUCCIOLI [2]
RARA
CACCIA
PRESENTE, CON ATTIVITÀ DI COOPERAZIONE PER LA PREDAZIONE DI ANIMALI PIÙ GRANDI
ASSENTE, TRANNE CHE NEI CASI DI PICCOLE PREDE
ATTIVITÀ DI RICONCILIAZIONE
PRESENTE; ENTRO DUE MINUTI DALLA LITE, E ANCHE PRIMA, SI MANIFESTA CON I MEMBRI CHIAVE DEL BRANCO
PRESENTE, SI MANIFESTA CON RAPIDITÀ E PIÙ SPESSO CON I MEMBRI CONOSCIUTI
ATTIVITÀ DI CONFORTO
PRESENTE; DOPO UNA RISSA I MEMBRI NON COINVOLTI CONFORTANO GLI ALTRI
PRESENTE; DOPO UNA RISSA I MEMBRI NON COINVOLTI CONSOLANO PIÙ LO SCONFITTO CHE NON IL VINCITORE
PREFERENZE AFFETTIVE
PRESENTE, CON GELOSIA MANIFESTA VERSO IL PARTNER PREDILETTO
PRESENTE; SI MANIFESTA NEL SEGUIRE IL CANE PIÙ SOCIEVOLE DI ALTRI

[1] Anche s’è azzardato, s’ipotizza il comportamento sociale, cooperativo, dei protocani sulla falsariga di quello dei cosiddetti cani
di villaggio, cioè dei cani che vivono sfruttando in competizione fra di loro le risorse trofiche nelle discariche antropiche, compresi
i cani randagi.
[2] È stato notato che il ritorno dei lupi dopo il procacciamento del cibo alla tana per nutrire i cuccioli mostra forti parentele con il
comportamento dei membri delle società di caccia e raccolta che ritorna dagli altri membri della comunità per condividere ciò che
ha procacciato, e in questa pratica gli umani sono più simili ai Lupi che agli altri primati.

Tabella n. . Fonte (adattata): Hare e Woods, 2013, p. 161, p. 301, p. 302.

A seguire l’evoluzione continua, questa volta però come effetto d’una selezione artificiale, anche se non necessariamente voluta, per il tramite di quella che si chiama selezione postzigotica (che, semplicemente, significa che l’umano elimina tra i cuccioli quello che non gli piace e si prende cura di quello che gli piace, lasciando all’ambiente antropico durante una finestra di socializzazione, v. infra, la cura della crescita cognitiva del cucciolo), selezione che potrebbe essere stata data, per esempio, da un cucciolo di protocane, opportunista e geneticamente docile ch’è adottato da un umano che se ne prende cura. Se questo percorso storico dalla selezione naturale a quella artificiale è vero, ciò porta, per effetto del fondatore (v. supra), alla definitiva transizione verso il Canis familiaris attuale, vale a dire a una specie funzionale, cioè addestrabile a un lavoro, ossia a cani da difesa e da attacco contro gli animali infestanti i raccolti, a cani da conduzione delle greggi transumanti, a cani da caccia etc., insomma a cani da lavoro, il tutto grazie all’imprinting (v. infra) dei cuccioli durante il periodo critico della socializzazione. Ciò che comporta, se esemplifichiamo ricorrendo a un cane da conduzione, a una soggezione attiva e emotiva del cane nei confronti del gregge da condurre, cioè a un legame interspecifico tra cane e pecora (o cane e uomo, o cane e altro ancora) che fa sì che il cane adulto esibisca i normali comportamenti intraspecifici innati, ossia quelli che caratterizzano il rapporto del cane con un altro cane, e che fanno sì che un carnivoro (il cane) diventi di fatto il conduttore di una specie che avrebbe il ruolo di preda (qui la pecora). Il tutto, dunque, grazie all’ambiente evolutivo antropico che si sostituisce a quello che sarebbe primigenio per il cane (originariamente, quello del protocane con il modulo comportamentale della docilità in prossimità d’un villaggio), vale a dire spostando la collocazione del cane dai margini della comunità umana al suo centro, da un luogo dove il protocane non è addestrabile a un luogo dove l’addestramento, dapprima inconsapevole e poi con tassi sempre più alti d’intromissione umana, si dimostra funzionale agli interessi dell’uomo (e questa è la seconda forma di simbiosi, quella che permette il passaggio dal commensalismo al mutualismo). A questo punto, è da sottolineare che nello sviluppo dell’organismo (o ontogenesi) dei cani, il periodo critico della socializzazione si presenta all’incirca tra la quarta e la sedicesima settimana di vita; in questo periodo il cucciolo, che nasce senza funzione visiva e uditiva, è portato per un lungo periodo alla dipendenza dalle cure parentali, cui s’aggiunga il fatto critico che l’apertura degli occhi, cioè la funzione visiva, sommata a tutte le altre percezioni sensorie diventate attive, quali il tatto, l’udito, l’olfatto e il gusto presenti a partire dalla terza settimana, mettono in moto in modo irreversibile uno sviluppo neurosensorio che si traduce nella capacità di formare relazioni sociali intraspecifiche (normalmente con chi gestisce le cure parentali, cui l’uomo si può sostituire). Dopo 6-8 settimane, cioè dopo lo svezzamento, s’attiva poi geneticamente lo schema (pattern) motorio della paura nei confronti di ciò che può essere pericoloso, cioè non conosciuto e al di fuori del vissuto dell’area di socializzazione, vale a dire l’insorgenza d’una reazione limite alla tolleranza d’un umano (che qui rappresenta uno stressor, nel caso che l’uomo non si sostituisca alla madre) oltre la quale s’attiva la paura, in altre parole il tratto geneticamente codificato della distanza di fuga. Come dire che il periodo in cui il cane può riconoscere nel suo ambiente evolutivo un tratto eterospecifico ritenuto positivo (l’uomo, per esempio) e, successivamente, di discriminarlo rispetto a quelli che ne sono estranei, è quindi limitato; infatti, dopo 16 settimane questa finestra di socializzazione si riduce poi fortemente o si chiude definitivamente, vale a dire si disattiva la finestra temporale in cui l’ambiente evolutivo contribuisce a informare, a livello cerebrale, ciò che darà poi origine al repertorio epigenetico delle strutture differenziate nel comportamento, quali gerarchie di dominanza, sottomissione, richieste di cibo e altro ancora. E si dice repertorio epigenetico (dove il prefisso epi-, dal greco ἐπί, sta a significare dopo) perché lo sviluppo genetico è legato a un processo dinamico dove, oltre che alla risposta dei segnali che provengono dall’ambiente interno dell’organismo, anche la risposta ai segnali che arrivano dall’ambiente esterno ha una funzione regolatrice, come a dire che lo sviluppo e la differenziazione dell’organismo sono dovute a uno scambio bidirezionale, d’interdipendenza, tra i due ambienti (l’interno e l’esterno). Detto altrimenti, l’ambiente esterno produce una modificazione nell’attività di un gene regolatore senza, per questo, cambiare le istruzioni contenute nel DNA, ciò che arriva a costituire un fenotipo, dove, con fenotipo, s’intende il complesso delle caratteristiche morfologiche e funzionali di un organismo in quanto prodotto dall’interazione dei geni tra loro e con l’ambiente (v. infra). Durata della finestra temporale d’interscambio interno/eterno che, nel caso della nicchia ecologica data dall’ambiente antropico, coincide di fatto con la tipologia dell’addestramento  (e se interessa, nel Canis lupus gli occhi si aprono verso il decimo giorno e questa finestra s’apre dopo 13 giorni e al diciannovesimo si chiude, ciò che rende praticamente impraticabile la sua domesticazione), ma con la clausola che questo addestramento del cane deve tenere anche conto dei limiti genetici entro i quali l’ambiente può modificarne la struttura, nel senso che ogni razza di cane ha strutture comportamentali specie-specifiche (cioè un repertorio d’origine filogenetica che permette ai pattern motori già pronti di mettersi in moto quando l’ambiente li attiva come necessari per la specie e che si può modificare in funzione della citata finestra temporale e della contingenza ambientale). Ed è questo ciò che li predispone a essere in grado d’imparare la propria mansione e a eseguirla meglio d’ogni altra razza. Per riprendere l’esempio sopra utilizzato, tutti i cani, nella finestra temporale detta, possono essere addestrati a condurre le pecore, ma il cane da conduzione che ha la struttura adatta appartiene a una sola razza, ed è quel cane che presenta una struttura fisica, cioè la taglia e la forma, che si traduce nel giusto comportamento richiesto, che è poi quella che s’addestra tenendo conto dei limiti della programmazione genetica che informa strutturazione fisica e collegamenti fra le cellule cerebrali e che opera in modo bidirezionale, epigenetico, con l’ambiente evolutivo stesso; complesso dato da struttura fisica/cervello/ambiente evolutivo che differenzia di fatto, nelle manifestazioni comportamentali della forma fisica, una razza antropicamente utile dall’altra. Tanto, per essere chiari, che un cane da conduzione presenta il pattern motorio d’inseguire, ma non quello di mordere l’inseguito né per afferrarlo né per ucciderlo; un cane da riporto presenta i pattern motori per inseguire e per mordere afferrando ciò che deve riportare, ma non quello di mordere per uccidere, mentre un segugio presenta i pattern motori per inseguire, e per mordere afferrando e uccidendo la preda; dunque, se gli schemi motori di predazione nel cane (ma anche nel Lupo) presentano la sequenza ‘individuare > fissare > avvicinarsi furtivamente > inseguire > mordere per afferrare > mordere per uccidere > sezionare > consumare’, ecco che tra questi, che s’attivano dopo lo svezzamento, sono presenti anche quelli che l’uomo può utilizzare o sfruttare per i suoi scopi e che questo utilizzo, come per tutti gli altri pattern motori che s’attivano e incrementano nella sequenza, è per sempre, e l’uomo li può attivare o disattivare (regolando le risposte ritenute positive o negative, dato l’ambiente di sviluppo che si ritiene ottimale per l’emissione dei moduli comportamentali, v. infra, il fenomeno della potatura), facilitato in questo anche dal fatto che questi tratti non sono strettamente collegati fra loro (come capita ai Felini, che per predare devono compiere per intero la loro sequenza motoria di predazione). Tanto che il via alla sequenza motoria, che dopo l’addestramento diventa stereotipata, può cominciare nel Canis da qualsiasi punto (ciò che spiega, tra l’altro, il perché i Lupi abbiano potuto con opportunismo presentare da solo il pattern di consumare i resti abbandonati dagli umani e perché gli uomini abbiano manifestato comportamenti cinegetici, cioè di caccia con il cane), ciò che farà, infine, che il cane sia domesticato, da lavoro o altro, diventi cioè un animale sinantropico, ossia un animale che, al pari del gatto, vive normalmente in compagnia dell’uomo. La figura seguente, che mostra la crescita del cervello del cane nell’arco temporale d’un anno, evidenzia che la maggior parte della sua crescita, quella in cui si formano e stabilizzano le connessioni cerebrali che lo conformeranno alla nicchia, coincide con il periodo sensibile alla socializzazione, oltre il quale non saranno mai soddisfacenti nuovi addestramenti ad altre abilità sociali (infatti, durante il periodo critico i circuiti neurali sono sensibili solo alla persistenza dei segnali di nicchia, segnali che sono così in grado di provocare un’attività neurale che si stabilizza in un preciso schema di connessioni tra le cellule nervose, segnali che sono così selezionati per fare parte del cervello dopo le 16 settimane, mentre altri schemi, pur presenti, ma non adeguatamente stimolati, sono definitivamente persi con la crescita, fenomeno detto di potatura, o pruning; per riprendere l’esempio del cane da conduzione, se i cuccioli mostrano lo schema motorio dell’inseguimento delle pecore, o quello del mordere per afferrarle, è sufficiente allontanarli per un dato tempo dal gregge, cioè dalle pecore quale stimolo scatenante, ed ecco che in breve il comportamento scompare, per delezione, dal repertorio senza che ne rimanga traccia mnestica, come dire che il pattern è potato dalla memoria; in figura, la crescita è data in cm3 e il periodo critico in mesi):


Figura n.   . Fonte: Coppinger e Coppinger, 2012, p. 130.

Al cane è dunque data la possibilità di manifestare un’intelligenza sociale che, nella nicchia antropica, s’esplica come interazione condivisa con gli umani (qualità non data nei Lupi, ma potenziale nei Lupi opportunisti, i protocani, che si rivelano essere così gli antenati di fatto dei cani); qualità che li ha resi capaci di leggere le intenzioni altrui, cioè capirne la gestualità, gli sguardi orientati e soprattutto la deissi, cioè il gesto d’indicare (pointing), che solo cuccioli di cane e d’uomo sanno da subito interpretare (non la sanno interpretare neppure gli Scimpanzé e i Bonobo, come visto più vicini filogeneticamente all’uomo), il tutto selezionando gesti, sguardi, indicazioni in funzione di ciò a cui gli umani prestano attenzione, cioè manifestando attraverso l’intenzionalità condivisa gli stessi processi mentali di un bambino sotto cura parentale. E questo vuol dire che c’è stata un’evoluzione nelle capacità cognitive dei cani, capacità cognitiva che si presenta innata (ossia come un sottoprodotto casuale della domesticazione), come se solo tra cucciolo di cane e cucciolo d’uomo ci fosse stata un’evoluzione convergente, nonostante la differenza di specie, verso un comportamento che solleciti le cure parentali d’un adulto di Homo sapiens (ossia con alcuni tipi d’interazioni sociale e comunicativa tipici fra il cucciolo d’uomo e sua madre) e che nell’arco di nove settimane può definirsi completamente manifestata (v. supra). Capacità, dunque, che non necessita d’un apprendimento, cioè non è dovuta all’influenza dell’addestramento, anche se è vero che a seguire la lunga esposizione all’uomo e la selezione artificiale portano poi, come detto, a una specializzazione delle capacità cognitive; tanto che si può affermare che quest’intelligenza sociale ha permesso ai cuccioli in grado di manipolare e interpretare il comportamento umano d’avere più probabilità di sopravvivenza rispetto ai cuccioli di Canis lupus (che questa capacità innata non l’hanno), dunque d’avere più probabilità di riprodursi e di trasmettere i propri geni alla generazione a venire. Come dire che, con il cambiamento della nicchia ecologica e l’adattamento evolutivo (genetico ed epigenetico) ad essa, cioè con il mutualismo e l’evoluzione convergente, s’è assestata la detta capacità di saper rispondere simbioticamente al comportamento umano e, soprattutto, a saper cooperare con l’uomo. Per quanto riguarda l’atteggiamento simbiotico cane/uomo è poi necessario prendere in considerazione anche il ruolo svolto dall’ossitocina (o oxitocina, abbreviata in OXT), un ormone di natura proteica prodotto dall’ipotalamo e secreto dal lobo posteriore dell’ipofisi; infatti, è stato dimostrato che la produzione dell’ossitocina aumenta sia nella madre che nel neonato se questi si guardano negli occhi, aumento di produzione ormonale che si traduce nella fiducia del neonato di ricoprire il ruolo d’oggetto di cura e che crea, in pari tempo, un’empatia che nella madre si traduce come impegno ad assumere il ruolo di soggetto di cura, come dire che l’ossitocina produce una comunicazione madre/neonato che funziona anche in assenza d’una comunicazione verbale; ora, è questo lo stesso dispositivo preverbale che s’implementa se un uomo e un cane si guardano negli occhi, ed è probabilmente questa meccanica di cura offerta dall’ossitocina che mette in moto un ciclo di feedback positivo tra oggetto e soggetto di cura che ha permesso la sopra citata coevoluzione fra i due di un legame tanto affettivo quanto cognitivo e sociale, legame che emerge anche perché l’ossitocina può agire sulle strutture corticali limbiche e prefrontali, aumentando la trasmissione dell’acido γ-aminobutirrico (o Gamma-AminoButyric Acid, GABA), che è uno dei principali neurotrasmettitori inibitori, il che è dire che quest’acido induce l’abbassamento di freni inibitori sociali, quali la paura, l’ansia e lo stress, e apre alla disponibilità di fiducia e empatia a fronte della necessità di comportamenti collaborativi; il guardarsi reciproco negli occhi di cane e uomo, incrementa inoltre, e in entrambi, oltre all’ossitocina, altri ormoni, quali le β-endorfine (o betaendorfine), associate all’euforia e all’innalzamento della soglia del dolore (azione analgesica); la prolattina (o luteòtropina, LuteoTropic Hormone, LTH), legata alla promozione dei legami e associata ai comportamenti di cura (è l’ormone che, alla fine della gravidanza, determina la secrezione lattea nelle ghiandola mammarie); la β-feniletilamina (o feniletilamina), che tende ad aumentare nei casi d’innamoramento e la dopamina, che amplifica le sensazioni piacevoli (e, per inciso, si sottolinea che l’azione di guardarsi negli occhi sarebbe interpreta dal Canis lupus nel modo opposto, ossia come forte segno d’ostilità, e che  è per questo che i Lupi rifuggono il contatto visivo). Come affermare che, se le interazioni visive con i cani possono aumentare i correlati neurofisiologici, cioè le concentrazioni d’alcune tipologie ormonali, tutto ciò ci traduce il funzionamento biologico del comportamento d’attaccamento, cui bisogna aggiungere che, secondo l’ottica appena delineata, quest’attaccamento si manifesta anche nel rapporto di maternità dei Mammiferi nei confronti dei loro cuccioli (Homo sapiens incluso) in quella che si definisce come risposta epimeletica (dal greco ἐπιμελέομαι, prendersi cura), vale a dire nell’emergere del comportamento innato del prendersi cura (proprio, si ripete, ai Mammiferi) verso ciò che manifesta una morfologia ch’è propria solo ai cuccioli, seguita questa dal suo corredo comunicativo di richiesta di cura, detto comportamento etepimeletico (dove il prefisso et- è dal greco αίτη, richiesta [?]), cioè dei segnali neonatali che si manifestano prima dell’avvenuta socializzazione; questo rapporto epimeletico/etepimeletico lo si nota, per esempio, nelle cure parentali dei Lupi e dei Cani, nella selezione postzigotica del cucciolo di protocane da parte dell’uomo (v. supra), nella pratica del maternaggio propria alle società di caccia e raccolta, praticata a tutt’oggi, per esempio, dagli aborigeni australiani e della Nuova Guinea, cioè nell’allattamento al seno d’una donna, che ha perso la sua prole, d’un cucciolo di cane (ma anche di maiale), questo a seguito del ritardo nel divezzamento, cioè dell’allungamento del periodo evolutivo dell’allattamento, che porta ad un repertorio, prolungato nel tempo, dello sviluppo dei segnali etepimeletici e della risposta epimeletica, ossia, e questo è un fatto estremamente importante, al manifestarsi d’una fase evolutiva dell’attaccamento che si fa anche sociale all’interno della specie e che può sorpassare la specie implicata e manifestarsi come capacità cognitiva trans-specie. Per quanto riguarda invece la cooperazione uomo/cane, questa s’è sviluppata, come visto, anche in funzione gregaria all’uomo e in modo utilitaristico per l’uomo; con la cooperazione, dunque, s’assiste a un’autodomesticazione del protocane legata al commensalismo che si traduce in un mutualismo (tramite un processo d’adozione e d’addestramento in una data e determinata finestra temporale); autodomesticazione che, probabilmente, s’è verificata più volte e in luoghi diversi (secondo un’ipotesi multiregionalistica che si basa su risultati genetici, biogeografici e archeologici) e che, oltre alla taglia e alle funzioni cerebrali che governano i tratti comportamentali, ne ha modificato la riproduzione anticipandola e raddoppiando nelle femmine la manifestazione dell’ovulazione annuale (estro che nel Canis lupus si manifesta annualmente e grossomodo a partire dal secondo anno d’età) e, con la dieta diventata onnivora, ne modifica anche il metabolismo, per esempio, quello degli amidi con l’amilasi (v. infra; quest’ultimo è dunque un fenomeno presente data la dieta con carboidrati, possibile nelle società agricole; e a questo proposito c’è chi sostiene che, probabilmente a causa delle pressioni di selezione comuni tra cane e uomo, ci sia stata, oltre che la convergenza evolutiva sopra citata, anche un’evoluzione parallela nei geni preposti al metabolismo, ai processi digestivi e neurologici e al cancro), tutto un insieme di tratti che manifesta una sindrome da domesticazione (v. infra). Riguardo al rapporto mutualistico tra cane e uomo, si deve poi aggiungere che il cane, cambiando geneticamente sia struttura sia comportamento, rimane intrappolato nella sua nuova strutturazione, mentre l’uomo no, tanto che il cane domestico non sarebbe in grado, da solo, di sopravvivere nella sua forma attuale in quanto, a livello cognitivo, s’aspetta sempre un aiuto da parte dell’uomo. Quello tra cane e uomo non è, dunque, un mutualismo pienamente simbiotico, quello in cui le specie coinvolte si modificano in coevoluzione l’una con l’altra dando origine a due simbionti (v. supra), perché qui, tra l’uomo e il cane, solo il cane è pienamente un simbionte, mentre l’ospite lo è a suo gradimento, tanto che qualcuno parla, a proposito del destino sociale di alcuni cani, di dulosi (dove il termine dulosi rimanda al greco δούλωσις, derivato di δοῦλος, schiavo). Per quanto riguarda l’aspetto delle aspettative del cane nei confronti dell’uomo, si parla di neotenia (v. supra), cioè della permanenza nell’adulto di un tratto comportamentale del cucciolo, qui la richiesta di cure parentali. Per quanto riguarda poi l’intelligenza sociale del cane, cioè l’aspetto sociocognitivo, si sospetta fortemente che la diminuita distanza di fuga prodotta dall’iniziale autodomesticazione abbia portato questa intelligenza a manifestarsi come un sottoprodotto non previsto di questo comportamento sociale, cioè come un fenomeno di pleiotropismo capace di produrre effetti multipli sul fenotipo (laddove il termine pleiotropìa rimanda alla capacità d’un singolo gene di potere influenzare, a livello fenotipico, l’espressione di più d’un carattere, ossia d’intervenire su più caratteristiche dell’individuo). Il che è dire che la mutazione della flight distance ha dato origine a un comportamento sociale specializzato e innato (cioè indipendente dall’esposizione all’uomo e dal rinforzo) capace tanto di leggere il comportamento umano quanto di produrre e d’indirizzare, ben prima della cooperazione richiesta al cane da lavoro, segnali di comunicazione specifici all’uomo. O, detto altrimenti, non ha richiesto una selezione diretta per migliorare questa abilità sociale cognitiva di base, giacché, di là da questo azzeramento dalla paura dell’uomo in seguito a un’evoluzione del corredo filogenetico che si traduce nell’interagire con gli umani come se fossero cani (cioè spostando l’abilità d’interpretare il comportamento degli altri cani all’uomo, ossia passando dall’abilità intraspecie a quella interspecie), l’intelligenza del cane è un fenomeno interamente epigenetico, vale a dire un adattamento all’ambiente nel quale il cane sta crescendo. Come dire, ancora, che la seguente e conseguente struttura comportamentale del cane dopo il citato azzeramento, non è genetica nel senso che i geni fissano o predeterminano i tratti e i comportamenti adulti, ma che ogni singola caratteristica è solo un adattamento ontogenetico all’ambiente. Quindi, generalizzando, è probabile che l’innata socialità con l’uomo abbia avvantaggiato il Canis familiaris in quei contesti dove, anziché procurarsi le risorse trofiche da sé, questo deve farsi alimentare dall’uomo, tanto da costringersi a rispondere in modo attivo e pertinente al comportamento umano (e questo può spiegare il perché della riduzione del cervello nel passaggio dal Canis lupus a Canis familiaris poiché le dimensioni e le caratteristiche del cervello sono sempre strettamente vincolate all’ecosistema, in particolare alla dieta possibile in una certa nicchia). La seguente tabella compara le abilità cognitive dei cani rispetto a quelle d’altri mammiferi (avendo sempre presente che gli animali, uomo compreso, sviluppano abilità cognitive diverse in funzione di ciò che occorre loro per sopravvivere e riprodursi, ossia ch’esistono più forme d’intelligenza sociale e che la capacità di risolvere una data tipologia di problemi non si declina necessariamente a tutti gli altri):

TRATTI DISTINTIVI
SCARSA RISPETTO A QUELLA D’ALTRI MAMMIFERI
PARAGONABILE A QUELLA D’ALTRI MAMMIFERI
SUPERIORE RISPETTO A QUELLA D’ALTRI MAMMIFERI
DECISAMENTE SUPERIORE RISPETTO A QUELLA D’ALTRI MAMMIFERI
COMPRENSIONE DEI GESTI



X
ABILITÀ NEL DECODIFICARE NUOVE PAROLE



X
ABILITÀ COMUNICATIVA CON L’INTERLOCUTORE TRAMITE VOCALIZZAZIONI E GESTI


X

COMPRENSIONE DELLA PROSPETTIVA DELL’INTERLOCUTORE


X

ORIENTAMENTO NELLO SPAZIO

X


APPRENDIMENTO INDIVIDUALE E ASSOCIATIVO (CONDIZIONAMENTO)

X


VALUTAZIONE DELLA QUANTITÀ

X


RICONOSCIMENTO RAPPORTI CAUSA/EFFETTO
X



AUTOCOSCIENZA

X


CAPACITÀ D’IMPARARE DAI CONSPECIFICI

X


RIPRODUZIONE DELLE AZIONI ALTRUI (CONSPECIFICI E UMANI)


X

RICHIESTA D’AIUTO AGLI UMANI


X

INDIVIDUAZIONE DEI CONSPECIFICI NON COOPERANTI E OPPORTUNISTI

X


EMPATIA

X


SENSO DI COLPA

X



Tabella n. . Fonte (adattata): Hare e Woods, 2013, p. 213.

Per quanto riguarda le razze, il primo tentativo documentato di modellare il Canis familiaris lo si ritrova in un sito in Danimarca ed è risalente a 8 000 anni fa, e si tratta d’un tentativo di selezione intenzionale della taglia del cane che ha portato a cani di taglia piccola, media e grande di cui si può solo ipotizzare l’utilizzo, mentre la grande diversificazione in razze del Canis familiaris risale solo a ca. 200 anni fa (per inciso, e per non confondere sottospecie e razza o per non usarli in modo intercambiabile, s’intenda che una sottospecie è sempre circoscritta a una determinata località dove s’è evoluta in seguito ad isolamento riproduttivo, mentre una razza è un prodotto della selezione artificiale e le barriere d’isolamento non svolgono necessariamente un ruolo nella sua evoluzione). Questa diversificazione è stata ottenuta con l’incrocio di razze diverse (cioè per il tramite d’un processo in cui s’introducono nel pool genico di un cane dei geni appartenenti a un altro cane che possiede un corredo cromosomico diverso, fenomeno detto d’ibridazione, o crossbreeding) e manipolando il momento d’inizio e d’interruzione della crescita e, fatti salvi i limiti della crescita allometrica, ossia della restrizione evolutiva nei confronti della forma che un cane può arrivare ad assumere, tra una razza e l’altra non si notano differenze genetiche apprezzabili. Come dire che nelle varie razze c’è pochissima variazione genetica, tanto che si può affermare che, se i geni sono gli stessi, eseguono però la metamorfosi dal cucciolo alla forma adattiva adulta in tempi diversi (si parla, a questo proposito, di differenze eterocroniche nella progressione temporale dello sviluppo).
Per quanto riguarda la domesticazione, o almeno la mansuefazione, del Gatto selvatico (Felis silvestris) la sua presenza accanto agli umani data con certezza a partire da 9 500-9 200 anni fa, questo grazie al ritrovamento dei resti fossili d’un gatto selvatico africano di 8 mesi, dunque appartenenti alla sottospecie Felis silvestris lybica, ch’è stata introdotta volontariamente nell’isola di Cipro (giacché la fauna autoctona Preneolitica di Cipro non comprende questa specie) in seguito a un’ondata migratoria e colonizzatrice partita dalle coste del Medio Oriente, resti ritrovati nello scavo del sito appartenente all’orizzonte culturale del Neolitico preceramico di Shillourokambos in una sepoltura intenzionale, cioè in una piccola fossa indipendente posta a 40 cm dai resti d’un corpo umano di sesso sconosciuto, là dove lo scheletro del gatto è poi orientato nella stessa direzione dell’essere umano, sepoltura che lascia presumere una convivenza tra gatti e umani nelle società già stanziali della Mezzaluna fertile. Ancora, a conferma e sempre nell’isola di Cipro, nel sito preceramico di Khirokitia (poco lontano dal sito di Shillourokambos), è stato ritrovato un frammento osteologico, un’emimandibola d’un felide di medie dimensioni risalente al VII millennio a.C., la cui analisi morfometrica assicura essere appartenente a un esemplare morfologicamente riferibile a Felis silvestris, come mostra il confronto fra la biometria della mandibola del felide di Khirokitia e le biometrie delle mandibole di alcuni felidi di medie dimensioni ancora oggi diffusi nel Vicino Oriente, il gatto della giungla, Felis chaus, il caracal (un felide del genere lince, Lynx caracal), Caracal caracal e il gatto selvatico, Felis silvestris (nella figura M1, a sinistra, indica la lunghezza, in mm, del dente carnassiale, v. infra; a destra, la lunghezza P3- M1 indica, sempre in mm, quella del ramo mandibolare):



Figura n.  . Fonte: Masseti, 2008, p. 126.

Il Felis silvestris deriva da un Felide ancestrale del Sud-Est asiatico risalente a 10,8 milioni d’anni fa, e si separa dalle altre specie ca. 2 milioni d’anni fa e la sua forma domesticata, il Felis catus, trova poi il suo antenato nella sottospecie Felis silvestris lybica, che è ritenuto quasi all’unanimità essere il suo progenitore; ora, la sua domesticazione certa da Felis silvestris lybica a Felis catus data però, come evidenzia un ritrovamento osteologico in Cina (v. infra), a partire da 5 300 anni fa. Domesticazione che ha poi favorito l’emergere di comportamenti, in ambiente antropogenico, legati alla modulazione della distanza di fuga, secondo lo stesso meccanismo che vale per il Cane (cioè quello della finestra di socializzazione del Gatto, ricordando però che i gatti, a differenza delle specie gregarie, non hanno bisogno di legami sociali prolungati nel tempo e nello spazio con altri membri della stessa specie e che pertanto necessitano di periodi d’imprinting più brevi), e all’apprendimento del rapporto fra stimolo e ricompensa, cioè caccia da agguato agli animali infestanti uguale a cibo fornito dagli umani, fenomeno, quest’ultimo, che si presenta giacché i gatti cacciano anche in assenza della sensazione promossa dal fabbisogno proteico, dato che nel loro comportamento il meccanismo che innesca la fame è dissociato da quello della predazione, come dire che gli stimoli offerti dalla preda, per esempio, gli squittii del topo o un fruscio tra le granaglie, innescano automaticamente un comportamento predatorio; domesticazione, ancora, che ha portato a un mutamento delle funzioni cerebrali in rapporto a una riduzione dell’aggressività e all’emergere del tratto della docilità. Di fatto si tratta d’una autodomesticazione (dunque, una selezione naturale per mutualismo) ch’è legata, come in parte è avvenuto per il cane, alla sua plasticità comportamentale e all’affermarsi della stanzialità e delle società agricole, cioè a un aumento delle disponibilità alimentari carnee, ciò che permette la dieta del gatto che, infatti, è composta per il 70% e oltre da carne, cioè è ipercarnivora o carnivora obbligata (il gatto, infatti, preda esclusivamente vertebrati vivi, soprattutto roditori quali arvicole e topi e, se costretto, la dieta può includere uccelli, rettili e invertebrati), cui s’aggiunga il fatto che i gatti presentano una capacità metabolica limitata a digerire alimenti che non siano proteine, pertanto il loro fabbisogno proteico è elevato, e lo mostrano tanto la loro capacità di metabolizzare i grassi quanto la loro dentizione, cioè i loro denti canini, utilizzati per tagliare le vertebre del collo della preda, e quelli carnassiali, dati questi dall’ultimo premolare superiore e dal primo molare inferiore, allineati in modo tale da funzionare come strumenti trancianti per tagliare via la carne dalle ossa (carne che non è poi generalmente masticata, ma ingoiata per intero). Ora, per capire il comportamento del gatto è necessario valutare la differenza tra area familiare e territorio; un’area familiare (o home range, alla lettera, area o campo di casa), è un areale circoscritto dato dall’orizzonte entro cui si muove il singolo animale nelle sue attività di ruotine ed è definita dal solo fatto d’essere usata e non dal modo in cui lo spazio è utilizzato, senza riferimento, quindi, alla presenza/assenza di comportamenti di difesa; il territorio (o core area, alla lettera, area centrale), invece, è un areale circoscritto per il tramite di marcature territoriali di possesso (olfattive, visive etc.) e difeso con l’antagonismo contro chi lo vìola, e all’interno del quale l’animale, da solo, in coppia, oppure in gruppo, si sposta alla ricerca delle risorse che possono garantirne la sopravvivenza e il successo riproduttivo (e l’intero home range può coincidere con la core area, o, come capita più spesso, può solo includerla al suo interno); le tipologie delle routine e delle strategie di difesa (presenti/assenti) che contraddistinguono i comportamenti degli animali in un areale sono varie, per esempio, tra i mammiferi, ci sono animali che hanno un’area familiare ben definita, ma non una core area, e altri in cui i maschi hanno un comportamento territoriale solo nei confronti d’altri maschi e solo durante la stagione riproduttiva (e pur essendo l’insieme dei conspecifici gregario o sociale in un’area familiare); altri, ancora, ed è ciò che qui interessa, che possono modulare nel tempo e nello spazio la loro territorialità come i gatti; infatti, sopra, s’è detto che i gatti presentano plasticità comportamentale, e questo lo si vede quando l’areale complessivo è povero di risorse trofiche e il gatto tende a un agire territoriale isolato di difesa delle risorse trofiche, cioè con una core area distinta da quella dei conspecifici e che presenta come unici contatti sociali quelli temporanei fra partner sessuali e quelli, anch’essi temporanei, tra madri e figli; così come lo si vede quando s’è in presenza d’un areale ricco di risorse, là dove esiste la condivisione di gruppo del territorio (core area) e laddove si stempera e si riduce la competitività intraspecifica pur rimanendo l’atteggiamento xenofobo, cioè quello di difesa contro i conspecifici che non fanno parte del gruppo, tanto che in questi ecosistemi i gatti arrivano a formare gruppi allargati (dove le femmine imparentate sono dominati, pur senza che s’arrivino a formare rigide gerarchie), là dove esiste, oltre alla condivisione di gruppo della core area, anche l’home range utilizzata dai conspecifici in tempi diversi per evitare fenomeni d’aggressività e di conflittualità, questo perché pare che per regolare le interazioni in quest’area familiare sia sufficiente lo status individuale definito sulla base dell’età, del sesso e della condizione riproduttiva, ragion per cui si può affermare che la modulazione del comportamento territoriale dei gatti è poi dovuta al tasso d’aggregazione, ch’è a sua volta una variabile che dipende dalle quantità delle risorse trofiche disponibili; e storicamente un ambiente ricco di risorse che possa permettere questa formazione di gruppi s’è presentato con la formazione delle società agricole e stanziali, là dove gli istinti territoriali d’un gatto lo possono portare a condividere il suo stesso territorio (core area), posto all’interno dell’area familiare, con degli essere umani che gli offrono del cibo. Come dire che, nello specifico, questa disponibilità trofica in un areale complessivo riguarda e le discariche dei villaggi (i gatti, come i cani, possono cibarsi di rifiuti) e le popolazioni antropocore (v. infra) attirate negli insediamenti umani dove sono presenti rifiuti, ma anche i luoghi dove ci sono semi in produzione e dove sono immagazzinati gli accumuli dei prodotti agricoli conservabili, cioè dove abbondano gli organismi infestanti commensali dell’uomo, quali roditori e uccelli granivori, Topi (Mus domesticus), Ratti neri (Rattus rattus) e Passeri (Passer domesticus), appunto diffusi laddove si presentano anche siti di stoccaggio dei cereali (per esempio, nei siti natufiani di Ain Mallaha e Hayonim, sono stati trovati resti di tutti e tre i citati infestanti, e per inciso, uno dei fattori più probanti dell’avvenuta sedentarietà su base agricola d’una popolazione è dato dal ritrovamento del topo domestico commensale dell’uomo, il Mus domesticus, che rappresenta un esempio di specie autodomesticata grazie al surplus di risorse trofiche immagazzinate). Plasticità comportamentale ch’è di reciproco vantaggio e per i gatti predatori e, soprattutto, per gli umani stanziali che da queste risorse dipendono, risorse che sono così salvaguardate dalla riduzione di quest’infausta pressione predatoria grazie agli istinti territoriali dei gatti e, fattore da non dimenticare, dal miglioramento dell’igiene delle riserve alimentari che la disinfestazione da topi e ratti, effettuata dai gatti, produce (topi e ratti, infatti, sono vettori di malattie e, oltre a cibarsi di granaglie, le deteriorano dal punto di vista igienico con le loro deiezioni, urine e feci, rendendole pericolose a vari gradi per la salute dell’uomo). Si tratta, dunque, d’una autodomesticazione per mutualismo e senza ignorare che i gatti possono aver favorito la presenza d’una selezione postzigotica (v. supra) in quanto presentano poi anche un aspetto invitante per gli umani, questo perché dotati di tratti, quali occhi grandi, muso schiacciato, fronte alta e arrotondata, che ne facilitano e preadattano, se tolleranti alla presenza umana, l’approccio. Ritornando alle risorse trofiche delle società stanziali, i gatti riescono a catturare piccoli animali, i citati topi, per esempio, anche perché hanno una soglia uditiva ch’è in grado di sentirne l’emissione vocale (che, in caso di comunicazione intraspecie, utilizza gli ultrasuoni, dunque secondo una frequenza che non è udibile dagli umani), così come sono in possesso, date le loro abitudini di caccia crepuscolari (sono più attivi all’alba e al tramonto), d’una visione notturna, cioè della capacità di vedere i movimenti in condizioni di scarsa visibilità (in ogni caso, la preda è prima percepita tramite l’udito, che nel gatto è molto sviluppato, e solo in seguito con la vista; il topo di cui sopra, il Mus domesticus, per esempio, ha abitudini di vita notturne, ciò che favorisce nel gatto la sua individuazione). La sede della domesticazione è probabilmente multiregionale, cioè avvenuta in più luoghi e più volte, e si sospetta che una domesticazione dati a partire da 10 000 - 8 000 anni fa nell’area della Mezzaluna fertile (forse regione di provenienza del gatto ritrovato a Cipro), dove si suppone sia avvenuta la domesticazione di Felis silvestris lybica, anche in base al fatto che il gatto selvatico africano ha reputazione di lasciarsi mansuefare più facilmente del gatto selvatico europeo, Felis silvestris silvestris, in ragione delle diverse condizioni di sviluppo della struttura sociale di queste due sottospecie, legate a diversificate condizioni ecologiche e a plasticità, rispetto alla densità demografica, diversamente modulate nel livello di tolleranza specie-specifico; per certo si sa solo ch’è avvenuta nei villaggi agricoli cinesi, dov’è accertata la presenza di magazzini di stoccaggio dei cereali e un ciclo che lega le specie roditrici al miglio e i gatti ai roditori e agli uomini (come è avvenuto nel 5 300 nel villaggio agricolo di Quanhucun, nella regione del Shaanxi, Cina Nordoccidentale, dove è documentata la domesticazione commensale). Si sa, inoltre, che tra il genoma del Felis silvestris e quello di Felis catus non esistono molte differenze, e che, come detto, quelle che esistono investono l’area comportamentale, principalmente la modificazione della distanza di fuga legata alla docilità (v. supra); tanto che, se oltre a quest’effetto proprio al citato aspetto mutualistico, si presenta in seguito, com’è avvenuto per il Cane, anche un vero e proprio mutamento di nicchia ecologica (commensalismo) che porta a un diverso regime alimentare, ecco che il Gatto domesticato è direttamente alimentato da mano umana, ed ecco che compaiono, a seguito dell’assuefazione all’uomo grazie a questo surplus alimentare, le alterazioni nei primi genomi del Felis catus che si traducono nella selezione della docilità e nel già detto meccanismo d’attesa della ricompensa umana per il lavoro svolto, fenomeno che si lega poi all’apprendimento di nuovi comportamenti, alla  regressione ad alcuni tratti infantili nell’individuo adulto (una neotenia, v. supra) e a un raddoppiamento annuale dell’estro (che nel Felis silvestris avviene solo una volta all’anno), cui si sommano le alterazioni morfologiche, quali gli arti leggermente più corti rispetto a Felis silvestris, la riduzione del cervello e una leggera riduzione della taglia e della densità pilifera del mantello, assieme a una variazione nelle sue pigmentazioni, cui s’aggiunga la modificazione del metabolismo dovuto all’allungamento dell’intestino (ovvero una vera e propria sindrome da domesticazione che si suppone legata a un deficit di migrazione delle cellule dalla crosta neurale, v. infra). L’allungamento dell’intestino, per inciso, è probabilmente una conseguenza adattativa a una dieta mista, meno carnivora, che per l’estrazione e l’assimilazione dei principi nutritivi da alimenti alimentari richiede viscere più lunghe, e n’è esempio il miglio comune (Panicum miliaceum, v. infra) che i gatti di Quanhucun si sono abituati a mangiare, com’è stato documentato, quale ricompensa della controparte degli agricoltori alla loro attività di caccia della popolazione murina e aviaria. A prescindere dalla selezione comportamentale per il tratto della docilità e dei suoi effetti a cascata nella sindrome da domesticazione, bisogna poi sottolineare che il Gatto, per le sue abitudini riproduttive e alimentari, non può ad ora ritenersi completamente domesticato (è detto, infatti,  semidomesticato) in quanto, a differenza degli organismi domesticati, non s’evolve nella dipendenza totale dall’uomo poiché mantiene delle caratteristiche adattative specie-specifiche che gli permettono il riadattamento ad un ambiente poco o parzialmente o per niente antropizzato, là  dove possono essere presenti, in assenza d’isolamento, fenomeni d’incrocio con gatti randagi (o ferali) e selvatici, tanto che si ritiene che i gatti rinselvatichiti tendano a evitare qualsiasi contatto diretto con l’uomo riproducendosi allo stato selvatico. Come dire che il gatto, in quanto la sua nutrizione è spesso indipendente dall’attività dell’uomo, al pari della sua riproduzione ch’è solo occasionalmente controllata dall’uomo (il gatto si riproduce come un animale selvatico ed è quindi soggetto più alla pressione selettiva imposta dall’habitat che non a quella antropica), manca di quel tratto dato dalla coevoluzione sociale con l’uomo, cioè la pratica gregaria d’accettazione completa e non relativa a una gerarchizzazione sociale utilitaristica, che lo renderebbe di fatto pari alle altre specie domesticate che sono sociali e gregarie allo stato brado; mancanza di cui è indizio anche il fatto che, mentre i corrispettivi  selvatici di tutte le altre specie domesticate sono ormai estinti (per esempio, il dromedario e il bue, v. supra) o sull’orlo dell’estinzione (come, per esempio, il Canis lupus) il Felis silvestris oggi prospera accanto al Felis catus e gli ibridi abbondano. Come dire, ancora, che i gatti non sviluppano rigidi e complessi comportamenti adatti o allo stile di vita territoriale e solitario o a quello aggregato e sociale, giacché non dipendono mai completamente né da uno né dall’altro di questi stili di vita che si presentano come opposti e implicanti, l’uno e l’altro, ordini sociali fortemente modellizzanti, ma che accettano senza adottarlo l’ordine sociale che s’impone date le disponibilità trofiche mostrando, appunto, una grande plasticità comportamentale. Per quanto riguarda poi le razze domestiche, in tutto tra le 30 e le 40, esse risalgono a non più di 150 anni fa e, a differenza di molti altri mammiferi domestici allevati per fattori funzionali (per la carne, il latte, il trasporto, la caccia o altro ancora), cioè oggetto d’una selezione mirata a uno scopo utilitaristico, la pressione selettiva antropica cui i Gatti sono stati esposti è dovuta a questioni squisitamente estetiche, tanto che il fenomeno di semidomesticazione si può anche spiegare con il fatto che la pressione antropica sull’evoluzione del Gatto è, oltre che storicamente più recente, decisamente meno opportunista rispetto a quella del Cane.
E per finire, una precisazione. S’è già usato, e più volte, il termine mutualismo, e si sottolinea che s’intende parlare con questo termine dell’associazione tra specie animali differenti (qui cane/uomo o gatto/uomo) che comporta un vantaggio per entrambe le specie, e senza che tale rapporto (almeno nella fase iniziale) sia obbligato in quanto le due specie possono vivere anche indipendentemente l’una dall’altra, mentre con commensalismo s’intende invece parlare dell’associazione tra due specie che produce benefici trofici per una sola specie (qui il cane e il gatto, nella loro fase premutualistica). Ed è bene ricordare, tra le altre cose, che mutualismo vuol anche dire che ci si può anche nutrire del cane o del gatto (e, in linea generale, dell’animale che s’alleva), mentre commensalismo in senso lato vuol dire che, anche se non si dà direttamente da mangiare all’animale (qui il cane e il gatto) come si fa con gli animali di compagnia, questo può però nutrirsi con i rifiuti prodotti dall’uomo grazie al controllo del tratto della flight distance, presente anche in altre specie (per esempio, gabbiani, piccioni, ratti e scarafaggi), perché ciò che varia, infine, è solo il tipo di nicchia.

UOMO E AUTODOMESTICAZIONE

L’ipotesi di un’autodomesticazione dell’uomo non è sperimentalmente dimostrabile, ma alcuni fatti documentati la rendono plausibile, nell’ordine, la domesticazione della Volpe argentata, la domesticazione del Cane (di cui s’è detto sopra) e la fenomenologia comportamentale degli Scimpanzé pigmei, o Bonobo (Pan paniscus), tutti casi dove i cambiamenti anatomici e fisiologici osservati sono il risultato d’una selezione (artificiale nel caso delle Volpi, naturale nelle altre due specie) ch’è avvenuta sulla sola base del coinvolgimento di tratti comportamentali, tutti casi dove  la selezione per la docilità, cioè la pressione selettiva, ha prodotto dei cambiamenti ormonali e neurochimici che traducono, a livello biologico, una domesticazione interspecie  (cioè con l’uomo) nelle Volpi e nei Cani e intraspecie tra i Bonobo. Tutti effetti che si possono ipotizzare come marcatori generali della domesticazione giacché diverse specie (per esempio, Maiali, Pecore, Capre e altre, v. infra) hanno risposto, se sottoposti alla stessa tipologia di pressione selettiva, in modo simile, e questo perché i Mammiferi condividono, nonostante le specie, meccanismi simili di regolazione degli ormoni e della neurochimica dell’organismo. Partiamo dalla Volpe, che al pari del Lupo, del Cane, dello Sciacallo, del Coyote e altri, appartiene alla famiglia dei Mammiferi carnivori dei Canidi (v. supra), specificamente dalla Volpe argentata (una variante di colore nero della Volpe fulva, Vulpes vulpes, il cui manto di colore scuro presenta in superfice un colore bianco) che, allo scopo di studiare le modalità di domesticazione  del cane, è stata domesticata a partire dal 1959 in una struttura di ricerca di Novosibirsk, in Siberia, attraverso una selezione artificiale di Volpi già in cattività e virtualmente selvatiche. Selezione, questa, che s’è basata non sulla selezione di tratti morfologici, bensì su tratti comportamentali quali il grado manifesto di docilità di alcune di queste Volpi (generalmente molto aggressive) verso gli umani, cioè attraverso l’accoppiamento degli esemplari ritenuti più mansueti. Il test standard di scelta dei cuccioli prodotti da questo accoppiamento consiste, a partire dall’età di un mese fino ai 7-8 mesi (quando presentano la maturità sessuale), nell’offrire loro del cibo e in pari tempo accarezzarli e coccolarli e, in base alla risposta comportamentale ottenuta, suddividerli in tre classi, come da tabella:

CLASSI
COMPORTAMENTO MANIFESTATO
% DELLA POPOLAZIONE TOTALE
III
RIFUGGONO LE CAREZZE O MORDONO CHI LI ACCAREZZA
90
II
SI LASCIANO TOCCARE, MA IN ASSENZA DI MANIFESTAZIONI AMICHEVOLI NEI CONFRONTI DELL’UOMO
I
SI LASCIANO TOCCARE E PRESENTANO REAZIONI AMICHEVOLI NEI CONFRONTI DELL’UOMO (SI AVVICINANO)
10

Tabella n.   . Fonte (adattata): Trut, 1999, p. 163.

Quelli scelti sono i cuccioli della Classe I che, arrivati in eta riproduttiva, sono fatti accoppiare. Se inizialmente i cuccioli di Volpe in grado di rispondere ai criteri di amicalità stabiliti per rapportarsi agli umani sono poche, dopo solo 6 generazioni d’allevamento selettivo orientato alla docilità le Volpi si sono modificate al punto che viene istituita una nuova classe (l’élite domesticata, IE) e si modificano le scelte, come da tabella:

CLASSI
COMPORTAMENTO MANIFESTATO
SCELTA DEGLI SPERIMENTATORI SULLA POPOLAZIONE ORIGINARIA
III
RIFUGGONO LE CAREZZE O MORDONO CHI LI ACCAREZZA
SONO SCELTI PER CREARE IL GRUPPO DI CONTROLLO (CON IL TRATTO DELL’AGGRESSITÀ [1])
II
SI LASCIANO TOCCARE, MA IN ASSENZA DI REAZIONI POSITIVE NEI CONFRONTI DELL’UOMO
I
SI LASCIANO TOCCARE E PRESENTANO REAZIONI POSITIVE NEI CONFRONTI DELL’UOMO (SI AVVICINANO)
SONO QUELLI INIZIALMENTE SCELTI; MA, A PARTIRE DALLA SETTIMA GENERAZIONE, SI SCELGONO QUELLI CHE CONFLUISCONO NEL GRUPPO IE
IE
SONO ANSIOSI DI STABILIRE CONTATTI CON L’UOMO, CERCANO LA SUA ATTENZIONE, LO FIUTANO E LO LECCANO GIÀ ALLA FINE DEL PRIMO MESE (COMPORTAMENTO DOG-LIKE [2])
SONO QUELLI SCELTI DEFINITIVAMENTE, MA SOLO A PARTIRE DALLA SETTIMA GENERAZIONE DELLA CLASSE I (GRUPPO SPERIMENTALE)

[1] Il gruppo di controllo permette di misurare ogni cambiamento indotto dalla selezione
    sperimentale. Da sottolineare che entrambi i gruppi non sono stati allevati a contatto
    con l’uomo, esclusi il test iniziale e il momento della nutrizione.
[2] Cioè con un comportamento come quello del Cane.

Tabella n.   . Fonte (adattata): Trut, 1999, pp. 160-169.

Ora, verso la decima generazione il 18% delle Volpi sottoposte ad esperimento appartiene alla classe IE, è cioè domesticato, dato che sale al 35% dopo 20 generazioni e al 70-80% dopo 35-40 generazioni; il tutto con effetti collaterali plurimi e apparentemente non connessi prodotti dalla pleiotropia (v. supra), cioè con il fatto che nel corso delle generazioni muta la morfologia in quanto le orecchie diventavano flosce e pendenti, la coda più corta o arricciata all’insù, il colore ritenuto standard del manto muta in marrone o in manti pezzati, i crani si modificano anche rispetto al dimorfismo sessuale e il muso diventa più corto (ma la taglia non si modifica); oltre a questo, si manifesta la ritenzione di caratteristiche infantili (neotenia), la maturità sessuale si manifesta prima, l’estro in un anno raddoppia e la fisiologia si modifica con una riduzione della concentrazione del cortisolo (nella popolazione sperimentale di quattro volte inferiore a quella di controllo), e cui è pari un aumento della serotonina (v. supra). Infine, il comportamento, a partire da quello che si potrebbe definire abbaio, diventa in tutto e per tutto come quello del cane (dog-like) e, ciò che più importa, s’emancipa anche l’evoluzione cognitiva verso i segnali comunicativi umani (questo dopo 18 generazioni e con un comportamento della Volpe domesticata che, a un mese dalla nascita, si dimostra simile a quello d’un analogo cucciolo di cane), ciò che legittima l’ipotesi processuale di domesticazione del Cane come una successione senza soluzione di continuità tra la selezione naturale (che è dominante nei primi stadi della domesticazione) e la soluzione artificiale (che è presente a seguire). Un processo che porta Cani e Volpi domesticate a spostare in modo innato l’abilità a interpretare i comportamenti intraspecie verso quelli interspecie, qui l’uomo. Detto della volpe, per affrontare ora la questione dei Bonobo e dell’ipotesi della loro autodomesticazione, è necessario parlare anche degli Scimpanzé (Pan troglodytes), e della rete sociale che è propria a entrambi questi Pongidi (v. supra). Gli Scimpanzé vivono in bande che, risorse permettendo, possono arrivare fino a 150 individui e coprono un vasto territorio che percorrono alla ricerca di cibo (la dieta è principalmente a base di frutta, ma è compresa anche la carnivoria) e, escluso il rapporto madre/figlio, non esistono fra questi individui dei legami stabili e la femmina, se le è possibile, s’accoppia con vari partner (o poliandria, dal greco πολύανδρος, che ha molti uomini). Tolto questo, i componenti della banda, comprese le femmine, cooperano però fra di loro nella caccia (salvo manifestare interazioni aggressive nel momento della spartizione della carne; la loro preda preferita è poi il piccolo di una scimmia arboricola, il Colobo rosso, o Piliocobius badius, che adulta ha un peso di 5-10 kg), così come collaborano nel presidiare il loro territorio e manifestano ostilità verso gli estranei (o xenofobia) e una forte aggressività nei confronti delle bande confinanti i cui membri possono essere uccisi (a partire dai maschi e dai piccoli, soggetti questi a cannibalismo, però risparmiando, solitamente, le femmine) per occupare il loro spazio vitale, cioè per ridurre la pressione sulle risorse disponibili, tanto che la prima causa di mortalità tra gli Scimpanzé maschi allo stato brado consiste proprio nel tasso d’aggressione mortale dovuto a questa guerra fra bande. Quest’aggressività si manifesta poi anche all’interno delle bande, suddivise per gruppi dai confini incerti, variabili e perennemente in fase di ristrutturazione (secondo un modello detto di fusione/fissione, dove la fusione è data di notte nel dormire tutti assieme e la fissione nella separazione durante il giorno per risolvere le esigenze alimentari) e può esercitarsi con violenza, quali morsi e percosse, nei confronti della femmina in estro appartenente a un maschio di rango del gruppo (e con infanticidi per affermare il controllo spermatico sulla femmina) e, fatte salve le intimidazioni solo esibite, può essere mortale tra i maschi al fine di conquistare la posizione dominante che permette, all’interno d’un gruppo, il controllo gerarchico, la preminenza nel momento della spartizione della carne e il controllo sessuale delle femmine nel periodo dell’estro (che coincide poi con il massimo periodo dell’attività sessuale fra gli Scimpanzé). Come dire che quella dello Scimpanzé è una rete sociale che privilegia il ruolo del maschio dominante e che sottomette tutto a questa logica dominanti vs. dominati (o androcrazìa, dove andro- è dal greco ἀνήρ ἀνδρός, uomo). Per quanto riguarda la specie Pan paniscus (detti anche Scimpanzé pigmei, il che non deve far pensare che siano molto più piccoli del Pan troglodytes, miniaturizzati, giacché si tratta solo d’una leggera riduzione di taglia che porta a una corporatura più esile, a una struttura più slanciata, ad arti in proporzione più lunghi), e fatto salvo che nuovi studi potrebbero rendere la descrizione a seguire idilliaca, negli studi fino ad ora presenti s’afferma che presso i Bonobo la rete sociale privilegia all’interno della comunità il ruolo dominante delle femmine, comunità ch’è poi formata, sempre stando alle risorse disponibili, da un massimo di 80 individui. Le femmine, infatti, intessono fra loro legami d’amicizia secondo un modello ginecocratico (dal greco γυναικοκρατία, composto di γυνή γυναικός, donna e -κρατία, potere), per cui il maschio non può usare l’aggressività per sottomettere le femmine e, in questa rete estesa sul territorio, il Bonobo non è xenofobo, non presidia i confini né esercita scontri territoriali, anzi quando gruppi confinanti s’incontrano si creano alleanze e non stagioni di conflitti territoriali. Il cemento sociale tra i Bonobo non rientra in quella dinamica processuale ch’instaura il rapporto dominante/dominati, ma è dato da un’eccitazione genitale costante (dunque non solo nel periodo dell’estro delle femmine, come per gli Scimpanzé) che si dispiega nella bisessualità e nella pansessualità, cioè in tutte le forme possibili dell’interazione sessuale non riproduttiva e strumentale, sia etero che omosessuale, sia con adulti che con immaturi, inclusi nel repertorio la manipolazione dei genitali propri e altrui, il baciarsi con la bocca e, sporadicamente, la pratica del sesso orale e la copula ventro-ventrale, cioè faccia a faccia, che si credeva propria solo agli umani (questa copula, dove i Bonobo manifestano un assiduo contatto oculare, è poi permessa dall’orientamento frontale dei genitali della femmina, cioè dal fatto che questi non sono orientati verso l’ano come in altri primati). Quest’interazione, promossa e mantenuta dalle femmine (dove l’unico rapporto per loro interdetto è quello del rapporto della madre con il figlio), è anche data dal fatto che le femmine dei Bonobo praticano poi, in funzione d’integrazione sociale fra ranghi diversi, il tribadismo, cioè lo sfregamento della clitoride, spesso faccia a faccia (detto sfregamento genito-genitale, o sfregamento GG), là dove la rivalità maschile è poi risolta spesso con rapporti omoerotici tipo il frottage, cioè lo sfregamento, in posizione faccia a faccia, dei genitali eretti o con lo sfregamento natiche a natiche delle voluminose sacche scrotali, anche se queste tipologie si praticano meno spesso rispetto agli sfregamenti delle femmine tribadi. Sempre riguardo alla sessualità, mentre tra gli Scimpanzé è la femmina ch’esibisce ai maschi il rigonfiamento genitale mensile (l’estro), tanto che all’avvicinarsi dell’ovulazione con il suo corredo olfattivo si scatena l’aggressività dei maschi per il predominio nella copula (che, a differenza dei Bonobo, è ventro-dorsale), questo fenomeno non avviene con le femmine dei Bonobo. Infatti queste, nascondendo l’ovulazione (ossia non facendo coincidere la fase del gonfiore sessuale con l’effettiva ovulazione), impediscono di fatto ai maschi di riconoscere il preciso momento procreativo della copula, ciò che può disincentivare di per sé la competizione. Detto questo, sarebbe però eccessivo definire i Bonobo come non violenti, visto che anche i Bonobo praticano la carnivoria e possono predare scimmie giovani (tra queste, il Cercocebo dal ciuffo, Lophocebus aterrimus), questo senza però mai raggiungere i tassi predatori degli Scimpanzé, e che le femmine, per esempio, per difendersi da un maschio aggressivo, si coalizzano fra di loro e feriscono il detto maschio, anche gravemente (seppure mai in un modo che sia per questi mortale, come capita tra gli Scimpanzé), così come sarebbe eccessivo definire questa società come democratica perché le disparità esistono, come mostra l’ascesa di status d’un bonobo maschio ch’è determinata dal potere gestito dalla madre nel gruppo (o nepotismo), ciò che di fatto facilita l’accesso al cibo. O, ancora, che l’ansia non esista in questa società poiché, per esempio, nei maschi di status sono presenti alti livelli di cortisolo correlati allo stress di ruolo in caso di copula con una femmina in estro, dovuti al fatto che questi maschi devono essere dominanti per controllare la controparte maschile antagonista e devono non esserlo per potersi accoppiare con la controparte femminile appetita. In pari tempo bisogna stemperare, senza nulla togliere alla dominante androcrazia della rete sociale degli Scimpanzé, le affermazioni perentorie che riguardano la loro competitività in quanto tra questi le interazioni pacifiche sono di gran lunga più frequenti di quelle aggressive, la gestualità blandamente minacciosa (cioè scenografica) risulta più frequente di quella apertamente violenta, così come le minacce si verificano più spesso dei veri combattimenti cruenti (e, dopo una lite, di solito uno dei due s’avvicina, dando inizio a una cerimonia di baci, abbracci e toelettatura, o grooming, e se nessuno dei due è intenzionato a fare la pace, spesso un terzo, estraneo alla lite, tenta di consolare uno o entrambi i componenti; se interessa, il grooming è il comportamento di pulizia del mantello svolto reciprocamente per il tramite della lingua, dei denti e delle unghie, comportamento che assume poi un significato di consolidamento dei legami o di riaffermazione delle gerarchie tra i membri di un gruppo sociale). Detto tutto questo, l’antenato ancestrale di questi Pongidi è lo stesso, e sul piano genetico gli Scimpanzé e i Bonobo sono quasi identici (la differenza tra i due genomi è dello 0,4% e la divergenza fra i due è poi avvenuta per speciazione allopatrica a causa delle barriere fluviali del Congo che ha resi isolati i loro areali tra 1,5 - 1,3 milioni d’anni fa, altri dice meno di un milione d’anni fa, v. infra), eppure gli uni sono aggressivi come il Canis lupus (anche tra i Lupi, per inciso, una delle maggiori cause della mortalità è nell’aggressività maschile intraspecie fra branchi confinanti o fra individui per il controllo delle femmine in calore) e gli altri paiono domesticati come il protocane e il Canis familiaris (che, sempre per inciso, non ricorrono all’aggressività diretta, non cacciano, hanno una maggiore attività sessuale e sono promiscui). C’è dunque un qualcosa che ha reso i Bonobo meno aggressivi degli Scimpanzé, come se fossero Scimpanzé autodomesticati. Ora, analizzando le differenze anatomiche tra Scimpanzé e Bonobo, s’è notato che i canini sono meno sviluppati e che il cranio dei Bonobo può essere più piccolo anche del 15% rispetto a quello degli Scimpanzé, inoltre il dimorfismo sessuale è poco accentuato e sono poi presenti tratti neotenici come la testa che ha una forma arrotondata e la faccia ch’è meno sporgente, oltre a una riduzione del pigmento nelle labbra che diventano rosa, fenomeni, come visto, che si possono riscontrare anche in un’intera categoria d’animali domesticati, ciò che ha portato all’ipotesi dell’autodomesticazione dei Bonobo. Quest’ipotesi è stata testata poi analizzandone anche le differenze comportamentali e una serie d’alterazioni, specificamente quella dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (o Hypothalamic-Pituitary-Adrenal axis, HPA; per inciso, questo asse regola la risposta individuale di stress a una situazione potenzialmente pericolosa che potrebbe sfociare nella logica fight or flight) e quella del sistema serotoninergico. Per spiegare quest’ipotesi dell’autodomesticazione dei Bonobo partiamo dal fatto che la selezione naturale privilegia chi si riproduce di più, tanto che la nozione della sopravvivenza del più adatto non va necessariamente coniugata con la forza e l’aggressività a svantaggio del più debole perché, come visto per il Canis lupus e la Vulpes vulpes, è proprio la riduzione dell’aggressività che ha favorito e incentivato la riproduzione (e, nel caso del Canis lupus, con una riduzione evolutiva della distanza di fuga ne ha favorito, in una nuova nicchia, la sopravvivenza), per cui si può ipotizzare che una specie selvatica possa, in una nicchia dove è più facile l’accesso alle risorse trofiche, autodomesticarsi. E a questo proposito bisogna sottolineare che l’areale dello Scimpanzé (nella foresta tropicale che degrada a savana) s’estende dalla Sierra Leone fino ai laghi Vittoria e Tanganica, là dove le risorse, in caso di scarsità e pur con diete relativamente diverse, sono contese con il Gorilla (i primi sono frugivori, cioè s’alimentano principalmente di frutta, i secondi sono folivori, ossia hanno un’alimentazione a base di foglie), mentre l’areale del Bonobo, nella foresta pluviale, di suo più ricca in tutte le stagioni di risorse alimentari, è nella Repubblica democratica del Congo (ex Zaire), specificamente nella parte orientale del bacino del fiume Congo (Zaire), e a Sud del fiume Congo non ci sono Gorilla con cui competere per il cibo. L’assenza dei Gorilla in questa biocenosi è poi spiegata dal fatto che questo habitat è pianeggiante, senza rilievi montuosi, giacché i rilievi montuosi sono solo presenti a partire dalla riva destra del fiume Congo, per esempio, i Monti Virunga, ed è questo dato che ha cambiato il destino dei Gorilla sulle due rive; infatti, la topografia ha permesso al Gorilla della riva destra, a partire dalla siccità impostasi con il cambiamento climatico di 3-2,5 milioni d’anni fa, ripresentatosi ca. 1 milione d’anni fa, di potere sopravvivere trovando in una nuova nicchia le risorse alimentari della sua dieta folivora, ora mancanti in pianura, solo a quote più alte, sui 2 000-4 000 m; ciò che però ha al contempo impedito ai Gorilla presenti nella riva sinistra di trovare nuove nicchie, dunque la possibilità di potere sopravvivere; questo a differenza degli Scimpanzé e dei Bonobo che possono sopravvivere con una dieta frugivora nelle foreste sul piano, sulle due rive del fiume. Ora, il fatto dell’assenza del Gorilla, vale a dire il non dover competere per l’accesso alle risorse (e laddove un Gorilla adulto, che consuma in media più di 30 kg quotidiani di risorse, potrebbe essere un forte competitore), sommato al fatto che la dieta dei Bonobo è diversa da quella degli Scimpanzé, questo visto che aggiunge, al cibo di cui entrambe le specie si cibano, alimenti ricchi di fibre quali foglie giovani e steli d’erba (come mostra anche l’apparato masticatorio ch’indica che sono e frugivori e folivori), dà origine a una meccanica che può modificare i rapporti intraspecie e potrebbe disincentivare il vantaggio evolutivo dei maschi aggressivi che lottano per le risorse. Questo facendo emergere, in un ecosistema isolato quale è la fitta foresta tropicale, là dove non esistono transizioni verso zone meno fitte (come nella parte sulla riva destra del Congo), dove le risorse trofiche sono abbondanti tanto da rendere inutile la competizione per l’accesso alle risorse, il tratto della docilità come fattore vincente di successo riproduttivo, e solitamente le femmine dei Bonobo mostrano una predilezione per i maschi mansueti. Come dire che in questo ecosistema isolato l’aggressività maschile verso le femmine e gli altri maschi modifica, ma in negativo, la capacità riproduttiva e di sopravvivenza (o fitness) tanto che i maschi meno aggressivi, soprattutto se alleati con le madri, possono mostrare, al contrario, un incremento della fitness. Tutto questo fatto salvo il fatto che, s’è assai azzardato il comparare le risorse odierne con quelle del passato (ossia affermare che i Bonobo hanno avuto nel loro habitat, la ricca foresta tropicale a sinistra del fiume Congo, varietà e quantitativi di frutta superiori a quelli dell’habitat degli Scimpanzé a destra del fiume Congo, ch’è relativamente più spoglio e più secco, quindi meno produttivo), non lo è dire che i Bonobo non sono stati costretti come gli Scimpanzé a contendere con altri Pongidi per le risorse (né, come gli Scimpanzé, sono stati costretti a inventare e utilizzare strumenti per aumentare la disponibilità trofica, lo stesso di certe società di cacciatori-raccoglitori che sono state trattenute entro un’economia di sussistenza e non di produzione, cioè entro un’economia basata sul prelevamento e l’appropriazione delle risorse spontanee grazie alla loro abbondanza com’è stato il caso, per esempio, dei popoli della foresta pluviale, detti Pigmei, che hanno trovato il loro sostentamento spostandosi nella fascia tropicale ed equatoriale dell’Africa), il che è dire che è in ogni caso un surplus trofico ciò che farebbe la differenza tra il manifestarsi dell’aggressività e della docilità. La figura seguente mostra la localizzazione e l’estensione degli areali sopra citati:


Figura n.   . Fonte: Wrangham e Peterson, 1996, p. 222.

Detto questo, analizzando il comportamento verso il cibo di Scimpanzé e Bonobo, s’è poi potuto anche dimostrare che, conseguentemente, il primo è competitivo e il secondo collaborativo; infatti, in un esperimento per testare l’ipotesi della domesticazione dei Bonobo sono stati fatti entrare a turno, in una a stanza con del cibo in un piatto unico, prima una coppia adulta di Scimpanzé e poi una coppia adulta di Bonobo, e gli Scimpanzé si sono mostrati competitivi poiché uno dei due cercava d’accaparrarsi tutto mentre, al contrario, i Bonobo si sono mostrati collaborativi in quanto condividevano sempre il cibo, per di più giocando nel contempo tra di loro. Prelevando poi loro campioni di saliva al fine d’analizzare la fisiologia del comportamento di queste coppie, gli Scimpanzé mostravano un aumento di testosterone e i Bonobo un aumento di cortisolo; ora, il testosterone è un ormone secreto dai testicoli e rappresenta, nei mammiferi, il principale ormone sessuale maschile (è un ormone androgeno) e, tra altre funzioni, entra anche in gioco nei comportamenti di dominanza, cioè nei ruoli competitivi e antisociali, dove può essere correlato ad un aumento dell’aggressività, come è stato mostrato nell’assunzione d’un ruolo chiuso al diverso da sé proprio agli Scimpanzé nel momento della spartizione del cibo (e se, allo stato brado, il gruppo è misto, e indipendentemente da chi ha trovato il cibo, è sempre un maschio che se ne impossessa). Nei Bonobo, al contrario, sono invece aumentati i livelli di cortisolo (v. supra), ciò che indica non un ruolo competitivo e antisociale, bensì un momento d’interazione sociale di tolleranza che produce uno stress che si cerca di controllare per il tramite d’una attività ludica che previene la competitività e favorisce la cooperazione, cioè l’assunzione d’un ruolo aperto alla condivisione sociale del cibo, come dire che la selezione autodomesticante del tratto della docilità potrebbe in parte spiegare la variabilità nella capacità di cooperazione tra le specie che si può qui analizzare data la diversa fisiologia dei Bonobo e degli Scimpanzé. Ma non solo la fisiologia è in grado di convalidare l’ipotesi dell’autodomesticazione giacché altre sperimentazioni hanno mostrato che i Bonobo sono attratti dagli estranei, capaci di flessibilità cooperativa e d’intelligenza sociale (anche con l’uomo; infatti, è più probabile che un Bonobo, e non uno Scimpanzé, guardi nella direzione d’un uomo) e questo significa che i Bonobo sono più sensibili all’informazione sociale e per questo dotati di abilità impensabili per uno Scimpanzé. Ed è alla fin fine più che probabile che queste differenze anatomiche, fisiologiche, comportamentali e cognitive tra i Bonobo e gli Scimpanzé siano probabilmente tali a causa dei cambiamenti evolutivi manifestatisi come un prodotto secondario dell’autodomesticazione, alla stessa stregua di ciò che è capitato nelle Volpi domesticate e nei Cani. Ora, assodato che l’aggressività può fortemente ostacolare e interferire con il potenziale cognitivo per potere risolvere dei problemi sociali e che la selezione sulla reattività emozionale (cioè il passaggio alla docilità), al contrario, influenza positivamente la capacità cognitiva di risolvere i problemi sociali, la domanda è se la sindrome dell’autodomesticazione può spiegare anche l’evoluzione cognitiva e fusionale del genere umano (il cui fondamento si trova nel bambino che, nel primo anno di vita, sviluppa delle competenze sociali che gli consentono di comunicare e d’apprendere dagli adulti che lo curano e che, già a 14 mesi, manifesta una forte motivazione a cooperare, là dove la comunicazione, la cooperazione e le meccaniche fusionali sono poi il cemento di qualsiasi società; intendendo poi con fusione il rapporto, tipico delle prime fasi dello sviluppo affettivo, in cui il bambino non differenzia tra sé e l’altro, e la madre, grazie anche al meccanismo dell’ossitocina (v. supra) che questo legame permette, interpreta e soddisfa i bisogni dell’oggetto di cura; fase che il bambino deve superare, pena la mancanza di differenziazione tra il sé e l’altro). E la risposta è sì se solo si suppone che il tratto della docilità (che si traduce come tolleranza verso il diverso da sé) abbia preceduto l’evoluzione di forme cognitive complesse che, di fatto, sono inutili alla sopravvivenza della specie se per caso i componenti d’una società non la supportano con la cooperazione fra di loro. Questo perché è sempre estremamente dispendioso per il metabolismo d’un individuo mantenere un cervello capace di complesse abilità cognitive, cervello che per altro sarebbe già stato eliminato dalla selezione naturale se il cooperare fra gli individui non fosse stato un tratto pervasivo e incentivante della specie. Oltre a questo, si sa anche che la cooperazione, senza la tolleranza verso l’altro, è di fatto un evento sociale impossibile a realizzarsi, e questo presuppone che, per permetterla, sia avvenuta a monte l’individuazione, l’estromissione o l’eliminazione degli elementi perturbanti, cioè intolleranti (come fanno le femmine dei Bonobo con i maschi aggressivi). Si può poi presupporre, ancora, che dopo questa prima ondata di selezione, ne sia avvenuta un’altra ch’è intervenuta direttamente sulle differenze individuali a livello di cognizione sociale permettendo alle potenzialità cognitive prima inespresse d’esplicarsi in innovazioni (tecnologiche o altro), ed è a partire da questa seconda ondata che in isolamento sessuale dagli individui aggressivi continua a riprodursi all’interno del gruppo sociale il tratto della tolleranza e della cooperazione che permette d’accudire una prole più numerosa e geneticamente differenziata grazie all’aumento delle capacità comunicative, delle risorse alimentari dovute all’attività cooperativa ch’è in grado di controllare demograficamente il farsi d’una nicchia via via più estesa (e s’ipotizza questo sulla falsariga delle tappe dell’evoluzione da Lupo a protocane, che sarebbe qui la prima ondata, e da protocane a Cane da lavoro, identificata come seconda ondata, là dove i Cani da lavoro collaborano in modo flessibile con l’uomo a differenza dei protocani che sono non cognitivamente interessati, e sempre avendo come riferimento l’uomo). Detto questo, quando poi sia accaduta questa selezione evolutiva sulle dinamiche emotive, come quelle che controllano la paura e l’aggressività e quando e come si sia manifestata l’emarginazione degli elementi perturbanti la cooperazione sociale e la conseguente pressione selettiva sulla docilità che ha permesso, alla fin fine, che la cooperazione si manifestasse come una strategia consolidata nell’evoluzione della nostra specie, tutto questo non si sa perché molto dipende dal corredo genetico dell’ultimo antenato avuto in comune con Bonobo e Scimpanzé. In ogni caso, e di là dalle ipotesi, l’uomo moderno, rispetto ai reperti fossili di 200 000 anni fa, mostra uno scheletro longilineo e leggero, ossia con ossa più sottili, volta cranica alta e arrotondata con riduzione delle sovrastrutture ossee, quali le arcate sopraorbitali e la superficie del piano nucale (alla base del cranio), e della faccia, denti più piccoli e più ravvicinati, tutti indizi delle modificazioni morfologiche che sono diagnostici della domesticazione d’una specie (v. supra) e che sono compatibili con la sindrome della domesticazione (v. infra). Altri dati affermano poi che a partire da 50 000 anni fa, quando Homo sapiens ha già iniziato il suo percorso di colonizzazione, il cervello umano s’è ridotto del 10-30%, giusto quando Homo sapiens è in possesso del linguaggio e produce manufatti complessi che presuppongono alti tassi d’una persistente cooperazione sociale. Volendo, almeno per certi tratti, si può dunque ipotizzare di cooptare anche l’uomo in questa sindrome da domesticazione, giacché si suppone che i citati cambiamenti nella morfologia cranio-facciale del genere Homo sapiens siano il sottoprodotto d’una riduzione dell’aggressività simile a quella osservata nelle Volpi, nei Cani e nei Bonobo, cioè rimandino a una riduzione della reattività agli androgeni, ossia a bassi livelli di testosterone in circolazione negli adulti, riduzione che a sua volta riflette il percorso evolutivo dall’aggressività alla tolleranza sociale intraspecie. E, con la cooperazione così facilitata, si può anche ipotizzare che in un modello demografico evoluto che preveda una trasmissione culturale condizionata dal tasso d’interazione e fusione tra i membri della popolazione, possa emergere un accumulo d’innovazioni tecnologiche tra di loro legate. Questo anche perché esiste un vincolo biologico, dato dalla maggiore competizione per le risorse tra conspecifici, che riguarda strettamente l’andamento dell’incremento demografico in un dato areale; il che è dire che alti livelli di tolleranza sociale sono il prerequisito necessario per una vita sociale che si manifesti là dove sono presenti questi incrementi demografici, giacché una più alta densità della popolazione richiede un azzeramento dell’aggressività e l’emergere di tutto un repertorio di comportamenti cooperativi codificati che si traduce, oltre che in una struttura sociale, anche in un’evoluzione tecnologica legata a questa struttura e imprescindibile per la sopravvivenza della popolazione in aumento (stando almeno all’ipotesi del materialismo storico (v. infra). Evoluzione tecnologica che, a sua volta, richiede espressamente che le potenzialità cognitive preesistenti, fatti salvi i limiti di specie, non siano ostacolate dalla concorrenza per la conquista delle risorse, cioè da un’intolleranza intraspecie in vista dell’accaparramento, bensì che siano coadiuvate dalla capacità di cooperare in vista d’un vantaggio comune (come del resto s’è visto sopra a proposito della selezione della docilità ch’inibisce una reattività emozionale permettendo la risoluzione dei problemi che via via si presentano). Detto altrimenti, si può ipotizzare che il cambiamento comportamentale verso la tolleranza possa permettere ai componenti d’una struttura sociale d’utilizzare le preesistenti abilità cognitive in una nuova serie di contesti, qui l’incremento demografico nel suo rapporto con le risorse. Questa catena logica d’ipotesi è tutta o quasi da dimostrare, ma, se è vero che le sopravvissute società di caccia e raccolta sono società che non hanno un leader o un individuo dominante decisore per tutti e cooperano fra di loro per elaborare strategie che portano a ostracizzare, ripudiare ed eventualmente uccidere chiunque tenti d’imporsi con la forza per dominarli, allora è più che probabile che il tratto della tolleranza ci abbia permesso l’evoluzione cognitiva come effetto a lato dell’autodomesticazione, questo visto che le società di caccia e raccolta hanno accompagnato quasi per intero  (più di 2 milioni d’anni) l’evoluzione della specie Homo sapiens, tranne che negli ultimi 12 000 anni, quelli che partono dalla nascita dell’agricoltura e delle società stanziali. Che poi in questi ultimi 12 000 anni, nelle società che si fanno storiche, la cooperazione abbia permesso anche un’evoluzione cognitiva raffinata capace di tradurre operativamente, a vantaggio dei pochi, la cooperazione dei molti come un tratto imposto o con la coercizione o con l’abilità manipolatoria delle emozioni fusionali intrecciate con le strutture cognitive, questa è poi tutta un’altra storia (in gran parte già documentata). In ogni caso, ci si ricordi sempre, quando si parla d’incrementi demografici e di cooperazione sociale, degli Scimpanzé e dei Bonobo, in quanto s’è vero che lo Scimpanzé può comprendere un problema, è anche vero, a differenza dei Bonobo, che spesso non riesce a risolverlo a causa della sua reattività emotiva che lo obbliga a non collaborare con i conspecifici.
SINDROME DA DOMESTICAZIONE

Nella tabella seguente si riassumono, per punti, le principali modificazioni sopra citate che, anche
se non in modo uniforme, sono presenti in tutte le specie che passano da uno stato selvatico a uno stato domestico:

TRATTI DISTINTIVI
MODIFICAZIONI (CARATTERISTICHE DI MASSIMA)
MORFOLOGIA
CAMBIAMENTI NELLE DIMENSIONI DEL CORPO (RIDUZIONE DELLA TAGLIA CORPOREA), CON LA DIMINUZIONE DELLA ROBUSTEZZA SCHELETRICA
RIDUZIONE DELLA CAPACITÀ CRANICA (E RIDUZIONE DELLE DIMENSIONI TOTALI DEL CERVELLO E DI PARTICOLARI REGIONI DEL CERVELLO, CIOÈ DELLA PARTE ANTERIORE, COMPRESI GLI EMISFERI CEREBRALI, IL TALAMO E L’IPOTALAMO) [1]
ACCORCIAMENTO DELLA REGIONE FACCIALE DEL CRANIO, INCLUSE LE MASCELLE (CAMBIAMENTI CRANIO-FACCIALI), TALVOLTA ASSOCIATA CON AFFOLLAMENTO DEI DENTI E RIDUZIONE DELLE DIMENSIONI DEI DENTI [2]
RIDUZIONE DEL DIMORFISMO SESSUALE
VARIABILITÀ DI FORMA E DIMENSIONE DELLE CORNA [3]
ALLUNGAMENTO SPROPORZIONATO DELLE ORECCHIE [4]
INDEBOLIMENTO DELLA CARTILAGINE CHE PORTA A ORECCHIE FLOSCE [5]
MUTAMENTI NELLA CARTILAGINE DELLA CODA (ACCORCIAMENTO, ARRICCIATURA, ETC.)
AUMENTO NELLA VARIABILITÀ DI COLORE DEL MANTELLO (DEPIGMENTAZIONE, SPECIALMENTE MACCHIE BIANCHE, REGIONI MARRONI [6]) E DELLA STRUTTURA DEL PELO [7]
FISIOLOGIA
AUMENTO DEL DEPOSITO DI GRASSO (SOTTOCUTANEO E INTRAMUSCOLARE) [8]
MIGLIORI PRESTAZIONI FISIOLOGICHE, TRA CUI L’ALLATTAMENTO
PRECOCITÀ, STAGIONI DI RIPRODUZIONE ESTESE (CICLI DI ESTRO NON STAGIONALI) [9] E MAGGIORE STIMOLAZIONE SESSUALE
ALTERAZIONE DEI LIVELLI ORMONALI (ORMONE ADRENOCORTICÒTROPO [10]), MODIFICAZIONE DELLE CONCENTRAZIONI DI NEUROTRASMETTITORI
COMPORTAMENTO
MANTENIMENTO DI COMPORTAMENTI GIOVANILI IN ETÀ ADULTA (NEOTENIA)
RIDUZIONE DELL’ATTIVITÀ MOTORIA
RIDUZIONE DELL’AGGRESSIVITÀ INTRASPECIFICA, SPECIALMENTE NEI MASCHI
AUMENTO DEL TRATTO DELLA DOCILITÀ

[1] Presentano questo fenomeno, per esempio, ratti, conigli, maiali, pecore, capre, bovini, yak (v. infra), lama,
cammelli, cavalli, asini, gatti, cani.
[2] I denti ridotti si ritrovano in topi, cani e maiali.
[3] Questa modificazione si ritrova in bovini, pecore e capre e questo si riflette in modificazioni del cranio (il
corno è costituito da una guaina di cheratina che ricopre il nucleo osseo, ossia è un processo dell’osso frontale).
[4] Fenomeno presente nei mammiferi domestici più comuni, ad eccezione del cavallo.
[5] Le orecchie flosce si ritrovano in conigli, cani, volpi, suini, ovini, caprini, bovini, asini.
 [6] La depigmentazione, per esempio, si ritrova in topi, ratti, conigli, cani, gatti, volpi, maiali, pecore, capre,
bovini, cavalli, cammelli.
[7] Per esempio, nelle pecore domestiche a pelo lungo, la muta spontanea del pelo all’inizio dell’estate è andata
perduta, e il pelo cresce di continuo; nei cavalli domestici il pelo della criniera e della cosa s’è allungato di molto
etc.
[8] Nella pecora il grasso si sviluppa anche nella coda.
[9] Presentano cicli di estro più frequenti, per esempio, topi, ratti, cani, gatti, volpi, capre.
[10] Ormone di natura polipeptidica, prodotto dal lobo anteriore dell’ipofisi, che stimola l’attività funzionale della
corteccia surrenale (Adenocorticotropic Hormone, ACTH) ed è implicato nella produzione e nel rilascio di
cortisolo (v. supra).

Tabella n.   . Fonte (adattata): Leach, 2003, p. 349; Wilkins et alii, 2014, p. 795; Clutton-Brock, 2001, pp. 50-54.

Questo è un insieme coerente di tratti che si presentano assieme in un pacchetto ereditario e si classifica come sindrome da domesticazione (Domestication Syndrome, DS), in quanto indica un complesso caratteristico di sintomi che ha un preciso riferimento alla sua causa (la selezione del tratto comportamentale della docilità); per potere però spiegare il meccanismo di comparsa di questa sindrome, che s’è visto essere un fenomeno non previsto quando s’è avanzata la scelta d’una modificazione del solo comportamento, s’è dovuto ricorrere a un’ipotesi (basata sulla domesticazione delle volpi sopra citata) che prende il nome dalla cresta neurale. Per capire quest’ipotesi, è però necessaria una spiegazione che riguarda il fenomeno dell’epigenesi, cioè il fenomeno dello sviluppo d’un organismo a partire da una cellula indifferenziata, cioè al fenomeno che rimanda a come s’evolve, nei mammiferi, un embrione. È pertanto necessario sapere che l’embrione (ossia l’organismo in via di sviluppo derivato dall’unione dei gameti maschili e femminili) si forma a partire da una cellula fecondata e dalle sue ripetute divisioni cellulari e con il differenziamento, a seguire, delle cellule prodotte, ciò che porta l’embrione ad acquisire le strutture tipiche della sua specie (ontogenesi), vale a dire i tessuti, gli organi e le strutture necessarie per la sua sopravvivenza nel tempo. Nello specifico, nella prima divisione cellulare s’origina una massa di cellule, tutte dotate dello stesso patrimonio di geni, detta mòrula, le cui cellule sono poi pluripotenti in quanto sono grossomodo in grado di trasformarsi in un qualsiasi tipo cellulare dell’organismo adulto (e sono dette cellule staminali; per inciso, la cellula uovo fecondata, lo zigote, è una cellula staminale totipotente avendo in sé la potenzialità di formare un intero organismo; le cellule della massa cellulare interna sono le citate cellule staminali pluripotenti, e queste possono poi subire un’ulteriore specializzazione dando origine a cellule staminali multipotenti, cioè dotate d’una specifica funzione). È poi in queste cellule della morula che inizia il processo di differenziamento, e questo processo è poi regolato da uno specifico gruppo di geni, detti omeotici,  che hanno il compito di controllare la sintesi di proteine che, a loro volta, hanno un effetto di controllo sull’attività delle altre cellule, cioè ne determinano la specializzazione secondo un percorso piuttosto che un altro, specializzazione che dipende poi dalla combinazione dei geni omeotici d’una popolazione cellulare che s’esprime in una data regione. Come dire che i geni omeotici controllano il piano generale di sviluppo d’un organismo, i Baupläne di cui s’è detto sopra, determinando il destino di interi gruppi di cellule durante lo sviluppo dell’embrione, o embriogenesi (da ricordare poi che tra questi geni regolatori si trovano alcune sequenze nucleotidiche caratteristiche, dette homoeobox, molto simili in tutti gli organismi eucarioti, dagli invertebrati ai vertebrati, ciò che dimostra che almeno alcuni processi genetici dello sviluppo sono comuni a tutto il regno animale). Infatti, nel Bauplan dei mammiferi le prime suddivisioni dell’embrione sono permesse dall’organizzazione spaziale ch’è a sua volta determinata da alcuni segnali molecolari che sono distribuiti in regioni dove viene controllato o il silenziamento o l’attivazione di specifici geni omeotici, i quali, codificando per proteine capaci di legarsi al DNA nucleare, sono di conseguenza, capaci di regolarne l’espressione promuovendo il differenziamento cellulare, il tutto al fine d’istituire una corretta formazione dell’embrione pluricellulare (per fare un esempio, la specificazione delle strutture del corpo dalla regione cefalica a quella caudale, in quello ch’è detto asse antero-posteriore, avviene a opera dell’attivazione differenziata di un particolare insieme di geni omeotici, detti geni hox). Come dire che la riorganizzazione dei territori embrionali è dovuta essenzialmente al fenomeno della migrazione di popolazioni di cellule; infatti, nella fase successiva alla formazione della morula, si forma al centro di questa una cavità, detta blastocèle, cui segue una fase di riarrangiamento e di migrazione cellulare, o gastrulazione, dove le cellule, al fine di formare il piano strutturale definitivo dell’organismo, s’organizzano in tre strati, o foglietti germinativi (o embrionali, v. anche supra), vale a dire un foglietto esterno, l’ectoderma; uno intermedio, il mesoderma (in cui s’origina anche un tessuto connettivo embrionale lasso formato da una popolazione di cellule sparse in un’abbondante sostanza intercellulare, il mesenchima) e, infine, uno interno, l’endoderma. Come dire che la migrazione cellulare all’interno formerà gli organi endodermici e mesodermici e quella all’esterno quelli ectodermici, tanto che da questi foglietti embrionali si differenziano poi i gruppi di tessuti che saranno presenti nell’organismo completo; in linea generale, dall’ectoderma s’originano il tessuto della cute e il sistema nervoso; dal mesoderma si formano il tessuto osseo e cartilagineo, i muscoli, le gonadi, gli organi escretori, mentre dal mesenchima si formano tutti i tessuti di tipo connettivale; infine, dall’endoderma deriva il tubo digerente e il rivestimento epiteliale delle vie respiratorie. Nei mammiferi esiste poi un fenomeno di migrazione cellulare che si presenta quando l’ectoderma, ch’è destinato a formare il cervello e il midollo spinale, seguendo il citato processo di gastrulazione grazie al quale un territorio cellulare situato all’esterno si ripiega all’interno, s’invagina migrando sotto la superficie dell’epidermide arrivando a formare il tubo neurale (processo detto di neurulazione). È poi da entrambi i lati dorsali di questo tubo neurale che si differenziano in seguito le popolazioni delle cellule della cresta neurale che, migrando a loro volta in altre parti del corpo (regolate, in questo, da numerosi fattori di trascrizione e svariate molecole che danno la possibilità d’esprimersi a oltre 100 geni), arrivano ad avere un ruolo fondamentale nello sviluppo di mandibole, denti, orecchie e melanociti (cioè delle cellule dello strato basale dell’epidermide, che sintetizza e secerne la melanina presenti nel sistema tegumentario che forma il rivestimento esterno del corpo degli animali), così come ai gangli dei nervi e del Sistema nervoso, alla midollare del surrene e altro ancora. La figura seguente mostra una sezione trasversale di un embrione ch’illustra l’avvenuta formazione, tra l’ectoderma e l’endoderma, del tubo neurale e la struttura della cresta neurale (in figura sono citati anche i somìti, cioè i segmenti in cui si suddivide la parte dorsale del mesoderma, a destra e a sinistra della corda dorsale, o notocorda, v. supra):


Figura n. . Fonte: Tortora e Derrickson, 2011, p. 537.

Là dove, ancora, un’alterazione della cresta neurale, per deficit dello sviluppo o della migrazione cellulare, può arrivare a causare la depigmentazione di alcune aree della pelle, la malformazione della cartilagine delle orecchie, alcune anomalie dei denti, alterazioni nello sviluppo della mandibola e, indirettamente, un non corretto sviluppo cerebrale o una riduzione o una lenta maturazione delle ghiandole surrenali (quelle che producono l’adrenalina necessaria alla risposta di attacco o fuga, cioè alla reazione fight or flight), ossia molti dei tratti della sindrome da domesticazione e, sebbene le cellule della crosta neurale non siano precorritrici dirette d’una qualsivoglia parte del Sistema nervoso centrale o della corteccia surrenale, in ogni caso giocano un ruolo importante nello sviluppo di questi tessuti per il tramite delle interazioni postmigratorie che riguardano lo sviluppo dell’embrione, cioè la sequenza dei processi d’accrescimento, di differenziamento e di sviluppo degli organi (o organogenesi) che inizia, come detto, dopo la gastrulazione e che conduce alla formazione d’un organismo. L’ipotesi consiste dunque nel supporre che gli animali domesticati possano presentare una riduzione dello sviluppo in ingresso delle cellule della cresta neurale corrispondenti ai tratti del pacchetto ereditario (un deficit cellulare) o averle comunque meno efficienti per difetti di migrazione, ragion per cui gli effetti fenotipici prodotti da questa popolazione di cellule embrionali proprie alla crosta neurale potrebbero manifestarsi come un effetto collaterale e secondario della domesticazione, cioè della selezione comportamentale del tratto della docilità (come s’è verificato nelle volpi domesticate nella struttura di ricerca di Novosibirsk, in Siberia); o, detto altrimenti, l’ipotesi suggerisce che la selezione iniziale per la docilità porti a un deficit cellulare nella cresta neurale dovuto a molteplici varianti genetiche preesistenti che influenzano il numero di cellule della cresta neurale nei siti finali, e che questa ipofunzione della cresta neurale alla fine produce, come sottoprodotto non selezionato, le variazioni morfologiche della pigmentazione, delle mascelle, dei denti, delle orecchie etc.; si sottolinea però che quest’ipotesi della cresta neurale, che riesce a spiegare direttamente o indirettamente il repertorio della sindrome da domesticazione, non riesce a trovare un meccanismo esplicativo per le code che si presentano arricciate nei cani e nelle volpi domesticate, e a cavatappi nei maiali (v. infra), in quanto non esiste un rapporto causa/effetto dovuto a un deficit della popolazione cellulare della cresta neurale. La figura seguente illustra lo sviluppo schematico della sindrome da domesticazione in relazione alla cresta neurale d’un cane; il tubo che parte dal cervello e arriva alla coda indica la posizione approssimativa della cresta neurale nell’embrione precoce, mentre le frecce indicano i vari percorsi di migrazione delle cellule della cresta neurale; sono segnalate, in alto e da sinistra a destra, le orecchie flosce, il tubo neurale/midollo spinale e la posizione iniziale della crosta neurale embrionale, a destra e dall’alto in basso, le già citate orecchie flosce dovute a un indebolimento della cartilagine), il muso accorciato e le ridotte dimensioni dei denti e, in basso, da sinistra a destra, le alterazioni della pigmentazione del mantello, i gangli del Sistema nervoso simpatico, le ghiandole surrenali e, segnalato sotto la coda, l’accorciamento e la curvatura della cartilagine della coda:


Figura n.   . Fonte (adattata): Wilkins et alii, 2014, p. 795 [?].

LA DOMESTICAZIONE DEGLI ANIMALI

Fatta dunque salva l’ipotesi che le cellule della crosta neurale (Neural crest cells, NCCs) dei mammiferi siano una classe specifica di cellule staminali proprie ai vertebrati che appaiono durante l’embriogenesi sui bordi dorsali del tubo neurale e che, in seguito, seguono rotte di migrazione che danno origine ai precursori cellulari di molti tipi di cellule e tessuti e ne promuovono indirettamente lo sviluppo di altri, cioè il pacchetto ereditario della sindrome da domesticazione dovuto all’ipofunzionamento della cresta neurale, possiamo riprendere la storia della domesticazione nella Mezzaluna fertile. Ora, l’esplorazione archeologica d’un dato insediamento umano permanente, per esempio, un sito neolitico (v. infra), restituisce di ciò ch’è rimasto della fauna degli animali dei reperti che si possono associare a quattro categorie, come mostra la tabella seguente:

RESTITUZIONE FAUNISTICA D’UN INSEDIAMENTO UMANO PERMANENTE
NOTE
SPECIE SELVATICHE
D’INTERESSE CINEGÈTICO[1] E VENATORIO [2]
SPECIE COMPRESE GENERICAMENTE SOTTO IL NOME SELVAGGINA; RIMANDANO A MAMMIFERI E UCCELLI IN GENERE DESTINATI ALL’ALIMENTAZIONE UMANA
ANTROPOFILE
SONO SPECIE CHE COLONIZZANO L’HABITAT UMANO COME SE QUESTO FOSSE SOLO UN ALTRO HABITAT A LORO CONGENIALE
COMMENSALI
SONO SPECIE CHE VIVONO IN STRETTA PROSSIMITÀ DELL’UOMO, E INTERAGISCONO CON ESSO BENEFICIANDO DI UNA COMUNE FONTE ALIMENTARE [3]
SPECIE SEMIDOMESTICHE
D’INTERESSE VENATORIO
SONO SPECIE CHE NON POSSONO ESSERE ALLEVATE SECONDO LE TECNICHE DELLA DOMESTICAZIONE TRADIZIONALE, MA PRESENTANO UN INTERESSE VENATORIO, PER CUI, PUR RIMANENDO SELVATICHE, IL LORO AMBIENTE E IL LORO COMPORTAMENTO È  IN UN QUALCHE MODO SOTTO CONTROLLO DELL’UOMO
SPECIE DOMESTICHE
SONO SPECIE IN CUI LE FUNZIONI DELLA CURA, DELLA NUTRIZIONE E DELLA RIPRODUZIONE SONO CONTROLLATE DALL’UOMO
SPECIE RINSELVATICHITE
SONO SPECIE CHE SONO STATE INTRODOTTE DALL’UOMO AL DI FUORI DEL PROPRIO AREALE NATURALE CHE, DOPO AVERE SPERIMENTATO IL CONTROLLO DELL’UOMO, RIESCONO AD ADATTARSI E A INTERAGIRE CON LA NUOVA REALTÀ AMBIENTALE

[1] Il termine indica l’attività di caccia con il cane.
[2] Il termine si riferisce alla caccia e all’uccellagione, come dire che qui non è qui valorizzata l’attività della pesca.
[3] Le specie commensali dell’uomo sono generalmente tolleranti rispetto a una vasta gamma d’habitat e di condizioni ambientali
(eurieche), in grado d’utilizzare una grande varietà di cibo (eurifaghe) e possono vivere o in diretta associazione con l’uomo o
in grado di colonizzare ambienti marginali rispetto all’abitato antropico.

Tabella n.  .  Fonte (modificata): Masseti, 2008, pp. 71-73, p. 105.

Se con il termine antropocoria (già utilizzato sopra e derivato dal greco ἀνϑρωπο-, ἄνϑρωπος, uomo, e dal tema χωρέω, spostarsi, diffondersi) s’intende la dispersione involontaria dei disseminuli delle piante ad opera dell’uomo, allargando l’interpretazione anche agli animali, s’arriva a intendere con questo termine la loro dispersione e diffusione in date aree geografiche per causa diretta o indiretta dell’uomo, cioè per l’alterazione consapevole o inconsapevole degli areali distributivi originari della fauna; se accettiamo questa nuova esplicitazione semantica, ecco allora che possiamo raggruppare alcune di queste specie, quelle domestiche, semidomestiche, commensali e rinselvatichite, sotto il termine pluricomprensivo di fauna antropocora, come da figura:


Figura n.  .  Fonte: Masseti, 2008, p. 72.

Per esempio, rifacendosi ai siti natufiani del Levante (v. supra), l’occupazione antropica permanente dell’ambiente nei protovillaggi stanziali ha reso disponibili, in modo costante e via via in modo sempre più rilevante, sia delle risorse trofiche quanto delle possibilità di rifugio, ciò che ha permesso un’improvvisa concentrazione di specie faunistiche all’interno e nelle immediate vicinanze degli insediamenti umani, tanto che i resti fossili hanno restituito la documentazione dell’avvenuto instaurarsi, all’interno d’un tipo inedito d’ambiente antropogenico, d’un microcosmo faunistico differenziato che presenta un atipico ventaglio d’organismi biologici che non avrebbero ragione alcuna di trovare comunanza d’ospitalità in un habitat che non fosse antropizzato, ventaglio che presenta una fauna il cui destino sarà nella presenza o nell’assenza d’un ruolo economico all’interno del processo di domesticazione che s’avvierà di lì a poco. Non avranno un ruolo, in questo processo, specie commensali che comprendono mammiferi e uccelli di piccole dimensioni, quali il topo domestico (Mus domesticus), il ratto nero (Rattus rattus) e il passero domestico (Passer domesticus) che acquisiscono, così, un vantaggio rispetto alle popolazioni d’altri taxa non commensali e che, in pari tempo, subiscono un rapido processo di speciazione, o di subspeciazione, in situ (certo per il passero, in forse per il topo domestico), né specie antropofile come la taccola (Corvus monedula) che vive in grotte e ripari sotto roccia nei territori che ospitano questi insediamenti; avranno invece un ruolo di risorsa alimentare le specie selvatiche d’interesse venatorio, quali la gazzella (Gazella) e la lepre (Lepus; v. supra) e un ruolo economico nel processo di domesticazione, come sopra detto, la capra (Capra aegagrus), la pecora (Ovis orientalis), il bue (Bos primigenius), il maiale (Sus scrofa) e l’asino (Equus hemionus onager). Dunque, dato un repertorio faunistico prima dell’intervento dell’uomo, e dopo un lungo processo e di detenzioni in cattività e di tentativi di mansuefazione d’una grande varietà di specie faunistiche da parte dell’uomo, storicamente si selezionano poi i taxa che potranno o no essere domesticati da cui emergono le categorie sopra citate che si ritrovano nei siti neolitici, tutte o quasi in un qualche modo legate nel loro destino all’uomo, cioè antropocore. Da questo ventaglio emergono poi anche i taxa che saranno domesticati, tutti rientranti nella categoria dei mammiferi terrestri erbivori o onnivori (e non prevalentemente carnivori) e pesanti in media più di 45 chili scelti solo in base a criteri di convenienza (selezione postzigotica, v. supra; si ricorda che qui, in linea di massima, non si prendono in considerazione animali domesticati di taglia inferiore, quali galli e galline, tacchini, oche, piccioni etc.). In quanto selettivamente scelti nel ventaglio delle specie che sono state storicamente oggetto di predazione, questi animali arrivano a obbedire solo alle pressioni dell’ambiente antropizzato (selezione artificiale) e non a quelle dell’evoluzione naturale cui obbedivano i progenitori selvatici (e fatta salva la questione che l’allevamento intenzionale e l’isolamento genetico sono un fenomeno storicamente tardo, perché, per esempio, inizialmente la selezione artificiale doveva essere debole in quanto presentatesi come impossibilità al controllo sull’isolamento genetico, specialmente per le femmine che, come mostrano le analisi genetiche, persistono negli incroci con rappresentanti di popolazioni selvatiche). È il fenomeno che, in biologia, si chiama speciazione simpatrica (v. supra), cioè il processo di formazione, a partire da una specie originaria, di una nuova specie grazie all’insorgere di un meccanismo dovuto all’isolamento riproduttivo (o barriera) che impedisce il mescolamento genetico con le specie compatibili (detto effetto del fondatore). Supponiamo un maschio e una femmina dal maschio fecondata la cui discendenza aumenti notevolmente a causa della cattività in cui questi animali sono tenuti; l’antropizzazione della coppia e della sua discendenza, cioè l’assenza di competitori compatibili (interfecondi) negli ambienti controllati della stabulazione, annulla o quasi la selezione naturale essendo ridotto l’effetto di trascinamento degli alleli della popolazione interfeconda (che, se ci fosse, darebbe origine a una sottospecie) e introduce la selezione artificiale, vale a dire una deriva genetica; ossia, come sopra detto, un mutamento casuale per cui il pool genico cambia e s’organizza rapidamente e liberamente (tanto che, invece di una sottospecie, abbiamo così una nuova razza); una deriva genetica, questa, che è spesso massiva in quanto la frequenza degli alleli (o allelomorfi), non è lenta come potrebbe essere quella dei progenitori che obbediscono alla selezione naturale e alla presenza di competitori, e che quindi si presenta inerziale, ma drastica e veloce in quanto sottoposta alle pratiche dell’antropizzazione (riguardo alla frequenza degli alleli, si ricorda che questi sono una delle due o più forme possibili di un gene, prodotta per mutazione e situata nella stessa posizione relativa, o locus, su cromosomi analoghi; i cromosomi sono poi presenti in coppie identiche nei nuclei delle cellule di piante e animali, detti per questo diploidi , e sono i vettori dei geni che costituiscono la base dell’ereditarietà; il numero, in sigla 2n, la forma e la grandezza dei cromosomi, inoltre, sono costanti per ogni specie, ad esempio nell’uomo sono 2n = 23; v. infra). Quindi il tutto parte dal definitivo isolamento riproduttivo della coppia domesticata (e dei suoi discendenti) dai progenitori ancestrali (v. supra), il che, dato il meccanismo di speciazione, permette poi di selezionare le caratteristiche desiderabili (ad esempio, il vello delle pecore o il grasso dei maiali), così come s’è visto per le razze dei cani ca. 200 anni fa (v. supra). Potenzialmente, questo meccanismo di speciazione porterebbe, qualora diminuissero le risorse trofiche naturali, a una pressione selettiva molto alta, dunque a una conseguente contrazione della popolazione, cosa che non è perché gli animali domesticati rientrano, come consumatori stabulati, cioè garantiti, nel ciclo di produzione alimentare degli essere umani che da questa contrazione li garantisce (cioè entrano a far parte dell’uso strategico delle risorse trofiche controllate dall’uomo per il tramite dell’agricoltura e che, in questo caso, sono riservate all’alimentazione animale). Cosa che, sia detto per inciso, non vale per gli essere umani che probabilmente hanno sì anestetizzato e indebolito la selezione naturale, ossia rallentato il mutamento della specie, e permesso un incremento demografico esponenziale (flush), ma sono destinati al collasso (crash) qualora l’ecosistema da loro manipolato (antropogenico) non sia più rinnovabile attraverso il repertorio tecnologico esistente (come è capitato storicamente, ad esempio, nella Mezzaluna Fertile, e come capiterà ancora, secondo un’evoluzione che, dopo l’ampliamento dell’areale della colonizzazione da parte di una popolazione in aumento, ne manifesta a seguire un drastico calo della popolazione, secondo il meccanismo della Flush and Crash Evolution). Detto questo, di questi mammiferi, potenzialmente, ne esistono sui suoli del mondo 148, ma solo 14 sono stati domesticati, e in un periodo che va dal 10 000 al 2500 a.C. (sono compresi nel periodo anche i 134 tentativi che sono stati fallimentari). La figura seguente mostra le sette grandi regioni zoogeografiche (distribuzione dei mammiferi) del mondo:


Figura n. . Fonte: Masseti, 2008, p. 3.

La tabella a seguire mostra dove sono zoogeograficamente distribuiti i 148 mammiferi e gli esiti della domesticazione:

SPECIE ZOOGEOGRAFICHE [1]
REGIONE ZOOGEOGRAFICA (UNITÀ ZOOGEOGRAFICHE)
TOTALI
PALEARTICA (EURASIA)
ETIOPICA (AFRICA SUBSAHARIANA)
NEARTICA/
NETROPICA (AMERICHE)
AUSTRALIANA (AUSTRALIA)
SPECIE POTENZIALI
72
51
24
1
148
SPECIE DI CUI È FALLITA LA DOMESTICAZIONE


59


51


23


1


134
SPECIE DOMESTICATE
13
  0
  1
0
  14
PERCENTUALE DI SUCCESSO NELLA DOMESTICAZIONE


18%
 

  0%


  4%


0


  22%



[1] Si tratta di Mammiferi erbivori e onnivori (e non prevalentemente carnivori) pesanti più di 45 chili in media

Tabella n. . Fonte (adattata): Diamond, 1998, p. 123.

La tabella seguente indica quali sono stati i 14 animali domesticati, qual è la loro alimentazione, quali sono i progenitori e dove (areale) e quando la domesticazione è avvenuta:

ANIMALI DOMESTICATI
TIPO DI ALIMENTAZIONE
PROGENITORI SELVATICI
AREALE (APPROSSIMATIVO) DI SPECIE SELVATICA AL MOMENTO DELLA SUA PRIMA DOMESTICAZIONE
DATE (APPROSSIMATIVE) DI PRIMA DOMESTICAZIONE CERTA (a.C.)
CAPRA (Capra hircus)
ERBIVORA
BEZOAR (Capra aegagrus o egagro o capra del Bezoar)
EURASIA (MONTI DEL VICINO ORIENTE)
8 000
PECORA (Ovis aries)
ERBIVORA
MUFLONE ASIATICO (Ovis orientalis [1])
EURASIA (MONTI DEL VICINO ORIENTE)
8 000
MAIALE (Sus domesticus)
ONNIVORA
CINGHIALE SELVATICO (Sus scrofa, Sus Vittatus)
EURASIA (EUROPA, ASIA E NORD-AFRICA [2])
8 000
BUE (Bos taurus)
ERBIVORA
URO (Bos primigenius)
EURASIA (EUROPA, ASIA E NORD-AFRICA)
6 000
CAVALLO (Equus caballus)
ERBIVORA [3]
CAVALLO SELVATICO (Equus ferus)
EURASIA (UCRAINA, STEPPE DELLA RUSSIA MERIDIONALE E ASIA CENTRALE)
4 000
ASINO (Equus asinus)
ERBIVORA
ASINO SELVATICO (Equus africanus)
EURASIA (NORD-AFRICA E FORSE VICINO ORIENTE)
4 000 [4]
BUFALO ASIATICO (Bubalus bubalis, bufali fluviali e palustri [5])
ERBIVORA
BUFALO SELVATICO (Bubalus arnee o bufalo indiano)
EURASIA (ZONE UMIDE; CINA [?], INDIA E SUD-EST ASIATICO)
4 000
LAMA (Lama glama); ÀLPACA (Vicugna vicugna [6])
ERBIVORA
GUANÀCO (Lama guanicoe, Vicugna pacos)
AMERICHE (AMERICA MERIDIONALE, REGIONI SEMIDESERTICHE E D’ALTA QUOTA; ANDE, AMERICA MERIDIONALE)
3 500
DROMEDARIO (Camelus dromedarius [7])
ERBIVORA
DROMEDARIO SELVATICO (progenitore sconosciuto)
EURASIA (DESERTO ARABO-SIRIANO [8])
2 500
CAMMELLO (Camelus bactrianus [10])
ERBIVORA
CAMMELLO [9] SELVATICO (progenitore sconosciuto)
EURASIA (TURKESTAN CINESE, MONGOLIA; STEPPA ARIDA E DESERTO)
2 500
RENNA (Rangifer tarandus tarandus)
ERBIVORA
RENNA SELVATICA (Rangifer tarandus)
EURASIA (EUROPA SETTENTRIONALE, ASIA) E AMERICA SETTENTRIONALE [11]
DATI ARCHEOLOGICI NON SUFFICIENTI PER DEFINIRE UNA DATA
YAK DOMESTICO (Bos grunniens)
ERBIVORA
YAK SELVATICO (Bos mutus)
EURASIA (MONTAGNE DEL TIBET, DEL NEPAL E DELL’HIMALAYA)
BANTENG DOMESTICO (Bos javanicus)
ERBIVORA
BANTENG (Bos sondaicus) [12]
EURASIA (BORNEO E ISOLE DEL SUD-EST ASIATICO)
MITHAN o Gayal (Bos frontalis) [13]
ERBIVORA
GAUR (Bos gaurus)
EURASIA (INDIA E SUD-EST ASIATICO)

[1] Il muflone asiatico è anche antenato del muflone europeo, Ovis musimon, che ora è compreso in Ovis orientalis.
[2] Il Nord-Africa è spesso incluso per la sua comunanza biogeografica e culturale con l’Eurasia.
[3] Il cavallo, pur essendo erbivoro, non è un ruminante (cioè non è poligastrico come i ruminanti, ma monogastrico al pari dei suini, degli asini e dei carnivori; su questa questione, v. infra). Si ricorda, inoltre, che il cavallo, con l’asino, appartiene all’ordine Perissodactyla, ed è un ungulato perissodattilo, cioè imparidigitato; i restanti animali citati nella tabella appartengono invece all’ordine Artiodactyla e sono ungulati artiodattili, cioè paridigitati (v. supra).
[4] La domesticazione dell’asino sembra essere stata precedente a quella del cavallo.
[5] Questi animali possono prosperare solo in climi caldi e con la possibilità d’accesso all’acqua (di fiume, come in India; di palude come in Cina e Birmania, dove sono utilizzati nel processo di coltivazione del riso).
[6] Sono razze molto differenziate della stessa specie primordiale, e non specie diverse (ma non è opinione condivisa) e presentano lo stesso numero cromosomico (v. infra).
[7] Cammello arabo (a una gobba).
[8] A rigore di termini, il cammello non è un ruminante, anche se sottopone la cellulosa a fermentazione, per poi rigurgitare e rimasticare il bolo a somiglianza di bovini, capre e pecore.
[9] A Nord della Penisola Arabica.
[10] Cammello della Battriana (a due gobbe); la Battriana è una regione che corrisponde, in parte, con l’attuale Afghanistan.
[11] Nel Nord America, la renna è chiamata caribù (v. infra).
[12] Da alcuni Bos sondaicus è ritenuto un sinonimo non valido di Bos javanicus; nella dicitura Bos javanicus, ritenuta quella corretta, sono poi contrassegnate, sotto la stessa etichetta, sia le forme selvatiche che quelle domesticate, questo in contrasto con il trattamento tassonomico riservato agli altri organismi, ragion per cui qui si mantiene l’appellativo Bos sondaicus per il banteng selvatico; è parente dell’uro  presenta una taglia più piccola del Bos gaurus.
[13] Questi animali sono esclusivamente di tipo sacrificale, cioè macellati dopo strangolamento o uccisione con armi appuntite solo durante occasioni rituali (matrimoni, funerali, malattie, disgrazie etc., o per certificare un’ascesa di status).

Tabella n. . Fonte (adattata): Diamond, 1998, p. 122, p. 127; Clutton-Brock, 2001, pp. 258-259.

Di questi animali domesticati, la capra, la pecora, il maiale, il bue e il cavallo hanno avuto una diffusione sovraregionale, gli altri una diffusione solo regionale, come mostra la tabella seguente:

MODALITÀ DI DIFFUSIONE DEGLI ANIMALI DOMESTICATI
TIPOLOGIA DEGLI UNGULATI DOMESTICATI
ZONAZIONE ZOOGEOGRAFICA DELL’ATTUALE  DIFFUSIONE
SOVRAREGIONALE
CAPRA
INTERCONTINENTALE
PECORA
MAIALE
BUE
CAVALLO
REGIONALE
ASINO
EUROPA, NORD AFRICA
BUFALO ASIATICO
SUD-EST ASIATICO, ZONE UMIDE DEL VICINO ORIENTE, NORD AFRICA, EUROPA MERIDIONALE [1]
LAMA/ALPACA
QUASI ESCLUSIVAMENTE NELLA ZONA DELLE ANDE
DROMEDARIO
EURASIA, AFRICA [2]
CAMMELLO
DALL’ASIA CENTRALE ALL’ANATOLIA (TURCHIA)
RENNA
QUASI ESCLUSIVAMENTE IN SCANDINAVIA E IN SIBERIA
YAK DOMESTICO
HIMALAYA, TIBET, MONGOLIA
BANTENG DOMESTICO
INDONESIA
MITHAN
SUD-EST ASIATICO

[1] Alcune popolazioni, a volte inselvatichendo, sono state introdotte in Sud America e in Australia.
[2] È presente, allo stato selvatico, in Australia.

Figura n.  . Fonte (modificata): Masseti, 2008, p. 158; Diamond, 1998, p. 122.

Di questi, ancora, prendiamo ora in considerazione uno a uno i progenitori selvatici mostrandone, brevemente, le caratteristiche e, s’è il caso, le caratteristiche delle specie domesticate che ne derivano. L’egagro (Capra aegagrus), se ci si basa su studi del DNA mitocondriale, è probabilmente l’unico progenitore selvatico delle capre domestiche (Capra hircus) ed è uno tra i primi ruminanti erbivori a essere domesticato (per la sua alimentazione, v. supra; per il processo di digestione dei ruminanti, v. infra); Capra aegagrus presenta una mole media e una corporatura massiccia, con zampe robuste e relativamente brevi, adatte alla vita in habitat montani, rupestri, con zoccoli fessi terminanti in punte ottuse, e coda corta; i maschi hanno il capo ornato da corna ritorte come scimitarre, molto più piccole nelle femmine (per la questione della variazione nella morfologia delle corna con la domesticazione, cioè il passaggio dalle corna a scimitarra, presenti ai livelli del Neolitico preceramico, PPNA e PPNB, alle corna ritorte che s’affermano a partire dal Neolitico ceramico, PN, v. supra); il pelo è più corto d’estate che d’inverno e solo nei maschi si forma una barbetta sotto il mento; da risottolineare il fatto che, visto che brucano di preferenza in habitat ostili, presentano anche una versatilità dal punto di vista alimentare che ha favorito il loro successo in quanto animali domestici; la figura seguente ne mostra una ricostruzione parziale:

Figura n.  (specie selvatica: Egagro, o Bezoar, Capra aegagrus). Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 97

Il muflone (Ovis orientalis) è un ruminante erbivoro selvatico che pascola nelle regioni collinari e pedemontane; presenta un corpo piuttosto piccolo, arti sottili e robusti, terminanti in piccoli zoccoli anteriormente divisi e coda relativamente corta; le corna dei maschi sono massicce, ricurve e ritorte, cioè con le estremità rivolte di lato, in basso e in avanti, e sono più grandi e robuste di quelle delle femmine (maschi e femmine formano poi gruppi separati, salvo che nella stagione riproduttiva); il pelo più esterno della pecora selvatica, detto giarra, è rigido, ruvido e relativamente corto d’estate e tende a sviluppare uno strato di sottopelo corto e lanoso, detto borra, che cresce soltanto durante l’inverno; nelle pecore domestiche, invece, la giarra manca del tutto e la borra, da cui si ricava la lana, cresce tutto l’anno e non cade con l’arrivo dell’estate come nella muta spontanea delle specie selvatiche; la lana può essere marrone, bianca, nera o una commistione di questi colori e la sua utilizzazione in senso produttivo risale al VI-IV millennio a.C.; la figura seguente mostra la ricostruzione del muflone europeo che, come detto, è attualmente ritenuto una sottospecie del muflone orientale, Ovis orientalis, che ed è ritenuto essere l’unico antenato delle pecore domestiche, Ovis aries:


Figura n.  (Muflone europeo, Ovis musimon). Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 91

Per quanto riguarda la domesticazione di capre e pecore selvatiche, è poi da ricordare che queste hanno un sistema sociale basato su un singolo leader dominante che permette l’imprinting umano (v. infra), questo a differenza d’altri ungulati, per esempio, i cervi e le gazzelle, che, pur vivendo in branchi, non presentano una struttura sociale basata su gerarchie di dominanza; ancora, favorisce la loro domesticazione il fatto che, a differenza d’altri animali, per esempio, un cervo o un’antilope, non difendono il loro territorio, ciò che consente di raccoglierle in greggi compatti (più le pecore che le capre), in condizioni d’affollamento che capre e pecore sembrano prediligere.
Il cinghiale selvatico (Sus scrofa), considerato il progenitore del maiale (Sus domesticus), è l’unico taxon non specializzato in una dieta erbivora fra gli ungulati che per primi sono stati coinvolti nel processo di domesticazione, inoltre è una specie ubiquitaria che predilige gli areali forestali di latifoglie decidue e si presenta tarchiato, con una mole consistente (i maschi possono superare il metro d’altezza, i 100-150 cm di lunghezza e raggiungere un peso di un quintale e oltre), la cui grande testa, sviluppata anteriormente, termina in un muso (o grugno) nudo e in parte muscoloso e mobile, con una dentatura (44 denti) caratterizzata da canini assai grandi e a crescita continua che, nei maschi, si presentano particolarmente sviluppati, sporgenti e rivolti in alto (i canini inferiori, o zanne, possono raggiungere i 30 cm); gli arti, che sono relativamente brevi, poggiano sugli zoccoli del terzo e quarto dito, e gli arti posteriori sono più corti di quelli anteriori; il corpo è poi quasi interamente rivestito di setole dure, con pelame fitto (la coda, corta, termina con un ciuffo di setole); si suppone che la sua domesticazione abbia avuto luogo in più tempi (più o meno contemporaneamente a Capra aegagrus e Ovis orientalis) e in aree geografiche fra loro diverse, nel Vicino Oriente (v, supra, Jericho nel PPNB, dove i resti di suini sono marginalmente più piccoli di quelli precedenti, lo stesso nei resti osteologici ritrovati nel sito di Qal’at Jarmo, nel Kurdistan iracheno, v. figura n. [Clutton-Brock, 2001, p. 88] ), in Europa, in Cina e nel Sud-Est asiatico. La figura che segue mostra non l’areale generico di distribuzione di Sus scrofa (segnato nella figura n. [Clutton-Brock, 2001, p. 42] con la lineetta e il punto), ma quello specifico delle 25 sottospecie (o 27, comprese quelle forse rinselvatichite) che si sono evolute da Sus scrofa per adattarsi alle locali condizioni climatiche e ambientali (è però da sottolineare che i dati della figura riportata qui sotto risalgono a indagini precedenti al 2 000 d.C., poiché oggi, a seguito di molteplici analisi con il DNA mitocondriale, le sottospecie sono state ufficialmente ridotte a 16):










Figura n. . Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 114.

Da ricordare poi che la dentizione del cinghiale è adatta e per triturare vegetali e per sfibrare alimenti carnei (anche in fase di decomposizione) e che il loro apparato digestivo, a differenza di quello poligastrico degli erbivori ruminanti (che presentano dei prestomaci, v. infra), è scarsamente specializzato in quanto presenta un solo stomaco (sono cioè monogastrici, come gli equini e i carnivori, v. infra). Per quanto riguarda la sua domesticazione, si deve sapere che, se il cinghiale adulto è particolarmente aggressivo, i lattónzoli (cioè i piccoli durante la fase dell’allattamento e prima dello slattamento che avviene ca. a 2 mesi d’età) possono invece essere facilmente domesticati e, a seguire, manifestano un subitaneo adattamento alla vita stanziale antropica dove cercano i rifiuti alimentari e lo stretto contatto fisico con altri membri del loro gruppo familiare (forse a causa del fatto che una femmina può arrivare a partorire fino a dieci lattonzoli per figliata); inoltre, i suini non sono territoriali e mangiano ininterrottamente di tutto per molte ore per poi dormire a lungo, ciò che fa sì che non debbano mangiare di notte, ciò che, ancora, in regime di cattività, ben s’adatta ai ritmi di veglia e di sonno delle comunità umane; inoltre, oltre che rinchiuderli in un recinto, si possono addestrare i maiali domesticati ad andare dove vuole il conduttore (il porcaro) offrendogli del semplice cibo, ciò che permette loro di vagare liberamente nella foresta arricchendo la dieta sotto la sola sorveglianza d’un porcaro; per inciso, mentre la capra e la pecora implicano la transumanza nel processo di domesticazione (data la loro tendenza agli spostamenti per la ricerca stagionale dei pascoli), il maiale no, giacché, come il suo progenitore, il cinghiale, è onnivoro, ciò che permette, oltre al riciclo produttivo dei materiali di scarto, processi di domesticazione e d’allevamento inimmaginabili per capre, pecore e buoi.
L’uro (Bos primigenius, oggi estinto), esclusi i bovini domestici del Sud-Est asiatico, è considerato come l’unico progenitore selvatico delle diverse razze di bue domestico (Bos taurus), anche se si sospetta che la sua domesticazione, data la sua diffusione ubiquitaria, sia avvenuta più volte e in luoghi diversi (nel subcontinente indiano, nel Vicino Oriente e, ma non è certo, in Nordafrica); è un ruminante che bruca e pascola nelle foreste e che s’adatta a vivere anche in regioni a macchia più aperta e i suoi areali vanno da 60° di latitudine Nord (escluso il Nordamerica) ai 30° di latitudine Sud (tranne che in India, dove una sua sottospecie, ora estinta, ha forse dato origine agli zebù, bovini gibbosi domestici successivamente diffusi in Africa e nel resto dell’Asia); è un animale di notevoli dimensioni (con un’altezza che sfiora i 2 m, tra 160 e 180 cm, e una lunghezza che può arrivare ai 3 m e un peso di 800 – 1 000 kg, con un dimorfismo sessuale molto accentuato, per cui le femmine sono, e di molto, più piccole), ed è caratterizzato da un collo muscoloso, imponente, e da lunghi e snelli arti (relativamente alle dimensioni complessive e al peso corporeo), con corna lunghe (fino a 107 cm) a forma di mezzaluna nei maschi e più corte (fino a 70 cm) e a forma di lira nelle femmine e presenta un manto di pelo corto (più folto in inverno); è un ruminante erbivoro abitante delle foreste decidue dell’Eurasia che s’adatta anche ad aree steppiche o caratterizzate da macchia diradata; la figura seguente mostra una ricostruzione dell’uro:



Figura n. (specie selvatica: Bos primigenius). Fonte (modificata): Clutton-Brock, 2001, p. 103.

Come detto, l’areale originale di distribuzione dal Bos primigenius (che fa parte della Megafauna) comprende l’Eurasia e il Nord-Africa (sono esclusi il Nordamerica e il subcontinente indiano), regione zoogeografica da cui si sono successivamente evolute tre sottospecie, una in Vicino Oriente e in Europa, una in India e una in Nordafrica; nel Vicino Oriente s’è evoluto il Bos primigenius primigenius, una sottospecie del Bos primigenius, da cui s’è evoluto Bos taurus; in India s’è evoluto il detto Bos primigenius namadicus, da cui è probabilmente disceso il domesticato Bos indicus, o zebù (detto anche bue gibboso in quanto presenta una caratteristica gobba nella regione fra il margine inferiore del collo e il dorso, probabilmente un discendente del banteng, Bos sondaicus, v. infra); la figura seguente mostra una ricostruzione del Bos indicus (si distinguono morfologicamente dalle razze taurine per il fatto d’avere il cranio piuttosto allungato e stretto, corna voluminose, una giogaia voluminosa e pesante, zampe lunghe e sottili, orecchie grandi e pendule e una gibbosità dovuta a un ingrossamento muscolare o adipo-muscolare sulla regione posteriore del collo o del garrese; fisiologicamente risultano poi meglio adattati all’ambiente tropicale rispetto ai bovini non gibbosi, per esempio, resistono alle alte temperature e all’umidità):


Figura n. (specie domestica: Zebù, Bos indicus). Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 111.

Infine, in Nordafrica s’è evoluto il Bos primigenius mauretanicus, che probabilmente non ha lasciato discendenti. La figura seguente illustra, con tre tonalità degradanti di grigio scuro, l’area di diffusione delle tre sottospecie sopra citate:



Figura n.  . Fonte (modificata): Creative Commons.

Da non dimenticare, infine, a proposito della domesticazione di Bos primigenius, che le prime attestazioni certe, databili al 6 200 a.C., provengono dal sito di Çatal Hüyük in Anatolia (anche se, e sempre in Anatolia, ma risalenti al PPNB, cioè a ca. 7 000 anni a.C., presso Hacılar Höyük, o Haçilar, un sito a ovest di Çatal Hüyük, sono poi stati rinvenuti resti osteologici di bovini di taglia più piccola del Bos primigenius; per la localizzazione dei due siti, v. figura n.  [Clutton-Brock, 2001, p. 88]) e che, almeno per quanto riguarda l’uso produttivo dei bovini domestici relativamente alla pratica della mungitura e alla produzione di latte, essa risale al IV millennio a.C. ed è localizzata primariamente in regioni come la Mesopotamia e l’Egitto (per il problema fisiologico del malassorbimento del lattosio, componente fondamentale del latte fresco, v. infra).
Del cavallo s’è parlato sopra a proposito della sua filogenesi e se ne tratterà diffusamente a seguire a proposito della sua domesticazione e del suo ruolo presso i popoli Kurgan; valga ora, parlando della sua presenza allo stato selvatico (Equus ferus) il fatto ch’è stato oggetto d’assidua predazione antropica, tanto che nel Paleartico occidentale l’areale del cavallo subisce una forte contrazione nella transizione tra la fine del Pleistocene e l’inizio dell’Olocene; per esempio, scompare in Europa (tranne che nella penisola iberica) e nel Levante, ma sopravvive con poche popolazioni nell’Anatolia del Nord e nelle steppe dell’Europa orientale (in America il cavallo s’è estinto probabilmente 8 000 anni fa). Il cavallo selvatico presenta poi due sottospecie, quella eurasiatica, il tarpan, Equus ferus ferus (classificato anche come Equus ferus gmelini), proprio alla zona occidentale della steppa eurasiatica, cioè alla regione, detta pontico-caspica, che passa per la Russia meridionale e s’estende dall’Ucraina centrale al Nord-Ovest del Kazakhstan, e quella asiatica, il takhi, Equus ferus przewalskii (o cavallo di Prževal’skij), proprio alla regione adiacente al Kazakhstan e posta fra la Siberia e la Cina occidentale, cioè alla Mongolia (Equus ferus przewalskii è da alcuni ritenuto una specie distinta, Equus przewalskii); si suppone, ed è questa l’ipotesi più accreditata, che sia in ambiente steppico eurasiatico occidentale che sia poi iniziata la sua diffusione e domesticazione, nello specifico presso i popoli pre-Kurgan (v. infra) con il tarpan; il tarpan è poi geneticamente indistinguibile dal cavallo domestico, ed escludendo che il cavallo di Prževal’skij possa essere ancestrale di cavalli domestici; infatti, l’esistenza di 2n = 66 cromosomi nel takhi lo identifica per essere diverso dal tarpan e dall’Equus caballus che hanno 2n = 64, così come, oltre al cariotipo, è poi lo stesso DNA mitocondriale del takhi che forma un gruppo distinto, il che è dire che takhi e tarpan sono due popolazioni diverse (e nonostante il cavallo di Prževal’skij possa poi ibridarsi con il cavallo domestico per produrre prole fertile), anche se per altri la domesticazione di questo taxon non è monocentrica, come restituisce l’evidenza archeologica, ma multicentrica, e se per altri ancora entrambe le sottospecie, il tarpan e il takhi, devono considerarsi come progenitrici del cavallo domestico (Equus caballus); alcuni, infine, dicono che Equus ferus non è una specie, ma una sottospecie classificabile come Equus ferus caballus. La figura seguente illustra il probabile areale di distribuzione del cavallo selvatico all’altezza del III millennio a.C., quando inizia il lungo processo della sua domesticazione nella Russia meridionale e in Asia occidentale (il processo, in Europa, avviene all’incirca mille anni dopo, a partire dal II millennio a.C.):



Figura n.  . Fonte: Masseti, 2008, p. 164.

Da ricordare che i cavalli si nutrono al pascolo, in praterie temperate e ben irrigate, e sono solo relativamente adatti ai deserti o ai biotopi boscosi pur potendovi, se costretti, sopravvivere (per esempio, i takhi che hanno abitato le steppe desertiche della Mongolia, probabilmente il margine estremo del loro areale di diffusione naturale), e sono dotati di denti a corona alta e d’un apparato digerente specializzato per assimilare l’erba , infatti, come sopra detto, Equus caballus è un erbivoro che presenta il vantaggio della digestione enzimatica (tipica dei monogastrici), cui si somma quella batterica (tipica dei poligastrici, quali sono i ruminanti); specificandone e le modalità d’alimentazione e grosso modo il funzionamento dell’apparato digestivo, possiamo dire che un cavallo si sposta nel pascolo alla ricerca d’erba e radici con pasti brevi e veloci (in media 8-10 volte al giorno su un arco di ca. 15 ore); s’appropria poi delle risorse reperite per il tramite della prensione del labbro superiore che fa poi presa su quello inferiore (e non usando la lingua come i bovini, o il grugno spinto in avanti e in alto come fanno i maiali) e insalivando e masticando intensamente il cibo, con una frequenza di masticazione maggiore rispetto a quella dei ruminanti e dei carnivori, arriva a formare un bolo; nella bocca avviene una prima fase della digestione che poi continua, dopo il passaggio rapido del bolo attraverso l’esofago, nello stomaco; lo stomaco del cavallo è, rispetto alla sua taglia, decisamente ridotto (un bovino, per esempio, presenta un volume ca. 10 volte superiore) ed è qui che si svolge sommariamente la digestione gastrica d’una parte dell’ingerito in quanto lo stomaco si svuota velocemente; la digestione prosegue, con un transito relativamente veloce, in un intestino tenue, o piccolo intestino, che si presenta molto allungato e dove si manifesta un alto assorbimento degli zuccheri semplici derivati in parte dalla degradazione degli amidi e in parte dagli alimenti (ed è, questa, la fine del processo digestivo enzimatico); in seguito si passa all’intestino crasso, o grosso intestino, formato da cieco, colon e retto; è poi nella prima parte del crasso, nel cieco, che ha poi luogo la maggior parte della fermentazione batterica degli alimenti fibrosi  che permette la digestione della cellulosa e d’una parte dell’emicellulosa, trasformata poi in carboidrati vegetali assimilabili dall’organismo (la fermentazione cecale è poi simile, in questo, a quella dei ruminanti); l’indigeribile, dopo il processo fermentativo di cieco e colon, lo si ritrova poi nel retto dov’è, in seguito, espulso con le feci (per l’apparato digestivo dei ruminanti, v. infra); infine, resta da dire, che le dimensioni e la morfologia generale dei primi cavalli domestici presentano, rispetto a quelli selvatici, un cambiamento minore di quello rilevato in altre specie d’animali domesticati, come mostrano i siti archeologici dove la restituzione dei reperti ossei, abbondante, non permette di distinguere tra i cavalli domestici e quelli selvatici.
L’asino selvatico (Equus africanus), riconosciuto come progenitore di tutti gli asini domestici (africani o asiatici che siano), è un equide caratteristico dell’Africa postglaciale il cui areale di distribuzione è poi andato via via decrescendo per ridursi alla sola Africa settentrionale, dove ne sono riconosciute tre sottospecie, una diffusa in Algeria e sulle montagne della catena montuosa dell’Atlante che s’estende tra Marocco, Algeria e Tunisia (forse provvista di zebrature agli arti e ora estinta, Equus africanus atlanticus), una in Nubia (cioè in un’area dell’Africa Nordorientale, divisa tra l’Egitto e il Sudan e attraversata longitudinalmente dal Nilo; questa sottospecie, Equus africanus africanus, è estinta ed è, rispetto all’asino dell’Algeria, di più piccole dimensioni) e una in Somalia (questa è una sottospecie prossima all’estinzione ed è la razza più alta tra le tre, con evidenti zebrature agli arti, Equus africanus somaliensis); la figura seguente mostra una ricostruzione dell’asino selvatico nubiano:


Figura n. (specie selvatica: Equus africanus africanus). Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 139.


La figura seguente mostra invece una ricostruzione dell’asino selvatico somalo:


Figura n. (specie selvatica: Equus africanus somaliensis). Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 140.


Ora, visto che non è possibile identificare con certezza l’origine delle attuali razze domestiche (Equus asinus), antenati si possono riconoscere in tutte e tre le sottospecie (fatta salva un’ipotesi che vede il progenitore nel solo Equus africanus africanus) e si può affermare che la distribuzione geografica delle tre sottospecie costituisce un cline esteso in tutta l’Africa del Nord, dalla catena dell’Atlante al Mar Rosso (un cline è poi una variazione graduale, unidirezionale e continua, di date e determinate caratteristiche d’una specie in aree geografiche fra loro adiacenti; questa variazione di caratteri che sconfinano gli uni negli altri senza soluzione di continuità è generalmente correlata a variazioni ambientali, quali temperatura, umidità, altitudine etc.); a ciò s’aggiunga che, nel Vicino Oriente, gli areali di distribuzione di Equus africanus si sono sovrapposti a quelli di altri equidi selvatici, per esempio l’emione (Equus hemionus, di cui l’onagro, cioè l’asino selvatico persiano di cui s’è parlato sopra, Equus hemionus onager, è ritenuto una sottospecie), per cui si sospetta fortemente, in base a resti osteologici (e anche se le ossa e i denti di Equus africanus e Equus hemionus non sono sempre facili da distinguere), che l’areale d’origine della domesticazione della specie si situi tra la Mesopotamia, la Siria e il Levante meridionale; la figura a seguire mostra poi gli areali di diffusione dell’asino selvatico africano (Equus africanus) e asiatico (Equus hemionus), con le loro sottospecie:



Figura n. . Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 139.

L’asino selvatico s’è dunque diffuso in località steppose e semidesertiche, cioè in luoghi che, ricevendo 100-200 mm di pioggia annuale, sono poveri di vegetazione, luoghi cui la sua dieta, fatta d’erba, corteccia e foglie, s’adatta; dieta ch’è poi permessa anche dal suo apparato digerente monogastrico ch’è in grado di sminuzzare risorse trofiche le più coriacee; inoltre, può resistere anche senz’acqua, se pure per non prolungati periodi di tempo (fino a 3 giorni e perdendo fino al 30% del suo peso), ciò che ci permette d’affermare che questa dieta, quantitativamente scarsa e di poco significato nutritivo, indica un organismo con grandi capacità di resistenza; capacità sfruttate poi dal punto di vista antropico che lo faranno, domesticato, animale da lavoro e mezzo di trasporto per carichi pesanti (che hanno innovato i sistemi di trasporto delle società agropastorali), cui s’aggiunga che sarà allevato anche per ricavare carne, latte (biochimicamente simile a quello materno degli infanti) e cuoio; da ricordare, ancora, che alcuni sostengono che Equus asinus sia da ritenersi una specie a sé e che altri lo considerano una sottospecie di Equus africanus, nel qual caso, se supportata l’ipotesi filogenetica che valida la seconda ipotesi, si dovrebbe parlare per l’asino domestico di Equus africanus asinus e ch’esistono anche degli ibridi (diventati comuni all’altezza del 2 500 a.C.) qui non presi in considerazione, quali il mulo e il bardotto (il mulo deriva dall’accoppiamento tra un asino e una giumenta, mentre il bardotto è dato dall’incrocio tra un’asina e uno stallone); per quanto riguarda le testimonianze archeologiche d’una domesticazione, sono escluse quelle riguardanti Equus hemionus (giacché questi non può essere il progenitore di specie domestiche nel Vicino Oriente in quanto le sue modalità comportamentali non si possono ridurre alla domesticazione, v. infra, oltre al fatto che l’asino domestico asiatico non può generare prole feconda s’è incrociato con un emione, a differenza di quanto avviene se l’incrocio è effettuato con un asino selvatico africano), mentre le testimonianze risalenti al primo Olocene e riguardanti Equus africanus sono scarse e, visto che come per il cavallo non ci sono differenze riconoscibili tra i resti dell’asino selvatico e quelle delle prime forme domestiche, mancano le prove concrete che certifichino la sua prima domesticazione (in ogni caso, la più antica evidenza osteologica proviene da Uruk, nella Mesopotamia meridionale e nei pressi dell’Eufrate, ed è databile all’inizio del III millennio a.C., nel mentre, a seguire, l’impiego di Equus asinus diventa pratica assai diffusa nell’area geografica compresa fra l’Egitto e la Mesopotamia).
Il bufalo indiano selvatico (Bubalus arnee) è oggi in via d’estinzione e si rinviene solo nelle riserve o nelle foreste fluviali inaccessibili del Nepal e del Sud-Est asiatico e, come detto sopra, il suo habitat preferito è legato al clima caldo e all’acqua (fiumi, praterie alluvionali, stagni, acquitrini etc.); la sua dieta è prevalentemente erbivora e presenta, nella sua grossa taglia, un aspetto tozzo (esiste dimorfismo sessuale e i maschi possono raggiungere, al garrese, l’altezza di quasi 2 m, una lunghezza tra i 2 e i 3 m e un peso superiore alla tonnellata); esibisce grosse corna che si presentano ricurve all’infuori e volte all’indietro e il manto presenta un pelo rarefatto, per cui la pelle è quasi nuda, pure se spessa e coriacea, e ricca di ghiandole sebacee, ma povera di ghiandole sudoripare, tanto che l’immergersi nell’acqua del bufalo rappresenta un’ineludibile strategia di difesa contro il caldo degli ambienti in cui vive (e, visto che vive spesso nell’acqua, gli zoccoli sono strutturati per facilitarne lo spostamento sul fondo, cioè appiattiti e allargati alla base); dato che non esiste alcuna evidenza archeologica di domesticazione, è poi ipotizzabile che la più antica domesticazione del bufalo trovi la sua origine nelle regioni caratterizzate dalla coltura del riso in Cina e in Indocina; in ogni caso è da sottolineare che, già all’altezza del III millennio a.C., la sua forma domestica è conosciuta nella valle dell’Indo (nella regione corrispondente al Pakistan odierno), in Cina e anche in reperti mesopotamici (il bufalo è attestato come selvatico, nel Vicino Oriente, già a partire dal Pleistocene); attualmente esistono due gruppi principali di bufali domestici (Bubalus bubalis), di taglia inferiore rispetto al progenitore selvatico, Bubalus arnee, quello di fiume, che vive in India e che predilige l’acqua corrente e limpida; quello delle paludi, che vive in Cina e Birmania (più simile al progenitore rispetto al bufalo di fiume), e che frequenta luoghi dove le acque sono fangose; il loro ruolo è principalmente quello d’essere efficienti animali da tiro nelle risaie.
Prima di parlare delle forme selvatiche di cammelli, dromedari, guanachi e vigogne, è necessario sapere che la famiglia dei Camelidi è originaria dell’America Settentrionale, famiglia estinta in Nord America che s’è in seguito diversificata in una sottofamiglia (Camelinae) con due tribù (v. supra) e s’è diffusa attraverso l’istmo di Panama nell’America del Sud (tribù dei Lamini) e, attraverso la Beringia, è passata dall’Alaska in Siberia, per poi penetrare verso Sud in Asia meridionale e verso Ovest in Africa settentrionale (tribù dei Camelini), in ogni caso in habitat che vanno dalla pianura fino ai 5 000 m s.l.m., dunque adattandosi al caldo e al freddo, alle zone aride e semiaride, alla pianura o alla montagna, cioè adattando le funzioni fisiologiche ad habitat carenti di risorse trofiche e caratterizzati da forti escursioni termiche tra estate/inverno o notte/giorno, volendo allo stress termico, alla disidratazione, alle difficoltà di respirazione e visione nei deserti o alla carenza d’ossigeno in altezza (o ipossia), e altro ancora, cioè in ambienti ostili all’insediamento antropico; in Asia e in Africa la tribù dei Camelini s’è diffusa con un genere (Camelus) nelle sue tre specie, due del cammello (in Asia, Camelus ferus, Camelus bactrianus) e una con il dromedario (in Africa, camelus dromedarius) e, in America Meridionale, la tribù dei Lamini s’è diffusa con due generi ciascuno con due specie, il guanaco (Lama guanicoe e Lama glama ) e la vigogna (Vicugna pacos e Vicugna vicugna); di specie selvatiche di queste due tribù, a tutt’oggi, esistono poi solo il cammello, il guanaco e la vigogna, persistendo il dromedario solo allo stato domestico (Camelus dromedarius); la tabella seguente riassume quanto affermato:

FAMIGLIA
Camelidae [1]
SOTTOFAMIGLIA
Camelinae
TRIBÙ
Camelini [2]
Lamini
GENERE
CAMMELLO (Camelus)
GUANACO (Lama)
VIGOGNA (Vicugna)
SPECIE
Camelus ferus
Lama guanicoe [3]
Vicugna pacos
Camelus bactrianus
Lama glama
Vicugna vicugna
Camelus dromedarius

[1] Questa famiglia s’è estinta, in Nord America, verso la fine del Pleistocene,
probabilmente grazie all’overkill antropico della Megafauna che ha reso il Nuovo
Mondo povero di specie da domesticare (per esempio, oltre ai Camelidi, sono
scomparsi anche gli Equidi).
[2] La divisione tra le due tribù è avvenuta, stando ai soli reperti fossili, 11 milioni
d’anni fa; le tribù dei Camelini e dei Lamini sono emigrate (una in Asia, l’altra
in Sud America) quasi contemporaneamente all’altezza di 3 milioni d’anni fa.
[2] Scritto anche nella forma guanicöe o guanicoë.

Tabella n.   .  Fonte: Cui et alii, 2007.

la figura seguente mostra invece graficamente dov’è nata la famiglia dei Camelidi durante l’Eocene (ca. 45 milioni d’anni fa) e la diaspora fra le due tribù dei Camelini e dei Lamini:


Figura n.   .  Fonte (modificata): Creative commons.

Riguardo al cammello selvatico attuale (Camelus ferus), l’analisi del DNA ha poi confermato che deve essere considerato una specie separata dal cammello domestico (Camelus bactrianus), ma anche che il Camelus ferus, oltre che di un lignaggio separato, non può essere considerato il progenitore diretto di Camelus bactrianus, tanto che il rapporto evolutivo tra Camelus ferus e Camelus bactrianus non è, a oggi, per nulla chiaro, cui s’aggiunga poi che non c’è alcuna prova che il progenitore del dromedario (Camelus dromedarius) sia un cammello; di là da queste incertezze, il cammello selvatico (Camelus ferus), detto anche cammello della Battriana selvatico, è originario del Turkestan cinese e della Mongolia ed è presente oggi allo stato selvatico soltanto in una ristretta zona ai margini del deserto del Gobi, in areali remoti della Mongolia e in habitat dov’è conformato alle forti escursioni termiche che vi sono presenti (la temperatura estiva può toccare i 60-70 ºC e quella invernale scendere a -30 ºC) e, a causa della predazione specialmente antropica, è considerato una specie in pericolo d’estinzione; la domesticazione del cammello, che ha permesso, assieme a quella d’altri membri della sottofamiglia Camelinae, la colonizzazione d’ambienti ostili all’uomo, è poi avvenuta in Asia centrale, da dove il cammello domesticato (Camelus bactrianus) s’è poi diffuso verso oriente sino alla Cina settentrionale e, a occidente, sino all’Asia Minore e alla Russia meridionale, anche se le prime evidenze archeologiche che documentano la domesticazione provengono dalla Persia e dal Turkestan e sono da riferirsi al III millennio a.C. (la prima testimonianza documentata dell’esistenza di cammelli domestici risale al ritrovamento di letame di cammello, all’altezza del 2 600 a.C., nel sito di Shahr-i Sokhta, uno dei primi esempi di società complesse, protostoriche, nella parte Sudorientale dell’Iran quasi ai confini dell’Afghanistan); il Camelus bactrianus, pur essendo domesticato, è mantenuto in uno stato semibrado, il che vuol dire che deve procurarsi autonomamente  le risorse trofiche nell’areale in cui vive e che il ruolo degli esseri umani è quello di garantirgli l’accesso all’acqua, ciò che avviene essendo i cammelli incustoditi in grado di ritornare alloro pozzo familiare; il cammello domestico presenta poi un corpo massiccio e pesante, una testa piccola, il collo lungo e strettamente incurvato, le zampe corte e robuste, un mantello folto e due gobbe dorsali molto sviluppate e irregolari (questo a differenza del cammello selvatico odierno che presenta gobbe piccole e a forma di cono, cioè con una base rotonda e un’estremità appuntita); il rivestimento peloso, ch’è molto più abbondante rispetto a quello del dromedario, è un carattere d’adattamento protettivo contro i freddi dei deserti asiatici e, sempre a causa delle escursioni termiche di cui sopra, il rivestimento cade autonomamente d’estate; questo cammello, ancora, è impiegato per il trasporto (fino a 400 kg e oltre) nelle regioni tra la Cina settentrionale e la Turchia e, se necessario, può percorrere 150 km in 15-20 ore, e può sopportare fino a 20 giorni senza bere e mangiare; la figura seguente ricostruisce l’aspetto del cammello domestico:


Figura n. (specie domestica: Camelus bactrianus). Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 179.

Il dromedario (Camelus dromedarius), o cammello arabo, è originario nella sua forma selvatica del deserto arabo-siriano (e il dato archeologico della sua domesticazione risale al III millennio a.C.), ed è oggi diffuso nei deserti caldi della regione sahariana e del Vicino Oriente; ha una corporatura snella, collo e zampe lunghe, pelo corto e una sola gobba (le gobbe dorsali di cammelli e dromedari sono, come sopra detto, accumuli di tessuti fibrosi e adiposi, dunque con lipidi di riserva che, metabolizzati, permettono a questi animali di sopportare lunghi periodi di digiuno); la sua dieta è d’erbe e cespugli secchi e, se ben nutrito con piante grasse e non sottoposto a sforzi eccessivi, può resistere alla sete per otto giorni; è impiegato per il trasporto (fino a 200 kg) e ha un’andatura più veloce di Camelus bactrianus; la figura seguente ricostruisce l’aspetto del dromedario:


Figura n. (specie domestica: Camelus dromedarius). Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 179.

Cammello e dromedario, stando ad alcuni autori, sono poi sottospecie d’una unica specie (non ancora identificata) dato che le differenze fra i due si riducono se si pensa, di là dagli adattamenti ai diversi habitat, che la regolazione della temperatura corporea e della resistenza alla sete obbediscono in entrambi alla stessa dinamica, che l’unica gobba del dromedario in realtà è data dalla fusione di due gobbe cresciute in modo asimmetrico (infatti, quella più grande si trova fusa in modo parziale con quella accennata al di sopra delle spalle, ridotta di dimensioni rispetto al Camelus bactrianus), che le due specie sono interfertili (solitamente, sono fertili solo gli ibridi femmina) e presentano lo stesso cariotipo (2n = 70).
I Camelidi sudamericani, animali tipici degli ambienti aridi e steppici che caratterizzano l’habitat della puna (l’altopiano andino, una regione semidesertica dal clima freddo e arido che si distende fra i 3 000 e i 5  000 m d’altitudine in Cile, Bolivia e Argentina), sono più piccoli rispetto a quelli del Vecchio mondo, non presentano dimorfismo sessuale, sono privi di gobbe dorsali e possiedono le orecchie più lunghe e sia le specie selvatiche che quelle domesticate presentano lo stesso cariotipo (2n = 74) e possono ibridarsi fra loro dando prole fertile, e l’ibridazione dei due generi Lama e Vicugna si spiega considerando che i dati emersi dal sequenziamento del mtDNA mostrano una divergenza relativamente recente risalente a ca. 2 milioni d’anni fa; si presume, inoltre, che la domesticazione del guanaco e della vigogna sia da collocare tra il 5 500 e 3 500 a.C., cioè prima della domesticazione del cammello nel Vicino Oriente, come mostrano i reperti archeologici dei siti preceramici della Puna di Junín, in Perù, nella parte centrale delle Ande; il guanaco (Lama guanicoe), il più grande artiodattilo selvatico del Sudamerica, dopo lo sterminio antropico (avvenuto tra i 7 000 e i 4 000 anni a.C.) sopravvive ora allo stato selvatico solo in un areale ristretto, nella regione andina oltre i 4 000 m d’altezza (inizialmente il suo areale era compreso fra la Cordigliera delle Ande e la Patagonia, fino alla Terra del Fuoco), e presenta una testa piccola, orecchie erette e appuntite, un collo lungo e incurvato e zampe lunghe e sottili; il manto è dato da pelo morbido; la figura seguente ne ricostruisce l’aspetto:


Figura n. (specie selvatica: Guanaco, Lama guanicoe). Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 178.

Il lama (Lama glama, o Lama peruana) è una forma domesticata del guanaco, ed è diffuso nelle regioni andine, dal Perù al Nord dell’Argentina; ha le orecchie con la punta rivolta verso l’interno e la pelliccia di colore variabile; è usato come animale da trasporto; la figura seguente ne ricostruisce l’aspetto:  


Figura n. (specie domestica: Lama, Lama glama). Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 178.

La vigogna (Vicugna pacos), più piccola e dal pelo più folto del lama, si trova esclusivamente in alta montagna, fra i 3 800 e i 5 000 m s.l.m., ed è diffusa nelle praterie alpine dall’Ecuador meridionale al Cile settentrionale; è il più piccolo dei camelidi sudamericani e ha una dentatura caratterizzata dalla crescita continua degli incisivi inferiori, e un vello lungo da 4 a 10 cm, che ha il ruolo di proteggerlo dalle fredde temperature andine; da ricordare che, mentre il cammello, il dromedario e il lama presentano poi una struttura sociale con un maschio dominante che assicura la coesione della mandria nel contesto d’un sistema di gerarchie di dominanza in un’area familiare (home range), senza essere spiccatamente territoriale, la vigogna vive in gruppi familiari all’interno di territori socialmente isolati difesi dal maschio (core area, v. supra), area da cui i giovani maschi sono scacciati dal maschio dominante non appena le madri smettono di proteggerli e in cui le giovani femmine sono, prima delle nuove nascite, espulse da entrambi i genitori; l’alpaca (Vicugna vicugna), inizialmente ritenuto discendente del guanaco, è una forma semidomestica della vigogna, ed è stato selezionato proprio per fornire lana d’alta qualità (presenta un manto con pelo molto lungo e folto, spesso di colore marrone), e vive in Perù e in Bolivia; stando ad alcuni studiosi non è poi una forma domestica della vigogna, ma una specie indipendente (Lama pacos); la figura seguente ne ricostruisce l’aspetto: 


Figura n. (specie domestica: Alpaca, Vicugna vicugna). Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 139.

Da ricordare, infine, che lo stomaco di tutti i Camelidi, specializzato per le diete erbivore, possiede tre sole concamerazioni (rumine, reticolo e abomaso, v. infra) invece delle quattro che si riscontrano nell’apparato digerente dei Ruminanti, manca, infatti, l’omaso (v. infra) e il cieco (v. infra) si presenta corto e semplice; oltre a questo, si formano nelle pareti del rumine delle cavità, dette celle acquifere, dove s’accumula l’acqua tratta dagli alimenti; tutti i Camelidi, ancora, presentano anche un apparato masticatorio diverso da quello dei Ruminanti, una muscolatura degli arti posteriori diversa da quella degli Ungulati in quanto le zampe s’inseriscono al tronco solo alla sommità della coscia (quando, per esempio, in cavalli e bovini l’inserzione ha luogo a partire dal ginocchio in su) e l’appoggio del piede non avviene sullo zoccolo, ma su un ampio cuscinetto cutaneo che alloggia le ossa delle dita e, infine, il fatto che le modificazioni anatomiche e fisiologiche che presentano rimandano alle strategie di sopravvivenza in ostili ambienti desertici e d’alta quota.
La renna selvatica (Rangifer tarandus) e quella domestica (Rangifer tarandus tarandus) non presentano grandi differenze osteologiche, per cui è praticamente impossibile potere risalire dall’analisi delle ossa al momento iniziale della domesticazione (permessa a seguito del fatto che sono animali altamente gregari e non territoriali, v. infra), pur essendo evidente nella Rangifer tarandus tarandus una domesticazione che presenta caratteristiche anomale rispetto alle altre; infatti, le popolazioni artiche e subartiche che hanno in carico le mandrie delle renne sono costrette al nomadismo (già a partire dal Paleolitico superiore, come mostrano alcune evidenze archeologiche), cioè si devono adattate agli spostamenti delle renne che, pur domesticate o semidomesticate, presentano abitudini migratorie (in autunno e in primavera) verso le loro aree familiari (home range) invernali ed estive, coprendo per questo anche enormi distanze alla ricerca di risorse trofiche nella tundra, dopo il disgelo di primavera, quali erbe, muschi, germogli, licheni (v. Cladonia rangiferina, supra), e, nella taiga, alla ricerca di cortecce di betulle o salici in autunno; le renne si cibano inoltre, quando riescono a catturarli, dei lemming (Lemmus lemmus), cioè di piccoli roditori lunghi ca. 15 cm, e, per ricostituire i sali minerali, vanno anche alla ricerca dell’urina degli animali (uomo compreso, v. infra); nella regione circumpolare sono poi presenti, in linea di massima, due sottospecie, la renna propriamente detta (Rangifer tarandus tarandus) diffusa nelle zone artiche e subartiche dell’Eurasia e in cui gli animali resi domestici si mescolano con quelli selvatici o semiselvatici, e il caribù (Rangifer tarandus caribou, da alcuni ritenuto una specie, Rangifer caribou), diffuso nelle zone artiche e subartiche del continente americano, allo stato selvatico (e si suppone non sia mai stato domesticato); la Rangifer tarandus tarandus, l’unica a essere domesticata, è alta all’incirca 1 m alla spalla, lunga 1,80 m ca., e presenta un mantello folto (la muta avviene due volte l’anno) e, caso unico fra i Cervidi, i palchi sono presenti in entrambi i sessi, sebbene più forti e lunghi nel maschio (al confronto, il caribù presenta corna più brevi, ma più pesanti, oltre che una corporatura più robusta, là dove l’altezza al garrese è ca. 1,40 m e la lunghezza 2-2,20 m); per inciso, le femmine perdono i palchi poco prima di figliare e i maschi dopo la stagione riproduttiva (i palchi cadono e ricrescono annualmente a seguito di variazioni ormonali a partire da brevi ossa frontali e rappresentano il tessuto animale a più rapida crescita conosciuto); da ricordare che la renna, come i camelidi e l’asino, s’è adattata a condizioni ambientali estreme, nello specifico a temperature di – 50°C, e in ambienti dove venti estremamente forti e bufere nevose sono presenti quasi quotidianamente per 9 mesi all’anno (il manto della renna è poi costituito da peli ruvidi molto fitti con il fusto cavo per favorire l’isolamento termico e il naso è coperto da un pelo fitto e lungo che le consente di pascolare nella neve e, oltre a ciò, comportamento, anatomia e fisiologia sono adattate agli ambienti estremi, cioè finalizzate all’economia e alla conservazione delle risorse individuali al fine della sopravvivenza in ambienti ostili).
Lo Yak selvatico (Bos mutus, classificato anche come Poëphagus mutus, detto mutus, muto, perché non emette muggiti, ma suoni bassi e gutturali durante la stagione riproduttiva), è affine all’estinto uro e ha il suo areale di diffusione sugli altopiani steppici della Mongolia, dell’Himalaya e del Tibet, e intraprende spostamenti spaziali e altitudinali di notevole entità (da 4 000 m fino a 6 000 m e oltre d’altezza) alla ricerca dei pascoli stagionali reperiti nella tundra alpina, nella praterie e nella steppa desertica, là dove le risorse trofiche variano poi per tipologia (la base della dieta presenta erbe e càrici); infatti, nonostante la forma imponente e tozza (con una gobba sul dorso all’altezza delle spalle), lo Yak è un abile arrampicatore, adattato ai climi rigidi, con arti robusti, zoccoli larghi anche molto divaricati al fine di potersi adattare alla vita in zone paludose, e con un vello di colore scuro (una specie di marrone tendente al nero), folto e lungo particolarmente nella parte anteriore del collo (la giogaia), sulle zampe, ai lati del tronco e nella coda, cui s’aggiunge un sottopelo lanuginoso che cresce prima dell'inizio dell'inverno come protezione aggiuntiva, un apparato pilifero che gli permette di sopportare anche basse temperature che possono arrivare anche a -40 °C; lo Yak presenta, inoltre, date le altitudini frequentare, il clima freddo e l’aria rarefatta, un adattamento che si traduce in un cuore e in polmoni più grandi, in un numero elevato di globuli rossi e in una più alta concentrazione d’emoglobina, il tutto per permettere una maggiore capacità per il trasporto dell’ossigeno; la specie è poi caratterizzata da dimorfismo sessuale e i maschi possono superare i 2 m d’altezza al garrese, i 3 m di lunghezza e pesare fino a 1 t; a causa della predazione antropica lo Yak selvatico ha ristretto il suo areale originario ed è attualmente. considerato una specie in pericolo d’estinzione. Lo Yak domestico (Bos grunniens, alla lettera, bue che grugnisce) differisce di poco dal suo progenitore selvatico, e variano soprattutto le dimensioni, che sono più ridotte e che nei maschi possono però raggiungere quasi 2 m d’altezza al garrese, e per un peso che può raggiungere i 7 q e oltre; variano, inoltre, le corna, che sono meno lunghe e massicce (ma le forme domesticate possono anche essere acorni), il colore del mantello, che può essere anche pezzato, e le zampe più corte, ed è probabilmente già domesticato all’altezza del I millennio a.C. presso le popolazioni tibetane presenti nell’altopiano del Pamir orientale o nella catena montuosa del Kuen-lun; allevato all’altezza dei 2 000 m, è in grado di soddisfare praticamente tutti i bisogni basilari delle popolazioni nomadi essendo un animale da soma (per esempio, può sopportare il trasporto di carichi, fino a 150 kg, sulle lunghe distanze per due o tre giorni senza acqua o alimentazione), da sella, da latte, da carne, da pelo, da cuoio etc., insomma un animale di cui nessuna parte va sprecata, tanto che s’utilizza persino  lo sterco che, essiccato in tavolette, è utilizzato come combustibile naturale; la figura seguente ricostruisce poi l’aspetto dello Yak domestico:


Figura n. (specie domestica: Yak, Bos grunniens). Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 139.

Il banteng (Bos sondaicus, v. supra) e il gaur (Bos gaurus, tra i più grandi bovidi selvatici), sono specie tra loro affini che si trovano nelle giungle del Sud-Est asiatico; il banteng presenta il suo areale originario di diffusione in Malesia e nelle isole indonesiane (Sumatra, Borneo, Giava) e, oggi, lo si ritrova a Giava, in riserve protette in quanto è ritenuto in via d’estinzione a causa della predazione antropica; è caratterizzato da un’altezza, al garrese, che sfiora i 2 m, da una lunghezza che raggiunge i 2 m, per un peso che va da 500 a 900 kg (la sua dieta base è data da erbe e da germogli di bambù) e da lunghe corna, da un mantello corto, lucido, di colore bruno scuro uniforme e da zampe, dal ginocchio in giù, che presentano macchie bianche (la specie presenta dimorfismo sessuale); il banteng domestico (Bos javanicus) sopravvive solo nelle isole della Piccola Sonda (Bali e Lombok) e non si dispone di nessuna evidenza storica o archeologica che possa illustrare il processo della sua domesticazione; la figura seguente ricostruisce l’aspetto del Bos sondaicus:


Figura n. (specie selvatica: Banteng, Bos sondaicus). Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 139.

Il gaur è originario delle dense formazioni forestali che s’estendono dall’India meridionale e dal Nepal fino alla Malesia; la specie presenta dimorfismo sessuale e il gaur può raggiungere una lunghezza di 3 m e oltre, un’altezza, al garrese, di più di 2 m e un peso che nei maschi può arrivare a 1,5 t (la sua dieta base è data da erba e da germogli di bambù), ed è ritenuto il più grande di tutti i Bovidi selvatici attualmente viventi; possiede corna molto robuste e un mantello da bruno a rossiccio o tendente al nero, con zampe bianche alle estremità (i maschi adulti si caratterizzano poi per una giogaia bipartita sul collo e sulla gola e da un’accentuata gibbosità al garrese, presente anche nel banteng e che non è un accumulo di grasso come nello zebù, ma una cresta che si forma sulle lunghissime apofisi spinose delle vertebre toraciche); anche il gaur, come il banteng, è ritenuto in via d’estinzione a causa della predazione antropica; la figura seguente ne ricostruisce l’aspetto:


Figura n. (specie selvatica, Gaur, Bos gaurus). Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 197.

Il mithan o gayal (Bos frontalis) è un brucatore di foresta distribuito tra i 600 e i 1 500 m d’altitudine, e differisce dalla forma selvatica del gaur, da cui probabilmente deriva, soprattutto nelle dimensioni, più ridotte, nel carattere più docile e nella diversa conformazione delle corna, meno incurvate e più lunghe e dalle zampe più corte (da alcuni studiosi è considerato come una specie a parte); è una forma semidomestica del gaur in quanto è lasciato vagare, durante il giorno, liberamente alla ricerca di risorse trofiche, mentre la sera ritorna nei villaggi (è allevato in regioni dell’India, della Birmania e della Cina); come per il Bos javanicus non è disponibile nessuna evidenza archeologica sull’origine della sua domesticazione, anche si pensa che abbia avuto corso nella civiltà sviluppata nella valle dell’Indo all’altezza di 2 500 anni fa, si suppone per la loro bramosia di sale che ne ha inizialmente permesso l’avvicinamento allo stato brado e, successivamente, a incoraggiarli e a persuaderli a rimanere nei pressi dei villaggi; la figura seguente ne ricostruisce l’aspetto:


Figura n. (specie domestica, Mithan, o Gayal, Bos frontalis). Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 197.

Mostrate le caratteristiche di massima degli animali selvatici che sono stati domesticati, ora si presentano le caratteristiche che devono essere presenti affinché un processo di domesticazione di queste pecie possa attuarsi; in linea di massima si può dire che un animale selvatico, per potere essere domesticato, deve essere in possesso d’un pacchetto di comportamenti estremamente preciso (come mostrano i 134 fallimenti), in mancanza del quale l’esito sarà sempre negativo; i fattori che possono impedire la domesticazione sono vari, tra questi si segnala il fatto che la riproduzione in cattività richiede che i rituali codificati di corteggiamento propri alla specie siano possibili nell’area di stabulazione all’aperto e per molti animali questo non è possibile date le necessità imposte dall’investimento sessuale, dall’aggressività dei maschi nella competizione intrasessuale, dalla recettività delle femmine e per le caratteristiche dell’isolamento riproduttivo prima della copula (e, per certi animali, questo è vero anche se non vivono isolati, ma in branco); ad esempio, le vigogne (v. supra), per i loro lunghi e elaborati corteggiamenti, difficilmente sono domesticabili per cui, per tosarle, bisogna obbligarle ad una stabulazione temporanea e, dopo la tosatura, rilasciare loro la libertà; ancora, data la progenie, un animale domestico deve crescere in fretta, pena un dispendio diseconomico; infatti, un erbivoro come l’elefante (Elephas), per esempio, richiede ca. 15 anni per diventare adulto, ed è per questo che gli elefanti sono catturati adulti e ammaestrati di volta in volta (sono cioè addomesticati, ma non domesticati). Per non parlare del fatto che certi animali che vivono in branco, per esempio le renne (v. supra) e le gazzelle, non possono essere indirizzati durante il loro percorso migratorio, come può fare l’uomo per la capra o la pecora; oppure può capitare che molti animali manifestino comportamenti imprevedibili o aggressivi nei confronti dell’uomo; l’onagro persiano (Equus hemionus onager, v. supra), per esempio, un animale apparentemente domesticabile in quanto sottospecie dell’asino selvatico asiatico (Equus hemionus), si dimostra, se domesticato, incontrollabile, irascibile, pronto a non abbandonare mai la presa se riesce a mordere chi l’avvicina, ciò che produce gravi ferite; in più, se ridotto in cattività, morde con ferocia anche le femmine compromettendo così di fatto le sue possibilità riproduttive; segue, in figura, la ricostruzione dell’aspetto dell’onagro:


Figura n. . Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 141.

Oppure che, se gregari, abbiano caratteristiche di socialità sgradite alla cultura degli allevatori; per esempio, il licàone (o licaòne, Lycaon pictus), è un Canide che si sposta per lunghi tratti in un’ampia gamma di habitat a Sud e a Est del Sahara ed è anche un ipercarnivoro che vive e caccia in branco, un carnivoro altamente altruista, tanto da possedere uno stomaco sociale; infatti, il suo comportamento sociale è incentrato sui piccoli (che sono partoriti nello stesso periodo e allevati collettivamente) ed è dettato dal fatto che il cibo cacciato è in parte destinato alla loro sopravvivenza e a tal fine è loro rigurgitato in bocca, così come l’offerta di cibo rigurgitato è anche per chi, durante la caccia alla preda, di solito antilopi, è stato escluso dal pasto (madri, feriti o altri), dunque non un comportamento fondato sulla comunicazione mediante l’espressione facciale o la postura (come avviene in altri Canidi tra di loro e nei confronti dell’uomo), ma un comportamento dettato dalla condivisione con tutti del cibo predato, abbondante o meno che sia, appunto lo stomaco sociale di cui sopra; tanto che l’uomo, per disgusto nei confronti di questa pratica, non vuole domesticarlo, anche se questa domesticazione sarebbe fattibile nel caso accettasse la modalità comunicativa di ricevere in bocca il cibo rigurgitato del licaone al pari degli altri membri del branco; segue, in figura, la ricostruzione del suo aspetto:


Figura n. (Lycaon pictus). Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 68.

Altri animali, ancora, pur essendo gregari, non si lasciano raggruppare (imbrancare) e scappano al primo cenno di pericolo e, se posti in cattività, muoiono di paura o nel tentativo di saltare di là dal recinto; la gazzella dorcade (Gazella dorcas), per esempio, di fronte a un predatore, scappa subito ad una velocità che può raggiungere gli 80 km ca. all’ora e presenta la capacità di superare ostacoli fino a 15 m d’altezza e, se addomesticata nonostante le capacità di fuga, scatta in preda al panico contro le recinzioni fino a procurarsi lesioni mortali; segue, in figura, la ricostruzione dell’aspetto d’una gazzella dorcade:


Figura n. (Gazzella dorcade, Gazella dorcas). Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 31.

Escluse queste caratteristiche che presentano impedimenti, il pacchetto della domesticazione prevede poi che l’animale da ridurre in cattività debba essere un erbivoro (o onnivoro, come il maiale), ma non un carnivoro; e il perché è presto detto, dato che l’efficienza della massa del consumato (vegetali o carne) si converte, come sopra detto, in quella del consumatore (animale vegetariano o carnivoro) con una media del 10% ca., ci vogliono, ad esempio, 5 tonnellate di mais (Zea mays) per avere un erbivoro di 500 chili e 50 tonnellate di vegetali, cioè 5000 chili di carne, per avere un carnivoro di 500 chili; va da sé che, data la scala, nella catena alimentare in cattività un carnivoro non è proficuo; ancora, l’animale deve vivere in branco, cioè deve partecipare a una struttura di relazioni sociali codificata (come dire che la dominanza deve essere stabilita attraverso un ordine gerarchico o di rango), e non deve avere un comportamento rigidamente territoriale (cioè deve condividere il territorio, o area familiare, del suo branco con altri branchi, ossia tollerare la presenza di altri simili, a differenza di quei branchi in cui i maschi, solitamente, difendono l’area familiare dagli animali ritenuti intrusivi). Prendiamo, per esempio, i cavalli selvatici, che presentano nella loro organizzazione sociale (non territoriale) un ordine di dominanza in quanto vivono in branchi (o harem) formati da uno stallone, da alcune giumente (fino a un massimo di sei) e dai loro puledri e tra le giumente, una è dominante e le altre sono dominanti ognuna con la giumenta che le segue in scala gerarchica; negli spostamenti, che sono abitudinari e tendono a dar luogo a piste segnalate dagli escrementi (ciò che ha facilitato la loro localizzazione a chi voleva domesticarli), il branco presenta lo stallone in coda, la giumenta dominante in testa seguita dai puledri in ordine di nascita, cui seguono le giumente in ordine di rango, a loro volta accompagnate dai puledri a scalare (l’ultimo nato, lo si ripete, è sempre il più vicino alla madre); in questa struttura sociale si può poi inserire l’uomo che può rendere il branco domesticato (ciò che presuppone la manipolazione delle relazioni sociali interbranco), infatti, in questo caso, i cavalli seguono l’uomo che ha il rango di giumenta dominante, il tutto perché in cattività i puledri, appena nati, lo riconoscono in modo irreversibile o comunque durevole come tale, poiché la giumenta madre non è presente e anche se di fatto l’uomo è un suo surrogato in movimento (è quello che si chiama meccanismo dell’imprinting o Prägung; vale la pena sottolineare, a questo proposito, che l’imprinting comporta una soggezione attiva e emotiva dell’animale all’uomo, che si manifesta con una specie di neotenia, come detto con il mantenimento, o ritenzione, da adulto del comportamento giovanile e sottomesso del piccolo nei confronti del genitore); ora, poiché i cavalli, anche domesticati, non hanno un comportamento rigidamente territoriale, possono poi essere riuniti in branchi e convivere ammassati nei recinti o nelle stalle, con la clausola che i cavalli maschi (escluso quello o quelli per la riproduzione) siano castrati e, se non castrati, tenuti almeno in stalle individuali; infatti, se è vero che il cavallo segue un ordine di dominanza non territoriale ed è soggetto all’imprinting, non presenta però la caratteristica d’un forte gregarismo in quanto, per esempio, un giovane stallone allo stato brado (che rimanda alla seconda forma sociale dei cavalli selvatici, che è quella di un branco di soli giovani maschi che esplorano vasti territori in modo imprevedibile) cerca di portare via dagli altri branchi le giovani giumente e, per convincerle, le morde e sferra loro calci, comportamento ch’è inibito s’è castrato o stabulato. Lo stesso fenomeno, dalla logica delle relazioni sociali di dominanza all’interno del branco alla Prägung e ai recinti, si presenta, ad esempio, nelle capre, nelle pecore, nei bovini e nelle renne che hanno anche il vantaggio di essere animali molto, ma molto più gregari dei cavalli (quindi, in ogni caso, più facili da domesticare). La figura seguente mostra come le renne, data la loro modalità di manifestare una distanza di fuga (v. supra) ridotta, cioè con la loro tolleranza a sopportare gli intrusi (siano uomini, cani o anche lupi) e la gregarietà slegata dalla territorialità, siano facilmente indirizzabili nella direzione desiderata semplicemente gridando, vale a dire sfruttando la loro reazione alla paura, che consiste nello stringersi l’una all’altra e nel seguire il leader del gruppo (lo stesso vale per molti altri animali artiodattili domesticabili, quali ruminanti e suini, anche se poi l’imbrancamento delle renne s’è poi evoluto nella pratica di seguirle nelle loro migrazioni):


Figura n. . Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 194.

La renna, inoltre, oltre al sale da lambire offerto da mano umana, predilige, come detto, anche l’urina degli animali e dell’uomo con i loro sali, di cui essa abbisogna (e sono per lei insostituibili), ciò che, tra l’altro, nel caso dell’urina umana, l’abitua all’odore dell’uomo e la spinge a seguirne le migrazioni; altri animali, invece, facilitano poi l’allevamento poiché sono commensali, come la capra e il montone che, di là dal pacchetto sopra citato, amano le graminacee, colture degli agricoltori presso i quali s’avvicinano e che permettono agli uomini l’alimentazione stabulare; altri animali, detti animali spazzini poiché onnivori, si avvicinano agli uomini perché amano invece i suoi rifiuti, anche carnei, come s’è visto sopra nel caso del lupo e come vale anche per il cinghiale (l’uno legato alla storia evolutiva del Cane, v. supra; l’altro, come detto, precorritore del maiale; da sottolineare, a questo proposito, che se i cinghiali adulti sono particolarmente aggressivi, cioè territoriali per quanto riguarda il cibo e le femmine, i lattonzoli, cioè i cinghiali poppanti, si lasciano al contrario prontamente addomesticare, vivono in gruppo a stretto contatto, e s’abituano facilmente allo stile di vita degli insediamenti antropici, ad esempio adottando ritmi di veglia e sonno umani a causa del fatto che, mangiando ininterrottamente rifiuti per molte ore, la notte dormono, a differenza del cinghiale selvatico che ha abitudini crepuscolari e notturne; per non parlare poi degli animali saprofagi (v. supra), che mangiano la carne lasciata dall’uomo sulla carcassa della bestia uccisa e che s’avvia alla decomposizione. Come visto, gli animali domesticati sono, tranne il maiale (v. supra), il cane (v. supra) e il gatto (v. supra), tutti erbivori e, tranne il cavallo (v. infra), tutti ruminanti. I ruminanti, infatti, presentano un apparato digerente adatto per assimilare alimenti ad alto contenuto di cellulosa ed emicellulosa (erba, arbusti, fieno, stoppie, paglia e foglie) grazie ai loro stomaci che sono divisi in quattro cavità di fermentazione (concamerazioni) dove i batteri decompongono i materiali fibrosi (in realtà si dovrebbe parlare di un pre-stomaco a tre concamerazioni, o tratti specializzati dell’esofago, e di uno stomaco, l’abomaso). Il processo di digestione avviene in due fasi: quando brucano (ossia mangiano l’erba con la lingua), i ruminanti masticano in modo grossolano i bocconi (la dentatura è anch’essa specializzata, con molari dalla struttura larga e piatta atta a triturare le fibre di cellulosa) , tanto che il cibo mal triturato e insalivato passa direttamente nella prima cavità, o rumine, dove inizia il processo di fermentazione grazie alla flora batterica; dopo di che, in seguito a rigurgiti e insalivazioni periodiche (un ruminante arriva a produrre fino a 60 l al giorno di saliva), il contenuto del rumine ritorna per risucchiamento e eruttazione nella bocca dell’animale sotto forma di bolo, bolo che viene ulteriormente masticato, o ruminato, e poi inviato nelle altre cavità, reticolo e omaso, dove subisce un ulteriore processo di fermentazione e, alla fine, nell’abomaso dove avviene un vero e proprio processo di digestione grazie agli acidi e agli enzimi; le figure che seguono mostrano il percorso del cibo del mammifero ruminante (le frecce orientate indicano il percorso del cibo):


Figura n. . Fonte: Smolik, 1978, p. 132


Figura n.  . Fonte: Cavalli-Sforza e Cavalli-Sforza, 2010 a, p. 282.

Da notare è poi il fatto che, nutrendosi i ruminanti di cellulosa ed emicellulosa, il loro ciclo alimentare non è antagonista a quello dell’uomo. Ora, come sopra evidenziato a proposito della sindrome da domesticazione, le modificazioni nel processo di passaggio dallo stato primigenio (selezione naturale) a quello domesticato (selezione artificiale) sono varie; infatti, dopo un lungo periodo di incroci selettivi, nell’animale domesticato emergono alterazioni morfologiche, essendo il corpo del mammifero una struttura plastica (pur nel vincolo delle barriere genetiche) che subisce, ad esempio, uno squilibrio nella velocità con cui le diverse parti dell’organismo crescono le une rispetto alle altre tanto che l’individuo adulto domesticato presenta proporzioni anatomiche diverse dalla controparte selvatica (e, data l’ipotesi della cresta neurale, v. supra,  si sospetta che questo dipenda dalle variazioni ormonali indotte dalla dipendenza fisica ed emotiva all’uomo giacché, rinselvatichito, un animale che era domestico e che riacquista le originarie condizioni di relazione sociale intergruppo, cioè l’autosufficienza alimentare e riproduttiva e l’imprinting non manipolato, recupera cioè l’indipendenza fisica ed emotiva, riprende dopo un certo tempo, per selezione naturale, sembianze simili a quelle del progenitore selvatico). Se n’è già parlato sopra, e giova forse ripetere che tra le modificazioni indotte dalla sindrome da domesticazione uno dei primi indizi certi si ha con una riduzione della taglia corporea (tra le specie che sono diventate più piccole si hanno, tra altre, buoi, maiali, pecore e capre; per esempio, le ossa metacarpali delle capre, di cui s’è detto sopra, passano dai 140 mm del Paleolitico ai 100 mm del Neolitico); valga, a illustrazione della riduzione corporea, la figura seguente che mostra, in modo approssimativo, il passaggio di taglia dall’uro (v. supra) al bue, suo discendente domestico:


Figura n. . Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 103.

Ancora, si presentano un allungamento delle orecchie (con l’eccezione del cavallo), dei nuovi tipi di code (quali la coda a cavatappi del maiale di cui s’è detto sopra, v. figura n. , o la coda grassa in alcune pecore), la presenza di più pelo (con la sparizione della spontanea muta estiva e una crescita continua di vello, per esempio, il sottopelo lanoso nelle pecore), un aumento della deposizione di grasso nel sottocute e nei fasci muscolari (come nel manzo e nel montone) o un aumento generalizzato di grasso (come nei maiali e nelle pecore o negli animali castrati, quale il bue), una riduzione delle dimensioni del cervello (quale, per esempio, la diminuita capacità cranica della pecora), le variazioni nella regione del cranio (come il diverso sviluppo delle corna di bovini, ovini o caprini, v. figura n. , supra; per le capre, v. infra), si presenta, insomma, la sindrome da domesticazione; segue una figura che illustra la coda a cavatappi del maiale:


Figura n. . Fonte: Clutton-Brock, 2001, p. 51.

Molte specie, poiché non devono più presentare comportamenti di distanza di fuga dai predatori in quanto stabulate, presentano poi un’evoluzione degli organi legati ai sensi molto meno sviluppata rispetto ai loro progenitori ancestrali; infine, tra gli animali che sono stati domesticati, il cavallo è l’animale che ha subito meno modificazioni dal punto di vista genetico, probabilmente perché, almeno in fase di neolitizzazione assestata, non è rientrato tra gli animali selezionati dagli uomini per la produzione carnea o lattea (in realtà, il consumo di carne di cavallo ha subito delle oscillazioni; per esempio, nel Paleolitico la sua carne, che se l’animale non è sottoposto a sforzo, è tenera tanto nel puledro, quanto nell’individuo adulto, è molto apprezzata, tanto che la pressione venatoria rischia di farlo scomparire essendo un metodo di caccia anche quello di far precipitare mandrie di cavalli dai dirupi, e, almeno nelle fasi iniziali della domesticazione, lo stesso apprezzamento riceve dai popoli centro-europei e asiatici dediti alla pastorizia e dai popoli pre-cristiani dell’Europa settentrionale). Detto questo, in linea di massima possiamo ora così indicare, come mostra la tabella, le caratteristiche che deve presentare il pacchetto dell’animale che può essere domesticato (non è compreso il tratto dell’autodomesticazione, né il fatto che un animale allevato in condizione di domesticazione, cioè isolato riproduttivamente dai suoi progenitori selvatici e là dove la riproduzione naturale in ambiente antropico si lega a quella artificiale, darà origine a una nuova specie):

PACCHETTO DELLA DOMESTICAZIONE
TRATTI DISTINTIVI
CARATTERISTICHE DI MASSIMA
ROBUSTEZZA
DEVE POTERE SOPRAVVIVERE AL DISTACCO DELLA MADRE, PROBABILMENTE PRIMA DELLO SVEZZAMENTO, E ADATTARSI A UN NUOVO AMBIENTE, A NUOVE CONDIZIONI DI TEMPERATURA E D’UMIDITÀ; DEVE RESISTERE ALL’ATTACCO D’AGENTI INFETTIVI E DI PARASSITI NUOVI PER LA SUA SPECIE
ALIMENTAZIONE
DEVE PRESENTARE UNA DIETA FLESSIBILE PER QUANTO RIGUARDA LE ABITUDINI ALIMENTARI
CRESCITA
DEVE PRESENTARE UN ACCETTABILE TASSO DI CRESCITA (A FRONTE DELLA DURATA D’UNA VITA UMANA) AL FINE DI POTERE ESSERE UNA FONTE ALIMENTARE DISPONIBILE
RIPRODUZIONE
DEVE POTERSI RIPRODURRE IN CATTIVITÀ, NON DEVE CIOÈ MANIFESTARE COMPORTAMENTI INDIVIDUALISTI E COMPETITIVI NELLA STAGIONE DEGLI AMORI
GREGARIETÀ
LA SPECIE CUI APPARTIENE DEVE PRESENTARE UNA STRUTTURA COMPORTAMENTALE AFFINE A QUELLA UMANA, CIOÈ DEVE TRATTARSI D’UN ANIMALE SOCIALE IL CUI COMPORTAMENTO È IMPERNIATO SU UNA GERARCHIA DI DOMINANZA, AL FINE DI POTERE ACCETTARE LA FUNZIONE DI GUIDA (LEADERSHIP) DELL’UOMO
PREVEDIBILITÀ
DEVE PRESENTARE UN COMPORTAMENTO CHE SIA PREVEDIBILE
MANSUETUDINE
NON DEVE ESSERE AGGRESSIVO NEI CONFRONTI DELL’UOMO
DISTANZA DI FUGA
DEVE PRESENTARE UNA BASSA DISTANZA DI FUGA
AMMASSAMENTO
LA FUGA DEVE MANIFESTARE IL COINVOLGIMENTO DELL’INTERO BRANCO (GLI ANIMALI DEL BRANCO DEVONO POTERE TOLLERARE LA RECIPROCA PRESENZA)
TERRITORIALITÀ  
NON DEVONO ESSERE RIGIDAMENTE TERRITORIALI, DEVONO CIOÈ AVERE PARTI DI TERRITORIO SOVRAPPONIBILI E IN COMUNE CON ALTRI BRANCHI

Tabella n.  . Fonte: Diamond, 1998, pp. 129-133; Clutton-Brock, 2001, pp. 14, 21-22.

Ancora, prima di passare alla domesticazione delle piante, può essere forse utile ricordare il rapporto ch’è intercorso, nell’arco temporale che va dal Paleolitico al Neolitico, fra le comunità umane preistoriche e gli animali coinvolti in un processo che sarà poi di domesticazione, come mostra la tabella seguente (dove sono coinvolti solo gli ungulati) da leggersi con beneficio d’inventario:

STRATEGIE DI GESTIONE DEGLI UNGULATI
CARATTERISTICHE DI MASSIMA
PREDAZIONE CASUALE [1]
È SVOLTA UN’ATTIVITÀ DI PRELIEVO SECONDO LE ESIGENZE OCCASIONALI
PREDAZIONE CONTROLLATA [2]
È ESERCITATO UN CONTROLLO SULLA PREDAZIONE IN PERIODI STAGIONALI PARTICOLARI
ACCOMPAGNAMENTO DEI BRANCHI [3]
GLI SPOSTAMENTI DEL BRANCO SONO SEGUITI ESERCITANDO UNA FORMA DI CONTATTO COSTANTE, AL PUNTO DI SVILUPPARE UN’ASSOCIAZIONE CON UNA PRECISA POPOLAZIONE ANIMALE
CONTROLLO A DISTANZA
IL CONTROLLO DIRETTO SUGLI ANIMALI È ESERCITATO SOLO IN ALCUNI PERIODI DELL’ANNO, IN PRIMAVERA ED AUTUNNO, QUANDO LO SPOSTAMENTO DEL BRANCO È PILOTATO DA CONTROLLORI AL FINE D’ASSICURARE IL COMPLETO TRASFERIMENTO DEL BRANCO CUI UN DETERMINATO GRUPPO UMANO S’È ASSOCIATO
CONTROLLO RAVVICINATO [4]
IL CONTROLLO DIRETTO SUGLI ANIMALI È ESERCITATO DURANTE TUTTO L’ANNO, A CONTATTO COSTANTE CON IL BRANCO, NON ESCLUDENDO L’IMPIEGO DI RECINZIONI
ALLEVAMENTO STABULARE [5]
L’ANIMALE È MANTENUTO IN CONDIZIONI D’IMMOBILITÀ IN UN AMBIENTE ANTROPICO PER L’INTERO CORSO DELLA SUA ESISTENZA DOVE’È ALIMENTATO E DIFESO DAI PREDATORI

[1] In questo caso interessa l’animale morto come risorsa trofica, ciò che manifesta un atteggiamento
di predazione non razionalizzata delle risorse naturali giacché, in condizioni tecnologiche più evolute
(che si presentano alla fine del Pleistocene), sono solitamente uccisi molti più animali di quanti
ne occorrano per sopravvivere, com’è accaduto alla fine dell’ultima glaciazione (overkill).
[2] A partire da questo tipo di controllo s’incomincia lentamente a introdurre il calcolo razionale nella
gestione degli animali come risorsa trofica, ciò che sposta l’interesse dall’animale morto a quello vivo,
nello specifico a ciò che assicura e mantiene una riserva trofica che si ritroverà nella prole dell’animale
controllato.
[3] In questo contesto, i cacciatori adattano il loro comportamento a quello delle prede, secondo processi
biologici intrinseci tra predatore e preda, ciò che dà poi vita a sistemi culturali specializzati nella caccia
di particolari prede.
[4] Nel caso dell’uso di recinzioni, si parla di stabulazione libera. In questo contesto, invece di modellare
il proprio comportamento su quello della preda, l’uomo impara a manipolare e a rendere più mansueto il
comportamento d’alcuni animali con cui si riesce a comunicare socialmente, ed è probabilmente a partire
da questa fase che s’iniziano ad elaborare i concetti economici legati al valore attribuito all’animale, cioè
l’operatività permessa da nozioni quali possesso/eredità/scambio/acquisto.
[5] In questo caso si parla di stabulazione fissa. Di qui, attraverso un isolamento riproduttivo permesso
dalle barriere antropiche, s’arriverà poi all’odierna detenzione utilitaristica dell’animale non più come
sola risorsa trofica, bensì come risorsa economica in senso stretto, cioè come predazione non razionale
delle risorse naturali.

Tabella n.  . Fonte (modificata): Masseti, 2008, pp. 185-186, p. 270.

In questo processo che porterà degli animali a essere domesticati, e che la tabella appena vista propone per quadri di sviluppo, è poi importante sottolineare che, se il tentativo di domesticare le piante (cioè d’isolare delle varianti genetiche che si dimostrino portatrici dei tratti desiderati, v. infra), è stato antropicamente perseguito nel corso del tempo in maniera più decisa, o relativamente più decisa, con pratiche di selezione artificiale, nel caso degli animali la selezione naturale nel processo di domesticazione è stata predominante, e di molto, rispetto alla selezione artificiale (come del resto s’è visto nei casi sopracitati dove s’è parlato d’autodomesticazione); tanto ch’è sempre bene insinuare che, nelle strategie di gestione degli ungulati riportate in tabella, né l’allevamento intenzionale né l’isolamento genetico (ossia la selezione artificiale), sono stati in un arco diacronico di lunga durata un fattore precipuamente importante essendo, per esempio, l’allevamento degli esemplari femminili legato ad una consapevolezza che s’è presentata tardivamente, ed essendo poi quest’allevamento diventato consapevole strettamente legato, a sua volta, alle possibilità umane di controllo, possibilità che sono inizialmente costrette ad essere esercitate al massimo su degli esemplari maschili in surplus, cioè delle possibilità ridotte alla sola pratica della castrazione (ciò che richiede anche l’evolversi d’una competenza), là dove poi la maggioranza degli esemplari femminili, e per tempo lungo, non è stata geneticamente isolabile, vale a dire ch’è stata passibile d’incroci con esemplari maschi non domestici, selvatici, cosa che del resto mostra anche la presenza d’un flusso di geni a lungo termine prodotto dall’ibridazione continuata fra gli animali selvatici e quelli in fase di domesticazione che si ritrova in seguito nell’analisi del DNA delle femmine domesticate, per esempio, di caprini, ovini, suini, asini, bovini e camelidi. Può essere utile, ancora, illustrare in sequenza ipotetica e per sommi capi (e con beneficio d’inventario) il processo biologico di domesticazione, come mostra la tabella seguente:

PROCESSO BIOLOGICO DI DOMESTICAZIONE
TRATTI DISTINTIVI
CARATTERISTICHE DI MASSIMA
ISOLAMENTO
UN PICCOLO GRUPPO D’ANIMALI RIDUCE LA DISTANZA DI FUGA E PUÒ ESSERE ISOLATO
AMBIENTE ANTROPICO
INIZIANDO A VIVERE IN AMBIENTE ANTROPICO, CIOÈ  IN STRETTO E CONTROLLATO ISOLAMENTO DAI CONSIMILI SELVATICI, LA SELEZIONE NATURALE DEL GRUPPO OPERA IN UN NUOVO REGIME RIPRODUTTIVO
COLLO DI BOTTIGLIA E FORMAZIONE DEL GRUPPO FONDATORE
QUANDO UNA SPECIE È RIDOTTA IN MODO DRASTICO DI NUMERO PER UN EVENTO CHE NON È DOVUTO ALLA SELEZIONE NATURALE, MA, COME IN QUESTO CASO, ALLA SELEZIONE ANTROPICA, SI FORMA UN GRUPPO FONDATORE CHE PRESENTA UN POOL GENICO CASUALE IN QUANTO IL GRUPPO NON INCORPORA TUTTA LA VARIABILITÀ GENETICA DELLA SPECIE
EFFETTO DEL FONDATORE
I CAMBIAMENTI CHE SI PRESENTANO SONO ORA LEGATI AI GENI E ALLE FREQUENZE ALLELICHE PRESENTI IN QUESTO GRUPPO FONDATORE, CIOÈ ALLA PICCOLA PORZIONE CASUALE, STOCASTICA, DI VARIAZIONE DI CUI IL GRUPPO FONDATORE È PORTATORE E CHE IL NUOVO REGIME RIPRODUTTIVO PERMETTE E MANIFESTA
SPECIAZIONE
NE SEGUE UNA DERIVA GENETICA PIÙ DRASTICA DI QUELLA PRESENTE NORMALMENTE (NELLA QUALE LA FREQUENZA DEGLI ALLELI CAMBIA CON RELATIVA LENTEZZA) POICHÉ LA RIORGANIZZAZIONE GENETICA IN ISOLAMENTO ANTROPICO PERMETTE MUTAMENTI EVOLUTIVI MOLTO PIÙ RAPIDI, CIOÈ LA FORMAZIONE D’UNA NUOVA SPECIE [1]

[1] Si tratta d’una popolazione d’individui interfecondi geneticamente isolati da barriere antropiche.

Tabella n.  . Fonte (modificata): Clutton-Brock, 2001, pp. 46-47.


Da ricordare, infine, che nelle società pastorali e agricole, data la stretta convivenza tra uomini e animali, questi ultimi presentano anche l’inedito fenomeno della zoonosi (a antropozoonosi), cioè possono essere agenti patogeni in quanto trasmettono malattie, a volte anche letali all’uomo (per esempio, Sus domesticus è il principale ospite intermedio di parassiti del sistema gastrointestinale umano, come il verme solitario o tenia armata, o i bovini domestici lo sono per la tenia inerme etc.; ma su questa questione, v. infra). 

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